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Il confine del non curabile

Che relazione abbiamo con l’impotenza? Come cambierebbe il nostro lavoro se ci fosse la possibilità e si riconoscesse il concetto della "non curabilità"?

Di Fabiana Di Segni

Pubblicato il 23 Ott. 2019

Aggiornato il 25 Ott. 2019 10:11

La medicina riconosce i suoi limiti e di fronte a mostruose e terribili patologie croniche e progressivamente degenerative alza le mani, con umiltà e senza pregiudizio alcuno. In questo tempo sospeso della non curabilità dove si collocano la psichiatria e la psicoterapia? 

 

Medici, psichiatri, psicoterapeuti, associazioni, tutti abbiamo combattuto per anni nel difendere il diritto al non accanimento terapeutico invocando il tema della dignità personale, tuttavia di fronte alla malattia psichica la comunità scientifica si divide tra chi riconosce e accetta i propri limiti professionali e umani e chi invoca la possibilità di guarigione all’infinito fino allo sfinimento. In questo tempo sospeso della non curabilità dove si collocano la psichiatria e la psicoterapia?

Sono consapevole della provocazione, da tempo mi chiedo cosa accadrebbe se il mondo psichiatrico e psicoterapeutico facesse outing e dichiarasse apertamente che non tutto è curabile e che alcune volte la sofferenza è così enorme, pervasiva e destabilizzante che bisognerebbe lasciar libero il paziente di scegliere? E cosa vuol dire scegliere? Cosa comporta l’esercizio del libero arbitrio in situazioni di cronicità psichiatriche? In cosa si differenzia una malattia psichica da una fisica? Il tema centrale a mio avviso è l’invisibilità del nodo, della matassa matrice. La malattia psichiatrica è un danno non sempre visibile e manifesto, spesso i suicidi avvengono in maniera silenziosa. Il nodo sta nel non poter conoscere e certificare in maniera indiscutibile il contenuto della patologia e nella variabilità delle prospettive future sia in positivo che in negativo. Noi possiamo vedere un paziente star male, ma non siamo in grado di misurarne la profondità della sofferenza. Quando un essere umano fisicamente sano e mentalmente consumato ha il diritto di dire basta?

No, “Non tutto è curabile o guaribile“. Questa frase solo a sentirla pronunciare crea una cassa di risonanza, un buco nero del pozzo della paura, la cattiveria impavida dell’impotenza, una reazione di chiusura ed evitamento per le conseguenze che ne derivano interne e esterne all’individuo e alla società. Ipotizzo che se si ammettesse pubblicamente la non guaribilità di alcune patologie verrebbe meno in primis la speranza del curato e del curante del cambiamento e tale assenza inficerebbe i risultati ottenuti. Non sarebbe certo accettabile un ritorno al passato in cui si stigmatizza la malattia mentale, in nome di tutti gli sforzi che la psichiatria di tutto il mondo sta facendo per il superamento definitivo dello stigma stesso e luce di tutta la letteratura che la comunità scientifica sta producendo per conquistare, passo dopo passo, una dimensione medica al disturbo psichico e una dignità clinica al malato di mente.

Noi professionisti siamo supereroi? Che relazione abbiamo con l’impotenza? Come cambierebbe il nostro lavoro se ci fosse la possibilità e si riconoscesse il concetto della non curabilità? A pensarci bene potrebbe essere in una visione positiva un momento sociale di onestà in cui ciascuno si riapproprierebbe delle sue responsabilità, il curatore e il curato, ciascuno con la sua parte, perché in fondo è doloroso, ma anche onesto, essere consapevoli che ogni volta che si inizia una cura si parte con due opzioni: o si guarisce o si migliora oppure il dolore ritorna e la conoscenza di questa scoperta ti è data solo alla fine del viaggio. Intendo dire che spesso quelle che noi chiamiamo in termini tecnici ricadute, contribuiscono alla cronicità della malattia e ogni sua recidiva stabilizza il sintomo. In cosa consiste la ricaduta? Quali sono le variabili che possiamo indicare come portatrici di stabilità o portatrici di malessere? A volte micro cambiamenti possono sembrare miglioramenti infiniti agli occhi di un terapeuta, ma la profondità del dolore nell’altro resta e credo sia nostro compito guardare dentro questa profondità con maggior rispetto e attenzione e con meno arroganza intellettuale.

