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Come il monitoraggio e l’anticipazione (non) ci tutelano dall’impensabile

Il controllo e l'anticipazione sono strategie che ci consentono di stare lontano da sensazioni dolorose, ma seppur utili spesso sono molto faticose.

Di Chiara Manfredi

Pubblicato il 05 Lug. 2019

Nella vita impariamo che il controllo e la capacità di anticipare gli eventi ci aiutano a vivere bene. Ma è proprio così? La vita troppo spesso manca di certezze.. imparare a “stare” in queste condizioni può rivelarci uno scenario infinito di possibilità che non avevamo nemmeno mai pensato!

 

A volte accadono cose per cui non siamo pronti. A volte la vita ci coglie impreparati. La maggior parte delle volte, in realtà. Ci siamo preparati per anni alle delusioni, ai fallimenti, agli abbandoni, ai pericoli, alle brutte notizie. Ma sostanzialmente non siamo pronti. Siamo (stati) preparati, ma non pronti. Siamo pugili con la guardia alta, ma ci dimentichiamo che l’unico modo sicuro per non prendere neanche un cazzotto è stare giù dal ring, in platea.

Succede a volte che un po’ il temperamento, un po’ le esperienze di vita, un po’ gli apprendimenti espliciti o impliciti ci portino a fare della guardia alta la nostra priorità di vita, nell’illusione che quella posizione voglia dire non prendere cazzotti.

Cosa vuol dire tenere la guardia alta? Vuol dire stringere le mani a pugno, portare le braccia con una certa angolazione dei gomiti, irrigidire le spalle, stare sugli avampiedi. Faticoso, molto. Vuol dire la testa abbassata, il mento coperto ma gli occhi ben dritti. Vuol dire essere innanzitutto vigili, ipervigili, e poi reattivi. Vuol dire decodificare ogni possibile movimento dell’avversario, capire da questo le sue intenzioni e anticiparle per non andare a tappeto. Tre cose, quindi: monitoraggio (dell’avversario), controllo (di sé) e anticipazione (del movimento).

Scendiamo un attimo dal ring. Proviamo ad andare nel contesto iper-allargato di tutti i giorni. Cosa ci insegnano da bambini i diversi ambiti di vita? Che se vuoi, puoi. Che se ti impegni abbastanza le cose belle succedono, e (come corollario), le cose brutte succedono se non ti impegni abbastanza: se non stai abbastanza attento, se non prevedi qualcosa che a pensarci un attimo meglio saresti riuscito a prevedere, se non anticipi possibili catastrofi, se non cogli i segnali. E noi, giustamente, a queste cose ci crediamo.

Crescendo, riceviamo un sacco di rinforzi per la nostra capacità di prevedere, per il nostro monitoraggio, per il nostro livello di controllo su di noi e sull’ambiente. Ho notato quale argomento era più caro al prof di filosofia e l’ho studiato meglio, così ho previsto come sarebbe andata l’interrogazione, non mi sono fatto cogliere impreparato e ho preso 10. Ho tenuto d’occhio le priorità del capo, mi sono focalizzato e speso su quelle e ho ottenuto una promozione. Ho capito cosa piace alla ragazza che mi piace, le ho attaccato bottone parlando di quello e ci sono uscito assieme. Rinforzi su rinforzi, e la strategia si mantiene.

Controllo e anticipazione: delle strategie di vita

Ma che cos’è che stiamo esattamente evitando con questa nostra strategia? Qual è la sensazione che non vogliamo provare? Non vogliamo sentirci vulnerabili. Ognuno di noi ha un particolare tipo di cazzotto che non vuole ricevere: per qualcuno ha a che fare con il rifiuto, per altri con il mancato riconoscimento del proprio valore personale, per altri ancora con la percezione di essere colpevole. Ed ecco l’avversario.

Teniamo alta la nostra guardia fatta di anticipazione e controllo per non permettere a noi stessi di percepire questo stato intollerabile per noi, anche alla luce della pochissima esperienza che ne abbiamo fatto (grazie alla nostra strategia, appunto, e qui la storia si ripete).

Ma cosa succede quando queste strategie non funzionano più?

A volte, però, succede qualcosa. Sei sul ring e un forte rumore ti distrae, qualcuno sbatte la porta, giri gli occhi per un nanosecondo e sei al tappeto. Tutto il castello di carte costruito fino a quel momento, tutta la strategia rodata ancora e ancora, tutta l’onnipotenza che portava in sé pensare di avere una strategia che ti avrebbe sempre difeso, tutto a quel paese. Sei per terra. Non ci sei mai stato. Allora succedono cose nuove.

Innanzi tutto, vedi le cose da una prospettiva inedita. In secondo luogo, è da quella prospettiva che si possono considerare cambiamenti di strategia. Eh sì, perché va da sé che la mia strategia di controllo e anticipazione, con tutto il costo che si porta dietro (la questione della rigidità muscolare e degli avampiedi), si rivela anche a tratti fallimentare, come direbbe Darwin (circa), ma chi me lo fa fà?

