La domanda di un soggetto che soffre di disturbi del comportamento alimentare implica una mobilitazione di risorse e competenze che devono sapersi costituire in rete in maniera stabile e continuativa nel tempo. La multidisciplinarietà dell’intervento, punto oggi imprescindibile, passa per una rigorosa divisione dei saperi.
Nella maggioranza dei casi, come in quelli sottoesposti, la prima richiesta d’aiuto, che non necessariamente contiene una domanda di cura, viene portata al medico di famiglia, il quale deve possedere strumenti ben tarati ed affinati per valutare l’effettiva presenza e l’entità di un disturbo dell’alimentazione. In questa prospettiva la presenza del nutrizionista è d’obbligo in quanto è a questa figura che si chiede e si demanda una valutazione dei parametri corporei del richiedente. Una valutazione non solo necessaria per la formulazione di una diagnosi appropriata di DCA, ma utile anche a fotografare il qui ed ora corporeo del soggetto in sofferenza, viatico necessario per coadiuvare ed orientare il lavoro delle altre figure coinvolte.
La questione diagnostica è un elemento cruciale rispetto alla progettazione di un piano terapeutico riabilitativo centrato sulla singolarità del richiedente. Oggi infatti i parametri per definire i DCA sono oggetto di costante discussione: la diagnosi dell’anoressia nervosa è definita dai criteri del DSM IV e dell’ICD 10, ma si calcola che una percentuale dal 40 al 60% dei pazienti con disturbi del comportamento alimentare non soddisfi i criteri diagnostici del DSM IV e questa indeterminazione appare potersi tradurre in una prognosi più problematica. Una buona parte di questi pazienti non ha però caratteristiche così lontane da quelle dei pazienti ‘codificabili’. Thomas, in una recente meta-analisi in vista della ridefinizione del DSM 5, sottolinea come alcuni dei criteri distintivi della Anoressia nervosa siano fragili. In particolare l’amenorrea e la soglia di dimagrimento non sembrano essere predittivi rispetto al decorso della malattia: uno studio che rivede questi due criteri permette di recuperare dalla categoria ‘Disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificati’ il 15,5% dei casi. Viceversa l’assenza della paura di ingrassare pare sia collegata ad un decorso più benigno e dunque potrebbe identificare un diverso sottogruppo.
La funzione dello psicoterapeuta è in prima istanza quella di garantire un percorso di soggettivazione, libero da parametri medici e nozioni di ordine nutrizionale. Un cammino che rinunci alle questioni ponderali che il soggetto sa essere affrontate e trattate in separata sede. In pratica, il clinico ha in un primo tempo il compito di togliere quell’etichetta che sovente ha intrappolato il paziente in un percorso che ne può impedire la rettifica soggettiva. Tali etichette rinforzano i processi identificativi che molti soggetti affetti da DCA difficilmente classificabili vanno cercando, fungendo da strumento capace di offrire un’appartenenza al ‘gruppo dei’, favorendo un temporaneo transito in una zona franca che ponga rimedio alla caduta di quei punti di riferimento dei quali parla Freud in ‘Psicologia delle masse e analisi dell’Io’. Anoressiche, Bulimiche, persone con Binge Eating Disorder possono definirsi individui i quali, pur non conoscendosi tra loro, sentono di appartenere al gruppo ‘di quelli che hanno quella cosa’. Possono contare su un Altro virtuale, reperibile, che li tiene raggruppati.
Nei casi sotto descritti sembra venire a mancare quel requisito della monosintomaticità, non c’è stata l’inclusione o la ricerca di un’associazione che recluti in virtù di un identico tratto comune. La formulazione di una diagnosi differenziale condivisa assume dunque un valore maggiore quando ci si trova in presenza di soggetti a rischio di scompenso psicotico. Nelle psicosi compensate il corpo magro funge in molti casi da elemento di ‘tenuta’, reperito e rinforzato per evitare scompensi più profondi e gravi, dovuti per l’appunto a strutture più fragili non deflagrate.
