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Compassion Focused Therapy ed emozioni: quale rapporto? Intervista al Dott. Nicola Petrocchi

La Compassion Focused Therapy è un approccio multimodale che incorpora i contributi provenienti da CBT, neuroscienze e teorie evoluzionistiche

Di Valentina Nocito

Pubblicato il 15 Gen. 2020

Compassion Focused Therapy (CFT), un approccio molto giovane, ma dalle fondamenta piuttosto solide che, in modo gentile e non giudicante, ci allena a sviluppare la capacità di alleviare le nostre emozioni, siano esse primarie o secondarie.

 

I pazienti hanno bisogno di sentire il cambiamento e non soltanto di capire razionalmente.

Nel presente articolo verrà condiviso quanto emerso da un’intervista fatta a Nicola Petrocchi (ndr: il video delll’intervista integrale è riportato a fine articolo), rappresentante italiano dell’approccio Compassion Focused Therapy (CFT) e verrà approfondito il rapporto che intercorre fra quest’ultimo e la dimensione emotiva del paziente.

La CFT è un approccio multimodale che incorpora i contributi provenienti da diversi ambiti della terapia cognitivo comportamentale, dalle neuroscienze, dalle teorie evoluzionistiche e dalle filosofie buddhiste. La CFT si affaccia sul panorama della terapia cognitivo comportamentale di terza generazione e prende piede in Inghilterra a partire dal 2005 grazie ai lavori di Paul Gilbert, diffusi anche in Italia grazie alla collaborazione diretta di Nicola Petrocchi con lo stesso Paul Gilbert.

Compassion Focused Therapy ed emozioni: quale rapporto?

Nicola Petrocchi spiega come la Compassion Focused Therapy nasca proprio per rispondere a questa domanda.

Lo stesso Paul Gilbert, terapista cognitivo comportamentale, notò come alcuni suoi pazienti non riuscivano a cambiare il loro stato di sofferenza solo mediante le tradizionali tecniche di ristrutturazione cognitiva; i pazienti infatti riferivano, seppur diventati abili nell’individuare i propri errori di pensiero ed effettuare una ristrutturazione cognitiva in autonomia, di non “sentirli propri.”

Petrocchi riporta il racconto dello stesso P. Gilbert circa una sua paziente divenuta molto brava nell’applicare la ristrutturazione cognitiva, nel saper sviluppare pensieri alternativi e più funzionali, ma il limite consisteva nel “non sentire quei pensieri come veri”. Paul Gilbert, a tal proposito, sospettò che nella mente del paziente ci fosse qualcosa di “spento, off-line”, tale ragionamento comportò lo spostamento verso una domanda: quale emozione, sistema emotivo e motivazionale in questi pazienti, soprattutto molto autocritici, sembrerebbe essere spento? A tal proposito Paul Gilbert, in riferimento ai contributi delle neuroscienze, ha cominciato a spostare la sua attenzione sull’esistenza di tre sistemi di regolazione emotiva che, come ricorda Nicola Petrocchi, è utile spiegare in terapia anche ai nostri pazienti. Tre sistemi di regolazione emotiva con una loro specifica funzionalità: uno è il sistema di minaccia (threat system) che ci consentirebbe di sperimentare un insieme di emozioni come paura, rabbia e disgusto, emozioni che sarebbero protettive per l’essere umano, ossia si attiverebbero in risposta ad elementi di minaccia. Ma la cosa interessante nel lavoro di Paul Gilbert fu individuare ed approfondire il ruolo di altri due sistemi emotivi e motivazionali associati ad emozioni positive, ma con effetti e funzioni diverse: il sistema di ricerca di stimoli e risorse (drive system) o sistema dopaminergico, energizzante, utile alla ricerca di risorse sociali, o di cibo e che offre al corpo un aumento di energia; ed infine un terzo sistema denominato sistema calmante (soothing system) di bassa attivazione che consente di sperimentare un senso di calma, di pace e di rilassamento, da non fraintendere con lo stato di addormentamento. Un simpatico esempio al quale Nicola Petrocchi fa riferimento per spiegare questo terzo sistema di regolazione emotivo ha a che fare con il comportamento osservabile nei gatti, i quali, una volta riusciti a sfuggire alle minacce, soddisfatti dal quantitativo di cibo, riescono ad entrare in uno stato di quiescenza in cui non dormono, ma attingono alle risorse del sistema parasimpatico.

