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Il “gene gay” non esiste! E la cosa non ha sorpreso nessuno: ecco cosa abbiamo imparato dal più grande studio sulle basi genetiche della sessualità

Uno studio ha indagato la base genetica del comportamento sessuale, mettendo in crisi alcuni assunti dati per scontati da oltre 70 anni

Di Giulia Samoré

Pubblicato il 20 Set. 2019

Aggiornato il 05 Ago. 2022 19:14

È stato di recente pubblicato su Nature il report relativo al più grande studio di associazione genome-wide (GWAS) mai condotto, con l’obiettivo di indagare la base genetica del comportamento sessuale verso gli individui dello stesso sesso. La conclusione a cui si è giunti è una ed inequivocabile: il “gene gay” non esiste.

 

Tuttavia, non saranno stati in molti a sorprendersi di tale risultato, possiamo infatti avere un’idea della complessità della variabilità genetica se consideriamo un parametro relativamente semplice come l’altezza: è infatti riconosciuto il forte carattere ereditario di tale caratteristica, con circa l’80% di influenza genetica a fronte di una piccola varianza, circa il 20%, determinata epigeneticamente (caratteristiche ambientali che influenzano il fenotipo senza alterare il genotipo). Grazie agli studi di associazione genome-wide sono stati ad oggi isolati almeno 700 variazioni comuni e 83 mutazioni non comuni (Marouli et al., 2017) che contribuiscono ad una varianza nell’altezza del loro portatore da 0,1 mm a 2,0 cm, evidenziando come molteplici geni contribuiscano a modulare l’espressione di una singola caratteristica.

Sarebbe dunque stato estremamente semplicistico aspettarsi che una singola mutazione fosse responsabile di un comportamento complesso quale la sessualità ed infatti, contrariamente a quanto i titoli sensazionalistici vorrebbero farci credere, la risonanza che tale studio ha avuto e continuerà ad avere non ha nulla a che vedere con questa unica e semplice smentita, il “gene gay” non esiste, bensì vi sono altri risultati e altre caratteristiche di questa indagine che potrebbero (e forse dovrebbero) cambiare il modo in cui viene approcciato lo studio della sessualità umana.

L’analisi condotta da Ganna e colleghi (2019) ha preso in esame un campione vastissimo, analizzando i profili genetici degli individui afferenti a cinque diversi database: in primo luogo The UK Biobank (circa 500.000 individui, dati raccolti tra il 2006-2010), la 23andMe Inc. che raccoglie ad oggi i dati di oltre 4milioni di persone, il National Longitudinal Study of Adolescent to Adult Health (AddHealth) da cui sono stati estrapolati i profili di 4755 adolescenti americani (anni 1994-1995), il Molecular Genetic Study of Sexual Orientation (MGSOSO) che ha analizzato il genoma di 1077 uomini omosessuali e 1231 eterosessuali ed infine 8109 profili derivanti dal Child and Adolescent Twin Study in Sweden (CATSS), studio longitudinale ancora in corso sui gemelli nati dopo il 1991. L’accesso ad un campione così vasto ha permesso agli scienziati di trovare delle correlazioni tra le diverse varianti genetiche (o SNPs, Single Nucleotide Polymorphisms) statisticamente robuste, al contrario degli studi precedenti che, avvalendosi di campioni più ridotti e analizzando un numero inferiore di markers genetici, non potevano eguagliare tale livello di confidenza statistica.

Una prima e importante specifica che ha guidato la ricerca è stata quella di dividere il campione analizzato, distinguendo tra quegli individui che non avessero mai sperimentato comportamenti sessuali verso lo stesso sesso (eterosessuali), da quegli individui che fossero stati, almeno una volta, coinvolti in comportamenti sessuali verso il proprio genere, prescindendo quindi dalla definizione del proprio orientamento sessuale. In altre parole, si è partiti dall’assunto che il comportamento sessuale e l’orientamento sessuale non siano necessariamente congruenti, permettendo di includere una gamma più vasta delle identità sessuali presenti: non solo omosessuali quindi, ma anche bisessuali, pansessuali, demisessuali, etc. Per isolare con certezza comportamenti che fossero definibili omosessuali, è stato necessario includere nello studio solo quegli individui la cui identità di genere e sesso di appartenenza fossero congruenti, escludendo quindi individui transessuali, intersessuali, queer che non ricadessero in questa divisione dicotomica.

In primo luogo, si sono potute replicare e confermare le stime precedentemente ottenute da studi minori effettuati sui gemelli (es. Långström et al., 2010) nel determinare l’ereditabilità del comportamento sessuale, secondo cui individui più vicini geneticamente abbiano più probabilità di essere concordanti in termini di comportamento sessuale. In tal senso si è confermato che circa il 32,4% della varianza di tale tratto sia da attribuirsi a fattori genetici.