In tal caso il concetto di ‘guarigione’ che sovente soddisfa il corpo medico, basato sul solo recupero ponderale, lavora contro il mantenimento dell’omesotasi raggiunta dal soggetto con il suo sintomo. Il lavoro del gruppo clinico, e qua fondamentale l’apporto dello psicoterapeuta, deve saper tradurre nel lessico medico concetti quali equilibrio, tenuta, compensazione, che spesso vanno al di là del semplice aumento di peso. In pratica l’aumento di peso non necessariamente significa guarigione, quanto l’abbandono di una posizione compensata che apre a squilibri più profondi.
Vediamo per exempla quanto descritto. I dati anagrafici, lavorativi e geografici dei casi descritti sono modificati in modo da rendere non riconoscibili i pazienti. Ne resta immutato il canovaccio di vita.
Lisa si rivolge al medico di famiglia a causa di forti dolori addominali che perdurano da circa due mesi. Gli esami ai quali il medico la sottopone evidenziano un grave prolasso delle pareti intestinali causati dalla perdita di peso. Lisa ha 22 anni, da poco più di due ha iniziato un dimagrimento che l’ha portata al di sotto dei 40 kg. Il medico la invia per una consultazione al locale ospedale dove il chirurgo le prospetta un intervento per ripristinare le pareti collassate. Un intervento risolutivo che lei rifiuta. Il medico la invia presso il mio studio con una nota ‘la ragazza rifiuta le cure. E’ refrattaria all’idea di guarire’. Due anni e mezzo fa è uscita dalla casa dei genitori con un uomo più vecchio di 5 anni. Lui se ne va circa un anno dopo, provocandole un crollo di una certa entità, che vede l’acuirsi della sua magrezza. Aveva già iniziato una dieta un anno prima di uscire di casa, ma quella separazione porta ad un esito drastico (30 kg in meno di otto mesi). Non fa ritorno dai genitori, ma si fidanza con un ragazzo conosciuto in discoteca e lo porta a casa sua. In pochi mesi questa storia ha termine. Chiama allora a convivere un vecchio amico di infanzia. Quando hanno inizio le sedute, costui è in procinto di andarsene.
L: Mia madre ha detto che, visto che Gianni (l’attuale coinquilino) sta per andarsene, sarebbe il caso di tornare là, con loro, ma io non tornerò mai più a casa con lei!
T: E perché?
L: Lei entra in camera, entra dappertutto. Per ogni cosa facciamo liti furibonde!
La vita con la madre viene descritta come un inferno: una presenza incombente e penetrante.
Poi, e questo è un ritornello che ritornerà in tutte le sedute, copre tutto con un ‘Ma io la amo. Lei è tutto per me’. Poi aggiunge: ‘I miei genitori non si sono mai accorti che stavo male. Oggi almeno con la questione del mio prolasso, vedono quanto soffro’. Per contro il padre è descritto non all’altezza, inerme e disinteressato a lei e alle vicende familiari. Le sedute seguenti sono un’alternanza di descrizioni di un rapporto impossibile, e frasi del tipo ‘ma non mi separeranno mica da mia madre, vero? Io non mi posso staccare da lei’.
Prima di uscire di casa, una lite con la madre, contraria a questa scelta, sfociò in un suo defenestramento.
Dopo la sua dipartita hanno continuato a frequentarsi regolarmente. Solo adesso dice che il primo ragazzo se ne andò anche per questo.
E’ passato un anno e mezzo dal primo colloquio e Lisa ha ripreso gran parte del suo peso. Ha trovato un piccolo lavoro serale per sopperire all’affitto che è venuto a mancare. La madre, dopo che ella ha dichiarato di non voler fare ritorno a casa, è scivolata in una depressione di una certa entità accompagnata da grave calo ponderale. Continuano a vedersi, alternando momenti di pace a feroci litigi causati dalla richiesta materna di ritorno a casa. Richiesta alla quale fa seguito un aggravamento della patologia rettale di Lisa, con conseguente ricovero in day hospital.
