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Il possibile ruolo delle neuroimmagini nell’identificazione dei pazienti con disturbi dell’umore a rischio suicidario

Un recente studio ha indagato se nei pazienti con pregressi tentativi di suicidio potessero essere riscontrate delle differenze nel funzionamento cerebrale

Di Giulia Giribono

Pubblicato il 30 Ott. 2019

Ad oggi il suicidio rappresenta un’importante causa di morte soprattutto tra i giovani ed in particolare tra quelli con disturbi dell’umore; l’utilizzo delle neuroimmagini può costituire uno strumento efficace per indagare i fattori di rischio in modo da agire in direzione preventiva e per poter mettere a punto trattamenti mirati.

 

A livello mondiale il suicidio risulta la seconda causa di morte nella fascia d’età 15-29 anni (World Health Organization, 2019). Il tasso di suicidio presenta un continuo incremento in questa popolazione, soprattutto in coloro che hanno disturbi dell’umore, quali il Disturbo Depressivo Maggiore e il Disturbo Bipolare. Nonostante la gravità di tale problematica, al momento esistono pochi strumenti che permettano di individuare quali persone possano essere maggiormente a rischio di comportamenti suicidari.

Risulta quindi necessario giungere a una migliore comprensione dei fattori di rischio che predispongono alla messa in atto di comportamenti suicidari, inclusi quelli di tipo neurobiologico, in modo da sviluppare migliori modelli predittivi e trattamenti mirati che vadano a diminuire l’entità di tale problematica. In uno studio recentemente pubblicato su Psychological Medicine, Stange e colleghi (2019) hanno individuato differenze rispetto alla connettività in alcuni circuiti cerebrali che potrebbero essere associate alla messa in atto di comportamenti suicidari in pazienti con disturbi dell’umore.

In una prima fase dello studio sono stati selezionati 212 giovani adulti, di fascia d’età compresa tra i 18 e i 29 anni, provenienti dalla University of Michigan e dalla University of Illinois at Chicago, parte dei quali aveva un disturbo dell’umore in remissione (130), mentre la restante parte non aveva mai avuto problematiche di tipo psicopatologico (82). Dei partecipanti con un disturbo dell’umore in remissione, 18 avevano tentato il suicidio in passato, 60 avevano avuto solo pensieri relativi al suicidio mentre 52 non avevano avuto né pensieri né comportamenti legati al togliersi la vita.

Durante lo studio, sono state eseguite delle scansioni cerebrali tramite l’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI) sui partecipanti in stato di riposo, al fine di indagare se, nei pazienti con pregressi tentativi di suicidio, potessero essere riscontrate delle differenze rispetto al funzionamento cerebrale. In particolare, sono state prese in considerazione aree che erano risultate associate ai disturbi dell’umore in studi precedenti, quali il cognitive control network (CCN), un sistema che coinvolge aree fronto-parietali e dorsali associate alle funzioni esecutive e al problem-solving, il salience and emotional network (SEN), il quale comprende aree limbiche e ventrali e si attiva in risposta a stimoli, anche emotivi, che risultano rilevanti rispetto agli obiettivi attuali, e il default mode network (DMN), il quale si attiva in corrispondenza della formulazione di pensieri riferiti a sé e in assenza di stimoli esterni.

In seguito all’analisi dei dati, Stange e colleghi hanno rilevato che, rispetto agli altri partecipanti allo studio – compresi coloro che avevano avuto pensieri inerenti al suicidio – i partecipanti che avevano tentato il suicidio mostravano un’attenuazione rispetto alla connettività sia all’interno del cognitive control network sia tra quest’ultimo e il default mode network. Tali risultati suggeriscono che gli individui con disturbo dell’umore in remissione che hanno tentato il suicidio in passato potrebbero avere un pattern connettivo tratto-specifico in network coinvolti nel controllo cognitivo e nel pensiero rivolto a sé. Viene inoltre messo in luce che la risonanza magnetica funzionale eseguita su individui in stato di riposo potrebbe risultare uno strumento promettente per l’identificazione delle basi neurali del rischio suicidario in pazienti con disturbi dell’umore.

Gli autori hanno ipotizzato che, dato che il DMN risulta attivo durante il riposo e durante forme di autoriflessione, quali ad esempio la ruminazione, e che il CCN facilita le funzioni di controllo cognitivo, gli individui che hanno difficoltà a smettere di ruminare mentre sono in uno stato di riposo potrebbero presentare una minore sincronizzazione tra questi due network. Dato che la ruminazione risulta un fattore di rischio rispetto all’ideazione e al comportamento suicidario (Rogers & Joiner, 2017), ricerche future potrebbero approfondire se la presenza di difficoltà di connessione tra queste due regioni possa predisporre alla messa in atto di comportamenti suicidari, analizzando il ruolo della ruminazione come possibile manifestazione comportamentale di tale difficoltà.

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