Ecco, qui in quanto esseri umani tendiamo a incastrarci. Perché una strategia che ha funzionato per anni e che ci dà una parvenza di controllabilità e anticipazione è difficile da mollare. Non posso certo accettare di stare nell’incontrollabile e nell’imprevedibile, ma ci mancherebbe altro!

Allora prima di dire che la mia strategia non ha funzionato, mi dico che non è colpa mia, che io ho previsto tutto alla perfezione, ma qualcosa nel contesto intorno mi ha fregato. È colpa di qualcun altro, che peraltro è giusto che paghi per questa mia caduta. Non sono io vulnerabile, è il contesto cattivo, malintenzionato, meschino, ingiusto, chi più ne ha più ne metta. E qui arriva il primo incastro. Ci incastriamo in una sorta di impensabilità. Non posso pensarmi vulnerabile (nelle sue declinazioni), fallace, sbagliato. Non dopo tutti questi anni. Quindi mi rialzo, impreco contro tutti e mi rimetto in posizione. E qui arriva il secondo incastro: la posizione. Visto che non è responsabilità mia, ma del caso, perché cambiare qualcosa? È una posizione che mi ha protetto così tante volte, io me la riprendo!

Uscendo dalla metafora, il mio modo di affrontare le cose, monitorando e anticipando eventuali difficoltà, si dimostra molto costoso in termini di risorse personali (l’attenzione come la guardia sempre altissima, la lettura di quella che penso essere l’intenzione altrui) e comunque (come tutti i modi possibili) fallace. Ma io non lo mollo, anzi. A partire da quello che ho imparato, cerco di farlo ancora meglio. Starò più attento, starò più in guardia, niente mi farà più cadere.

Ed ecco che mi rifiuto di ascoltare l’insegnante più importante: l’esperienza. L’esperienza mi ha fatto sentire vulnerabile, e invece di imparare che, come tutti gli esseri umani, sono anche io vulnerabile, imparo che devo essere più attento e riuscirò così facendo a essere intangibile. Il superpotere illusorio dell’invulnerabilità che conquisto vestendo il mantello del controllo.

Ma perché perseverare in questo modo così anti-evoluzionistico reiterando una strategia che comunque non ha funzionato? Perché accettare l’alternativa è troppo difficile, ci fa troppa paura. L’alternativa si chiama caos, a un certo livello. Caos nel senso di imprevedibilità, di improvvisazione forzata. Caos soprattutto nel senso di accettazione di avere situazioni in cui (a tratti) ci sentiamo vulnerabili. Che qualcuno ci deluderà, qualcun altro non ci vorrà con sé. Accettare che le persone non ci stimeranno, che il capo sceglierà qualcuno di diverso perché ritenuto più bravo.

Lasciare andare il controllo ossessivo significa dover fare i conti con le conseguenze, anziché con le causa. Significa gestire il dopo e non il prima. Roba da grandi, difficile. Invece no. Semplicemente, cose che non siamo abituati a fare perché, a forza di anticipare, raramente abbiamo dovuto fare i conti con le cose andate male, e non facendone abbastanza esperienza abbiamo continuato a vederle come intollerabili. Si vede, durante la psicoterapia. Sono quelle cose che i pazienti rifiutano di sentire, quelle cose a cui non vogliono pensare. Non può aver promosso lui perché lo ha valutato come migliore di me, ci deve essere un altro motivo. Non può avermi lasciato per un altro, anzi, sono io che non la volevo più. Non posso aver sbagliato, è stato il mio collega a passarmi male le consegne.

E così, come bambini che non vogliono ricevere una punizione, ci priviamo della possibilità più importante, la possibilità di imparare. Che significa imparare che restiamo sostanzialmente amabili anche se qualcuno ci rifiuta, restiamo validi anche se qualcun altro viene riconosciuto più di noi, restiamo “bravi” anche se commettiamo degli errori. Ci precludiamo la possibilità di imparare che il mondo va avanti lo stesso anche senza il nostro controllo, che domattina ci alzeremo lo stesso anche senza la nostra continua anticipazione, forse solo con meno male alle braccia e con i muscoli più riposati. Continuiamo, esausti, a stare sul ring combattendo contro la nostra vulnerabilità, senza capire che siamo nella stessa squadra e che l’unico modo di vincere è vincere assieme. Toglierci i guantoni e il paradenti, scendere dalla punta dei piedi e ritornare a respirare. Ringraziare quello che ci sembra un fallimento, perché usando le parole di Pavese, “non ci si libera di una cosa evitandola, ma soltanto attraversandola”.

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SCRITTO DA
Chiara Manfredi
Chiara Manfredi

Teaching Instructor presso Sigmund Freud University Milano, Ricercatrice per Studi Cognitivi.

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