Petrocchi sottolinea come in terapia è frequente individuare nei pazienti alti livelli di attivazione del sistema di minaccia, ma anche alti livelli legati al drive system con manifestazioni di orgoglio, superiorità, ricerca di stimoli; molti pazienti sembrano invece non riuscire a sperimentare le emozioni attinenti al sistema calmante, perché quelle sensazioni risulterebbero quasi essere associate ad una condizione di minaccia in quanto non familiari, o perché sperimentate come una perdita di controllo di se stessi o dell’ambiente e dunque una maggiore sensazione di vulnerabilità.

In tal senso, la CFT lavora proprio nell’allenare la persona a sviluppare maggiori abilità di percepire queste emozioni calmanti aumentando per l’appunto tale sistema emotivo e motivazionale, in quanto se non si riesce in questa impresa, sottolinea Nicola Petrocchi, il solo lavoro sulla dimensione cognitiva con i pazienti non consentirebbe il cambiamento. Una ricerca del 2008 di Paul Gilbert, ha dimostrato che avere alti livelli di emozioni positive di carattere energizzante non proteggerebbe quanto alti livelli del sistema calmante. L’attivazione del sistema calmante si accompagna inoltre a cambiamenti come aumento di ossitocina e maggiore variabilità interbattito, dunque cambiamenti anche fisiologici (più funzionali per l’organismo) ed oggettivamente riscontrabili.

Senso di colpa e vergogna: quale ruolo nella sofferenza del paziente e come lavora la CFT

Per rispondere a questa seconda domanda, Petrocchi ricorda che l’approccio della Compassion Focused Therapy, diversamente da molti altri approcci, affonda le sue origini nella psichiatria e psicologia evoluzionistica e molti fenomeni, oggetto di lavoro all’interno della CFT, si possono comprendere ricordando che noi siamo dei mammiferi, ma a differenza degli animali abbiamo subito un processo evolutivo, ed in tale processo abbiamo sviluppato un senso del sé con funzioni superiori che ci distinguono dagli animali, comprendente anche una serie di funzioni come ad esempio la capacità di andare avanti e indietro nel tempo, di prevedere eventi futuri, cosa che per l’appunto gli animali sembrerebbero non possedere. Nicola Petrocchi da tale premessa si ricollega al fatto che l’essere umano è un animale ipersociale, ovvero che alla pari di altri bisogni, sperimenterebbe il bisogno di essere visto bene dal resto del gruppo. Colpa e/o vergogna fungerebbero da segnali che il proprio senso di appartenenza sarebbe compromesso o minacciato.

Nella Compassion Focused Therapy, a differenza della tradizionale distinzione presente in letteratura tra colpa e vergogna, si va ad osservare da quale sistema motivazionale queste due emozioni scaturiscono.

La colpa sarebbe direttamente connessa al sistema motivazionale di accudimento e pertanto, spiega Nicola Petrocchi, al percepire di tale emozione sentiamo il bisogno di mettere in atto un comportamento riparativo; se invece proviamo vergogna, il sistema motivazionale sarebbe più connesso al rango, dove l’accudimento sarebbe poco rilevante e l’emozione molto più collegata a tutelare e riparare la propria immagine.

Dopo tale premessa, Nicola Perrocchi ci spiega come si lavora con il paziente in merito a queste due emozioni. Dalla psicoeducazione, dove si spiega ed approfondisce quanto esposto sopra, ad esercizi che allenino e sviluppino una mente compassionevole, capace di riconoscere la sofferenza in se stessi e negli altri ed essere spinti dal desiderio di fare qualcosa per alleviare tale sofferenza. Un esempio che Petrocchi cita durante l’intervista è l’esercizio della sedia compassionevole, dove il sé compassionevole possa parlare alla parte di sé che prova vergogna, che vorrebbe nascondersi, che sente di non essere degno di appartenere al gruppo, e dunque si aiuta il paziente ad uscire da uno stato di motivazione che lo incastra generando sofferenza, attivando una motivazione compassionevole che possa in qualche modo regolare le emozioni che in quel momento lo fanno soffrire, sviluppando la capacità di auto-calmarsi, sospendendo il giudizio e l’autocritica, allenandosi contemporaneamente anche ad aprirsi e ricevere la compassione che viene dagli altri.