In tutte le repliche della cura la possibilità di successo a volte diminuisce e ci si confronta con l’idea di migliorare la qualità della vita, ma non di ripristinare un movimento omogeneo, lavorando per esempio più sull’accettazione del sintomo e sulla sua lettura piuttosto che su un cambiamento possibile, si genera a mio avviso una coazione a ripetere. Ma perché uno deve accettare? Perché questo spirito di sopportazione estrema? E’ opportuno porre più attenzione alle variabili che determinano il cambiamento, che troppo spesso ci sono ignote. Purtroppo in tutti quei casi in cui ci è difficile pronunciare la parola incurabilità alla fine la dignità ha perso sempre la sua partita. Si potrebbe ipotizzare che una errata interpretazione del mito dell’antipsichiatria ha fatto credere che le malattie mentali siano tutte potenzialmente curabili, o peggio guaribili, creando da un lato frustrazione e rabbia in pazienti e familiari che vedono delusa questa promessa e dall’altro impotenti e frustrati i terapeuti. In modo provocatorio sostengo che tutto è curabile nel senso di puntare ad un miglioramento della qualità della vita, o in alcuni casi al mantenimento di uno stato di equilibrio in cui il paziente, come si dice in gergo tecnico, non scompensi, ma molte forme di sofferenza rispetto a gravi patologie psichiatriche è inguaribile. A volte, mi viene di pensare che sia una fortuna perché alcuni di quelli che noi vogliamo curare sono modi diversi di stare al mondo che andrebbero protetti come la biodiversità e che in certi contesti sono adattivi.

Se si ipotizza che il sintomo o la patologia psichiatrica sia una reazione dell’individuo o dell’organismo alla suo disagio di base, alla sua non accettazione del contesto che lo ospita, che diritto abbiamo noi di discutere una scelta, o ancora peggio la sua fondatezza se quello stesso individuo decida per un suicidio assistito? L’indicazione potrebbe essere la richiesta di aiuto che però in alcuni casi si manifesta con la richiesta di porre fine al dolore attraverso l’eutanasia.

Cosa rende una patologia incurabile? Gli addetti alla cura hanno più diritto di decidere per gli altri perché sono certificati? Mi interrogo sulla possibilità che il diritto a lasciare la vita per motivi di gravi sofferenze di origine psichiatrica, che comportano insopportabili sofferenze mentali non meno gravi dei tumori o della SLA e che sono croniche nella loro inguaribilitá, venga permessa e rispettata senza alcun giudizio. È fuori discussione che il desiderio di morte di un essere umano dipende nella maggior parte dei casi da molti fattori: l’infelicita, la disperazione, il dolore, la solitudine e la paura. E che il sentimento umano di solidarietà ci impone di soccorrerlo, di aiutarlo, di non scappare e di provare con ogni mezzo a essere presenti e attivi. Bisogna essere consapevoli del contesto in cui ci si muove sia quello del soggetto che del curatore e del contesto culturale e sociale in cui abitano queste emozioni. Non dobbiamo certo scegliere per la soluzione sbrigativa della sofferenza attraverso la legittimazione del suicidio assistito, seguendo una cultura estremista del superuomo con pieni poteri, tuttavia mi piacerebbe che di questo si parlasse di più, è una questione così delicata e complessa che a mio avviso merita un’attenta riflessione anche da parte di noi clinici.

Ci sono grandi differenze di vedute tra l’Italia e i Paesi europei che sembrano essere più progressisti nei confronti dell’eutanasia per motivi psichici. Recentemente ha fatto molto discutere il caso della donna olandese che è ricorsa al suicidio assistito a causa delle gravi patologie di cui soffriva da anni. La paziente soffriva da 15 anni di grave disturbo da stress post-traumatico, ma anche di anoressia, depressione, autolesionismo, allucinazioni ed episodi dissociativi. Le sue condizioni avevano continuato a peggiorare, con manifestazioni fisiche che l’avevano praticamente costretta a una vita completamente passiva e spesso nel suo letto. I medici olandesi che hanno autorizzato la procedura hanno ritenuto la donna incurabile. Ecco, sulla parola incurabile e soprattutto sulle sue conseguenze si apre uno scenario infinto sul quale prima o poi bisognerà confrontarsi. In molti paesi europei l’eutanasia è stata legalizzata ed è applicabile ad ogni tipo di sofferenza ritenuta “insostenibile e irreversibile“ incluse quelle dei pazienti psichiatrici.

