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Dalla teorizzazione all’episodio narrativo

La TMI lavora sull'individuazione degli schemi interpersonali del paziente attraverso la raccolta di episodi di vita e delle emozioni ad essi correlate.

Di Virginia Valentino

Pubblicato il 12 Giu. 2019

In un precedente articolo avevo definito i terapeuti TMI come cacciatori di episodi, scene, momenti, cercando, poi, di descrivere la differenza tra la ricostruzione dell’episodio narrativo e quella dello schema interpersonale maladattivo. In quell’occasione avevo sottolineato l’importanza di raccogliere vari episodi narrativi prima di formulare e condividere un’ipotesi di schema che comprendesse la procedura del tipo “se…allora”.

 

Questa volta, però, vorrei portare l’attenzione sulla differenza tra generalizzazione, teorizzazione e un buon episodio narrativo. Noi tutti abbiamo una teoria del nostro modo di funzionare del mondo e, per carità, spesso e volentieri questa teoria è giusta. Banalmente potremmo dire, ad esempio, che siamo suscettibili a coloro che ci ignorano perché stiamo male. Oppure che vestirci in un certo modo ci fa sentire più sicuri. Queste semplici affermazioni che rappresentano, evidentemente, una regola, le definiamo generalizzazioni perché descrivono un nostro modo di reagire di fronte a determinati trigger oppure un nostro modo di comportarci in determinate situazioni ma, come è evidente, sono prive di ogni componente mentalistica utile.

Non vi è, infatti, descritto un pensiero, né un’emozione né un comportamento specifico. Ovviamente vi è solo un vago accenno alla relazione tra le variabili, molto semplicistica e limitativa. Non rappresentando una narrazione che favorisce una riflessione, resta un’esperienza che non è di aiuto nella concettualizzazione del caso e non permette l’accesso ad alcun contenuto mentale.

È nostro compito, a questo punto, aiutare il paziente ad identificare e descrivere un episodio nel quale la sua teoria si esplica, analizzando fotogramma per fotogramma tutta la sequenza di eventi incorsi nella sua mente ed intorno a lui. Lo scopo è di identificare le variabili necessarie alla ricostruzione di un eventuale schema e di determinare, nel modo più preciso possibile, questa teoria per far notare che essa rispecchia il modo con cui leggiamo gli eventi e che non ha niente a che vedere con la realtà stessa. Non a caso, si parla di rappresentazione.

Generalizzazione ed episodio narrativo – Facciamo subito un esempio:

Ogni volta che vado al mare, sto bene. Quando sono a lavoro, mi sento spesso a disagio.

Tralasciando la volontaria presenza di alessitimia, in quanto in queste due affermazioni non vi è neppure l’ombra di un’emozione specifica, potremmo dire che queste sono teorie. Generalizzazioni. Volutamente ho fatto un esempio al positivo ed una al negativo perché, sarà magari relativamente sorprendente, ma spesso tendiamo a generalizzare anche su eventi positivi.

L’avreste mai detto?

La teoria riflette uno specifico difetto metacognitivo dell’automonitoraggio ma questo non vuol dire che il paziente, se opportunamente guidato, non riesca a rintracciare tutti i dettagli dell’episodio narrativo, effettuando un’analisi ben più precisa, organizzando il materiale cognitivo, emotivo e magari anche corporeo/somatico. Il suo teorizzare ci indicherà quanto grave possa essere il deficit dell’automonitoraggio e ci indurrà a sollecitare un allenamento auto-osservativo che lo aiuti ad esaminare meglio quello che, per certi versi, sembra incalzare e pervadere la mente.

A questo punto il “se vado al mare sto bene” può diventare un “ieri, quando ero sulla spiaggia, con i piedi scalzi, sentivo la sabbia calda sotto di me, il sole che mi scaldava il viso e l’acqua che ogni tanto mi rinfrescava. Nell’osservare tutti questi elementi che mi circondavano, ho subito pensato quanto fosse complessa la natura nel suo insieme e come essa potesse regalarci degli spettacoli meravigliosi. Ero da sola, eppure mi sentivo interconnessa con tutto ciò che era intorno a me. Ho provato un’intensa sensazione di pace e tranquillità ed il mio corpo era profondamente rilassato ma presente”.

Il “quando sono a lavoro sto male” si può trasformare in uno scenario molto più complesso del tipo “settimana scorsa a lavoro un mio collega mi ha detto di aver notato che il progetto che avevo presentato al mio capo era ancora sulla scrivania. Ho, quindi, pensato che non l’avesse preso in considerazione, che non l’avesse neppure letto e questo mi ha catapultato in un’emozione di vergogna molto intensa perché ho pensato che effettivamente non ho i numeri in tasca per scrivere e presentare un progetto. Non valgo nulla. Merito quasi la loro non considerazione. Estremamente triste, sono andato a casa e non sono uscito per tutto il week-end”.

Cambia molto, vero? In questo caso sembra quasi di vedere il nostro attore della scena che si infila la giacca e lascia l’ufficio con capo chino e passo lento. È esattamente questo modo di lavorare sulla scena che favorisce la consapevolezza di quello che si muove nella mente, decisamente molto più complesso e sfaccettato di un semplice interruttore bene-male. Per fare questo lavoro minuzioso basta cogliere il paziente nella sua teorizzazione sugli eventi, seppur vaga e chiedergli di farci un esempio, di portarci con lui su una scena o un momento in cui quello di cui ci sta parlando si è verificato. Quando più episodi aiutano a far emergere sempre un determinato vissuto, come se dietro vi fosse una certa sistematicità, a quel punto possiamo immaginare che su quegli aspetti ci sia proprio uno schema e possiamo provare a formulare e condividere con il paziente una prima idea di schema interpersonale maladattivo.

Un episodio può non è essere sempre semplice da ottenere, il più delle volte se siamo fortunati dobbiamo allenare il paziente. Una modalità è quella di validare, in un clima relazionale collaborativo ed esplorativo, riportando l’dea che è una difficoltà comune e spiegare il razionale, cioè far capire al paziente perché questa analisi è così importante. Poi cerchiamo di accedere a delle scene ma se questo non dovesse succedere allora accompagniamo il paziente nella palestra mentalistica in cui si dovrà esercitare nell’automonitoraggio. Appena si accede ad un materiale anche vago il terapeuta ne approfitta per agganciarsi e porre una serie di domande di approfondimento senza risultare un investigatore ma un osservatore curioso. Un altro trucco è quello di agganciarsi a temi a carattere edonico positivo oppure a momenti che emergono nel vivo dell’interazione in seduta, anche di tipo relazionale. Tale spunto giunge dal lavoro coi pazienti gravi, con cui può essere davvero complesso il lavoro sulle narrazioni (Salvatore et al., 2017). Infine non dimentichiamo la possibilità di aiutarci con tecniche immaginative, drammaturgiche e corporee a scopo esplorativo (Dimaggio et al., 2019).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Dimaggio, G., Ottavi, P., Popolo, R., Salvatore, G. (2019). Corpo, immaginazione e cambiamento. Raffaello Cortina Editore.
  • Salvatore, G., Dimaggio, G., Ottavi, P., Popolo, R. (2017). Terapia metacognitiva interpersonale della schizofrenia. La procedura formalizzata di intervento. FrancoAngeli.
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