Quando Lisa è entrata nel mio studio il coinquilino era in procinto di andarsene, cosa che aveva provocato in lei una forte crisi d’angoscia. Un affetto che era giunto ad un culmine insopportabile, in tutto simile a quello provato al momento della separazione dal primo compagno, quando si aprirono le porte per un possibile ritorno dalla madre.
La costruzione anoressica di Lisa, iniziata tra le mura domestiche, non ha sortito nel tempo l’effetto di elemento separatore e protettivo. Ella ha pertanto dovuto aggiungere a ciò la presenza di un uomo per pagarsi una casa lontana dalla madre, anzi, più uomini in successione. Ecco allora l’origine dell’angoscia delle prime sedute, legata all’avvicinarsi della presenza materna fagocitante, angoscia che raggiunge il culmine quando la risposta al quesito cosa vuole l’Altro da me? appare nefasta: tornando a casa, lei può divenire l’oggetto preso. Ecco allora, cadute queste due putrelle, l’identificazione alla patologia rettale. Più attuale, ma conseguenza medica della magrezza fisica, sintomo più strutturato e antico. Un nuovo strumento col quale Lisa ricostruisce la barriera, più funzionale dell’armatura anoressica, che può quindi essere lasciata cadere. Da qua il significativo recupero ponderale che stupisce molti medici, che la ritenevano ‘guarita dall’anoressia’.
Questo rapporto semi simbiotico con la madre appare essenziale alle due per sostenersi. E’ qualcosa di non sopportabile, ma nemmeno di risolvibile. Non può stare troppo vicino a lei, ma allontanarsene sembra preludere a uno scompenso. Consapevole della natura fagocitante, cerca di renderlo il meno pericoloso possibile. Come un tossicomane che utilizza la droga come elemento curativo ad una sottostante struttura a rischio di scompenso, rendendola meno pura e più tollerabile, senza però mai mettere in dubbio la sua necessità di continuare ad assumerla.
Quando Lisa dice: ‘nessuno mi separerà da mia madre’, e ‘io lo so che la faccio soffrire non tornando a casa e a causa di questa mia malattia’, indica la volontà non dialettizzabile di mantenere il legame inalterato. Ci si aspetterebbe, in caso di nevrosi, un momento di elaborazione, di rettifica, che spinga il soggetto a prendere atto del rapporto causa effetto che governa il meccanismo.
Invece lei aggiunge: ‘Non so perché. Io e lei siamo legati in questo modo. Non mi chieda altro. Lo stare assieme non si discute’.
Con che tipo di anoressia abbiamo a che fare in questo caso? Un’anoressia durata circa tre anni e oggi ‘risolta’ in poco tempo in prospettiva peso/sopravvivenza. Questo rimanda alla questione della diagnosi differenziale. Lisa non ha mai operato alcuna rettifica in merito al suo dimagrimento. Mai ha domandato aiuto. Cioè non ha mai avvertito, come di solito avviene col nevrotico, che quel sintomo avesse raggiunto un livello di dolore non più gestibile tale da giustificare una messa in discussione. Non siamo quindi nell’ordine del sintomo nevrotico ‘dal quale il soggetto non chiede che di liberarsi’. Di più, l’attenuarsi dell’anoressia ha coinciso con l’adesione pressochè totale ad un altra forma di malattia, con la quale ha tutt’ora un identificazione totale.
Questa malattia:
- le permette di tenere una giusta distanza dalla madre
- le permette di far pagare alla madre qualche conto arretrato (‘anche lei adesso sta male!’)
- le garantisce quel riconoscimento che con la fase anoressica non era mai arrivato (‘Ora vedono che sono ammalata’)
- riesce ad agganciarsi ad un discorso medico, molto articolato, fatto di visite e ricoveri. Insomma l’Altro le riconosce lo status di malata e le dà un posto. Ecco allora che la patologia rettale, più che l’anoressia, le permette di reperire un significante col quale riesce ‘a farsi rappresentare e organizzare il (suo) mondo’. Possiamo parlare di un elemento che funge da tenuta. Dunque non una produzione dell’inconscio, quanto piuttosto un elemento inanalizzabile. Nella prospettiva psicoanalitica lacaniana il sinthomo è un ‘elemento riparatore(..),una guarigione, un elemento terapeutico’. Qualcosa che ‘non è da interpretare, ma è da ridurre, e non è da guarire, ma si presenta perché se ne faccia uso’.