Per determinare quali varianti genetiche specifiche, o SNPs, fossero associate all’esibizione di un comportamento sessuale verso lo stesso sesso, gli autori si sono serviti di studi di associazione GWAS sul vastissimo campione a loro disposizione. Sono stati rilevati cinque marcatori genetici comuni (ovvero presenti in almeno l’1% della popolazione) associati ad un comportamento omosessuale, due dei quali comuni ai due sessi, uno riscontrato esclusivamente nei soggetti femminili e due esclusivamente maschili. È stato inoltre possibile avanzare delle ipotesi su quali possano essere i correlati biologici risultanti dall’espressione di tali geni: ad esempio, lo SNPs denominato rs34730029 contiene un gran numero di geni responsabili dei recettori olfattivi nel maschio, determinando una sensibilità a certi tipi di odori; un secondo, conosciuto come rs28371400, è invece coinvolto nella regolazione degli ormoni sessuali, la sua presenza è infatti altamente correlata con l’incedere della calvizie negli uomini (nella quale è implicata la sensibilità agli ormoni sessuali). Oltre a questi cinque SNPs rilevanti, ne sono stati riscontrati altri migliaia coinvolti, ma che non raggiungevano la rilevanza statistica necessaria.

Una prima conclusione inequivocabile alla quale i ricercatori sono giunti tramite questa analisi è che la sessualità umana sia estremamente complessa, irriducibile quindi all’influenza di uno o pochi geni. Basti pensare che la somma di tutte le varianti genetiche riscontrate può rendere conto di una percentuale limitata del comportamento verso lo stesso sesso (8-25%), lasciando la rimanente parte a influenze ambientali (storia di vita, influenze familiari, sociali, etc) e, di questa percentuale, le cinque varianti più statisticamente rilevanti costituiscono appena l’1%.

Sono state riscontrate delle correlazioni rilevanti anche con altri tratti comportamentali e legati alla salute mentale, per le quali gli autori avanzano delle caute ipotesi, rimandando a studi futuri il compito di gettare luce sulla natura e sulla direzionalità di tali legami. Ad esempio, il comportamento omosessuale risulta statisticamente correlato con tratti di personalità tendenti alla solitudine e all’apertura verso le nuove esperienze (openness to experience), così come alla propensione per alcuni comportamenti a rischio (tabagismo o uso di cannabis) e la co-occorrenza di psicopatologie quali la depressione o la schizofrenia. La difficoltà nello stabilire il nesso causale è dovuto all’impatto delle variabili sociali e culturali che, come suggerito dagli autori, potrebbero manifestarsi sottoforma di pregiudizi o condotte discriminatorie, che spiegherebbero il disagio psicologico esperito dall’individuo che ha comportamenti sessuali verso il proprio sesso.

Da ultimo, gli autori hanno cercato di superare il dualismo imposto dalla ricerca, ovvero il carattere binario del comportamento sessuale distinto in eterosessuale o non-eterosessuale, analizzando nello specifico la quantità di partner relativi all’uno o all’altro sesso. È stato riscontrato come le varianti genetiche sottese alla probabilità di avere rapporti sessuali con persone dello stesso sesso siano differenti dalle varianti genetiche che rivelano un’influenza sulla preferenza sessuale (ovvero ricercare partner prevalentemente dell’altro sesso vs. partner prevalentemente dello stesso sesso). In altre parole, sarebbe una semplificazione non corroborata dai dati scientifici continuare a pensare la sessualità come uno spettro (come siamo abituati a fare dalla prima formulazione avvenuta in tal senso ad opera di Kinsey nel lontano 1948) e dare per scontato che ad una maggior attrazione verso lo stesso sesso corrisponda una minore attrazione verso gli individui di sesso opposto e vice versa.

Nel complesso, lo studio di Ganna e colleghi (2019) ha certamente ampliato le nostre conoscenze riguardo alla sessualità umana, ma nel fare ciò si è distinto magistralmente nella maniera in cui tale costrutto è stato indagato, da ultimo mettendo in crisi alcuni assunti dati per scontati per oltre 70 anni.

Assolutamente degna di menzione è stata inoltre la scelta dei ricercatori di coinvolgere associazioni e difensori dei diritti della comunità LGBTQAI nel processo divulgativo, cercando di veicolare i propri risultati nella maniera meno fraintendibile e ideologicamente traviabile possibile e creando inoltre una piattaforma online dedicata alla presentazione dello studio al vasto pubblico, in termini comprensibili a chi non abbia il background di conoscenze necessarie alla comprensione delle conclusioni raggiunte. Nel procedere in questo senso gli autori hanno dimostrato una spiccata sensibilità non soltanto verso la scienza come materia di indagine, bensì verso la comunità LGBTQAI nel suo intero, mostrando attenzione verso questioni che, dividendo l’opinione pubblica, hanno ripercussioni rilevanti nella vita degli individui che si trovano a veder negati diritti o la propria libertà personale a causa delle discriminazioni subite in contesti sociali così come istituzionali.

 

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