Petrocchi inoltre, tiene a sottolineare che seppur la compassione deriverebbe dall’attivazione del sistema di accudimento, esisterebbero delle differenze sostanziali tra un sistema di accudimento e sistema calmante e compassionevole. Mentre il sistema di accudimento si attiverebbe con i propri familiari, la compassione ha molte più opportunità di attivarsi in modo più esteso anche a persone non facenti parte della nostra linea genetica.

Un sistema motivazionale dunque diverso dal sistema di accudimento e che per essere tale, deve rivolgersi agli altri quanto a noi se stessi.

Inoltre, continua a spiegare Petrocchi, quando siamo in un sistema di accudimento, chi accudisce reprimerebbe l’empatia verso se stesso per prendersi cura dell’altro, mentre quando siamo nel sistema compassionevole questo cosa non avverrebbe, in quanto la sensibilità alla sofferenza ed il voler fare qualcosa per alleviarla è rivolta all’altro, quanto a se stessi.

CFT: con quali pazienti è più efficace?

L’aspetto “ambizioso” della Compassion Focused Therapy, sottolinea Petrocchi, non è quello di rappresentare l’ennesima terapia, ma di fare terapia creando connessione tra i contributi provenienti dalle psicologie evoluzionistiche, dalle teorie dell’attaccamento, dalle neuroscienze e che mettono in luce la complessità dell’essere umano.

In tal senso, secondo Petrocchi la CFT, può essere considerato un approccio transdiagnostico che potrebbe predisporre il paziente a maggiori benefici verso qualunque percorso psicoterapeutico o indistintamente dal suo problema iniziale (l’unica condizione ancora incerta riguarderebbe i pazienti con tratti di psicopatia, ma sono in corso studi in Portogallo che stanno svolgendo approfondimenti in merito). I benefici di un intervento di Compassion Focused Therapy, in una fase iniziale di un percorso psicoterapeutico, riguarderebbero, secondo i sostenitori di tale approccio, lo sviluppo di quel sistema calmante e, di conseguenza, della capacità auto-calmarsi nella persona, associato anche, a livello fisiologico, a cambiamenti più funzionali per l’organismo, come ad esempio l’aumento di ossitocina ed l’aumento della variabilità interbattito (o HRV), che consentirebbero un maggior equilibrio e bilanciamento tra sistema nervoso simpatico e sistema nervoso parasimpatico.

Per ulteriori approfondimenti  rispetto a quest’ultime informazioni, e soprattutto in riferimento al ruolo della variabilità interbattito (HRV) e disagio psichico, Petrocchi ci rimanda ad una sua ultima pubblicazione. In tale articolo vengono condivisi i risultati di una ricerca che metterebbe in evidenza come i pazienti che ad inizio terapia presentano una variabilità interbattito più bassa, sperimenterebbero anche maggiori difficoltà di aderenza alla terapia e maggiori casi si droup–out. Secondo sempre la ricerca contenuta nell’articolo a cui si riferisce Petrocchi, pazienti con una variabilità interbattito più alta, sarebbero pazienti in grado di beneficiare maggiormente degli effetti di una psicoterapia.

Un’ultima informazione che Petrocchi ci ha anticipato durante l’intervista ha a che fare con l’applicazione della CFT alla terapia di gruppo e la realizzazione in corso di un manuale in merito.

Compassion Focused Therapy, un approccio dunque molto giovane, ma dalle fondamenta piuttosto solide che in modo gentile e non giudicante ci allena a sviluppare la capacità di alleviare le nostre emozioni, siano esse primarie come paura, rabbia e dolore, o secondarie come nel caso della colpa e della vergogna!

 

COMPASSION FOCUSED THERAPY – GUARDA L’INTERVISTA INTEGRALE A NICOLA PETROCCHI:

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Valentina Nocito
Valentina Nocito

Psicologa e Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale

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