Secondo il professor Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Salute Mentale e Neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano e presidente della Società italiana di Psichiatria, “la stragrande maggioranza delle malattie psichiatriche sono in gran parte episodiche e non sono necessariamente stabili e incurabili”. La psichiatria e la psicologia hanno operato per anni nel tentativo di eliminare lo stigma dell’incurabilità e dell’inguaribilità, tuttavia non é abbastanza, dobbiamo forse provare a porre più attenzione e più sforzi di ricerca sugli esordi e immaginando che tali patologie prima di diventare croniche siano state acute e a volte lo spazio dell’esordio è un terreno fertile per il miglioramento. Occorre che si intervenga presto così da ridurre la strada della cronicizzazione. I sintomi, se gestiti entro i primi periodi dall’esordio hanno più possibilità di essere trattati che se gestiti dopo anni quando l’intero sistema neurologico e immunitario ha trovato la strada della cronicizzazione della malattia psichiatrica.

Ho lavorato molti anni in comunità psichiatriche e quello che ho appreso, da un’attenta osservazione dei pazienti in reparto, è che nelle psicosi gravi si lavora molto sul mantenimento della stabilità nel tempo, mi piacerebbe immaginare un’equipe che lavori in maniera dettagliata sull’insorgenza del sintomo e nella sua elaborazione durante gli spazi preziosi dell’esordio. Tuttavia lo scenario è molto complesso, da un lato il mondo accademico si concentra sulla necessità di aumentare le cure, di andare verso uno studio approfondito della possibilità di cura avvalendosi sempre più anche delle nuove tecnologie e della fisica quantistica. Oggi le neuroscienze attraverso mappature dettagliate del cervello cercano aree responsabili dei sintomi depressivi o dell’innesco di psicosi con l’obiettivo primario di trovare soluzioni per migliorare lo stile di vita di tali pazienti, dall’altro si discute se sia sensata la posizione di coloro che sostengono che chi chiede il suicidio risulterebbe avere un disturbo di personalità e quindi non propriamente autonomo nelle sue scelte.

Spesso confrontandosi con i colleghi ci siamo interrogati su quanto ci faccia paura e quanto sia doloroso anche solo immaginare il suicidio di un proprio paziente, su quanto sia difficile per un essere umano e come psicoterapeuta accogliere la volontà del paziente di farla finita. Qui entra in gioco il libero arbitrio, inteso come libertà di scegliere cosa fare della propria vita. Noi clinici suggeriamo ai pazienti punti di vista più estesi e meno a vicolo cieco, cerchiamo di allargare l’orizzonte dei loro punti di vista su se stessi e il mondo, ma non sempre è utile quanto vorremmo. Mi chiedo spesso quanto sia faticoso il peso della sofferenza portato avanti negli anni e quanto sia giusto o sbagliato aprire la porta alla possibilità di accogliere la richiesta di eutanasia per mettere fine al dolore cronico. Certo non vorrei essere fraintesa, non sto proponendo l’eutanasia dei sintomi attraverso l’eutanasia della persona, quanto tuttavia la possibilità di aprire una strada di confronto e di dibattito sul tema che tenga conto della persona e della sua dignità.

Più si entra nelle radici della questione più diventa complessa la sua argomentazione, più ci si interroga e più ci si aggrovigli, la scelta del suicidio assistito è una decisione che ci lascia impotenti e ci costringe a confrontarci con i limiti dell’essere umano anche se medici anche se psichiatri anche se psicoterapeuti con le migliori competenze. Tuttavia, il confine tra la libertà di scegliere e lo spreco della vita è sottile e richiede osservazioni e quesiti che mettono in campo considerazioni etiche, biologiche, sociali e mediche che richiederebbero un approfondimento sul come accettare la volontà del paziente, assistendolo nel valutare il suo stato e le diverse opzioni in un contesto protetto rispettoso e attento tenendo al centro l’ascolto della persona e il diritto di scegliere della sua vita.

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