Un ponte che garantisce il contatto e la via di fuga, che per definizione, non può essere ‘guaribile’. Questo mi ha fatto riflettere sul furor sanandi di molti medici. A cosa sarebbe andata incontro se avesse accettato la proposta di ripristinare le sue pareti rettali strappandole di colpo un sintomo così elaborato? Avrebbe aperto le porte ad uno sfaldamento del soggetto? Non a caso lei ha detto no all’intervento.
F è una ragazza di 13 anni, che vedo in studio quando sta per dare l’addio alla vita, chiusa in una spirale anoressizzante che ha condotto lei e la famiglia sull’orlo del baratro. Ha peregrinato per diversi centri dedicati alla cura dei DCA, in Italia e all’estero, mostrando sempre una reazione avversativa alle imposizioni alimentari che di volta in volta le venivano prescritte. Quando la vedo le chiedo se abbia desiderio di parlare di qualcosa, qualsiasi cosa. Mi risponde: ‘Tutto, tranne che del mio peso. Non voglio diete, ordini, prescrizioni’. ‘Va bene’. Decido, assumendomi tutti i rischi che una scelta di questo tipo comporta, di non colludere con la questione alimentare con la quale lei ha cercato di tenere sotto scacco l’Altro familiare e sanitario. Stupendo i genitori, abituati ad una riottosità indomabile, ella accetta di proseguire le sedute e, anzi chiede di anticiparne alcune. Il tempo passa, il sintomo si scioglie. Momenti di abbuffata vincono la rigidità del controllo calorico, e riportano la ragazza in peso garantendo la sopravvivenza. Tuttavia, come avevo previsto, vista la severità del caso, si trattava di un anoressia di tipo psicotico, per cui l’attenuazione del sintomo sarebbe stato il prodromo ad una serie di progressivi cedimenti. Andava fatto, perché F. era vicina alla consunzione corporea. Questo mio movimento ha fatto esondare una melanconia pregressa, a sigillo della quale l’anoressia era stata posta, fatta di ritiro sociale ed isolamento con sensi di persecuzione in classe. Fenomeni che vengono ascoltati, accettai e con lei discussi, giorno dopo giorno, momento dopo momento, crisi dopo crisi. Non vi erano alternative. Questa ragazza si stava lentamente chiamando fuori dalla vita. Il mio atto deciso, quello di scegliere un altro discorso lasciando fuori dallo studio calorie e peso, ha significato la perdita di valore dello strumento anoressico come mezzo di contrattazione con l’Altro. Uno strumento ormai usurato, che stava conducendo la giovane ragazza al dissolvimento come i medici avevano ormai constatato senza poter fare nulla, poiché essa non rispondeva nemmeno più ai ricoveri coatti con alimentazione indotta serrando la bocca. Il modo col quale si fa da segretario al paziente nella fase post sintomatica, erroneamente scambiata da molti medici per guarigione, consiste in un’opera minuziosa di attenzione e cura dei minimi particolari di parola che ella lascia cadere. Dunque un ascolto incondizionato, una reperibilità telefonica pressoché costante. Un sostegno familiare e un appuntamento periodico con il corpo insegnate con lo scopo di dare loro strumenti clini per sostenere il cammino di F. Il meccanismo funziona. Lei non è più in pericolo di vita, questo è stato ben accettato da tutti. Quello che non viene accettato sono le intemperanze comportamentali, l’aggressività, la scelta di abbandonare alcune attività scolastiche privilegiandone altre. La violenza di stampo paranoico. Litiga spesso, si è iscritta ad una squadra di pallavolo. Porta tutto ciò che la spaventa in studio. (‘Lo so che non è del tutto vero! Ma nella partita di sabato, due avversari mi guardavano male, in modo tale da farmi arrabbiare!!’).
Sono sopraggiunte allucinazioni notturne, non ben definite, ma avvertire con lucidità. A tale scopo è trattata con antipsicotici.