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TMI intermediate training: primo weekend di formazione

Il TMI intermediate training insegna a utilizzare le tecniche esperienziali e di imagery nelle diverse fasi della terapia attraverso simulazioni e role play

Di Virginia Valentino

Pubblicato il 01 Apr. 2019

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI), proprio per l’attenzione che pone all’uso di tecniche esperienziali e di Imagery nella pratica clinica, non può che essere compresa e appresa attraverso la sperimentazione diretta di queste tecniche. Ma cosa succede in una giornata di training? Addentriamoci insieme in questo viaggio fatto innanzitutto di esperienze che il terapeuta in formazione vive in prima persona.

 

Pescara. Un weekend di febbraio. C’è il sole e un vento fresco che la mattina schiaffeggia un po’ ma ci sta più che bene se devi seguire una lezione di 9 ore. C’è il mare e c’è una spiaggia che ti catapulta ad un lido, in pieno agosto, pennichella delle 14.30. Tutto questo fa da sfondo ad una sala in un carinissimo albergo con 20-25 colleghi psicoterapeuti. Per la precisione stiamo parlando della prima parte di un corso “TMI-intermediate” e di solito in questi weekend accadono cose veramente tanto belle ed importanti. In primis si sta insieme ed anche se può sembrare strano, non necessariamente si parla solo e soltanto di psicologia. Ci si confronta sul vino, sull’alimentazione vegetariana e quella carnivora, ci si prende in giro, ci si supporta nonostante il pigiama di pile con tanto di orsacchiotto e nonostante la lentezza del mattino che contrasta con chi, alle 8.00, è già bello e arzillo e canta Lady Gaga a tutta forza. In training di questo tipo, vissuti intensamente, ci si può sentire all’interno di una piccola famiglia. Almeno per me è stato così: mi guardavo intorno e mi sentivo davvero fortunata.

Veniamo al dunque. Rivediamo tutto l’albero decisionale della TMI, svisceriamo nuovamente i sistemi motivazionali, che non fa mai male, introduciamo il razionale delle tecniche e ci imbattiamo nell’assessment dinamico. Per la precisione stiamo parlando di tecniche esperenziali: drammaturgiche, immaginative e corporee. Le teorie dell’Embodied Cognition e gli studi di Damasio, giusto per citarne qualcuna, offrono uno scenario teorico molto stimolante per quel che concerne il funzionamento e la relazione mente/corpo e spiegano perché tali procedure siano così efficaci e, per certi versi, più veloci del solo lavoro cognitivo. D’altronde, se ci pensiamo bene, la rappresentazione di noi e gli schemi stessi, non comprendono solo pensieri o concetti perché vi è anche e soprattutto una componente emotiva ed incarnata, fatta di sensazioni fisiche, muscolari e viscerali, corporee per l’appunto.
Dopo una mattinata teorica, si passa al pratico. Avete presente quel momento in cui qualcuno si deve offrire volontario? Chi guarda a destra e chi a sinistra, chi improvvisamente ricorda che deve chiamare a casa oppure l’amico che non sente da mesi, chi deve magicamente andare in bagno. Esatto, quello in cui si teme un po’ il giudizio, la vergogna, l’errore. Io, per storia mia di vita personale, che sarebbe troppo complessa da spiegare qui, già so come andrà. E dal pensiero alla realtà trascorrono solo una manciata di secondi: faccio io il terapeuta. E chi fa il paziente? Ci sono persone che conosco da anni, chi da pochi mesi, altri sono sconosciuti. Attendo chi si siederà di fronte a me. Ed ecco, E. che si alza: è una mia collega e amica. Abbiamo viaggiato insieme in auto, 4 ore intense per raggiungere Pescara, fitte di confidenze e confronti. Bene, mi conforta sapere che non sono sola in questa simulazione. Alle mie spalle, Antonella Centonze, la docente del weekend di formazione che mi guida e mi aiuta nella scelta degli interventi. Si parte con il grounding, con la focalizzazione sul respiro, ed entriamo nel merito di un episodio narrativo cercando di afferrare il wish e procediamo: obiettivo dell’esercizio è applicare tecniche esperenziali ed effettuare un rescripting.

I rescripting sono utilissimi per vari motivi ma è bene sottolineare che devono procedere sulla base dello schema del paziente per prepararlo ad agire nel mondo in modo diverso, in direzione del suo wish, e al fine di smussare coping maladattivi; una chicca però c’è: le tecniche su menzionate posso essere utilizzate già in fase precoce di terapia, a fini diagnostici, per rintracciare gli elementi dello schema interpersonale mentre si è soliti pensarle solo come anticipazione di fasi esplorative e comportamentali, tipiche della fase avanzata della terapia (Dimaggio, Ottavi, Popolo & Salvatore, 2019).

Dopo di me anche altri colleghi si sono sperimentati, chi in veste di terapeuta e chi di paziente. Il dibattito che ne seguiva ha permesso, di volta in volta, di sviscerare in modo approfondito quello che accadeva nella sessione, quello che si realizzava nella mente per terapeuta e del paziente, restando spesso sorpresi dell’immediatezza e della potenza di processi poco mediati dal ragionamento cognitivo e più settati su processi bottom-up. Notevoli spunti di riflessione ed intensi momenti di condivisione, proprio per ricordarci ancora una volta quanto la TMI sia, essenzialmente, una terapia che fonda moltissimo sulla dimensione intersoggettiva, relazionale e sulla sintonizzazione emotiva (Dimaggio, Montano, Popolo & Salvatore, 2013; Safran & Muran, 2003). Nel lavoro con l’imagery, infatti, spesso i pazienti riferiscono di temere l’impatto emotivo dell’esperienza stessa e attuano, a diversi gradi, dei veri e propri evitamenti esperenziali (possono, ad esempio, rifiutare l’esercizio oppure restare su un livello superficiale di esplorazione, non permettendosi di accedere ad alcune scene o parti di esse). Questo può essere regolato: il clinico dovrebbe prima di tutto rendersene conto e successivamente, attraverso interventi relazionali, a partire dall’esplorazione di quello che sta accadendo in tempo reale nella mente del paziente, ed in una ottica validante, cercare di superare l’impasse. Questo è stato oggetto di discussione anche durante il training formativo in quanto è emerso in alcune simulate.

TMI: l’uso delle tecniche esperienziali nelle diverse fasi della terapia

Un aspetto davvero innovativo, quindi, è che l’utilizzo delle tecniche può essere contemplato fin dalle primissime sedute in base allo scopo: in fase di assessment, queste ci permettono di cogliere in modo precoce elementi dello schema e migliorare la metacognizione; in fase avanzata di terapia, le usiamo per lavorare su alcuni episodi della propria autobiografia, magari proprio su quelle scene che hanno determinato lo strutturarsi di uno schema maladattivo. Infine, possono essere utili per preparare ed incoraggiare i pazienti verso esposizioni prettamente comportamentali in cui devono sperimentarsi in un repertorio di azioni più funzionale, interrompendo la messa in atto di coping maladattivi (sia quelli cognitivi, grazie anche all’applicazione di tecniche attentive ad esempio, che comportamentali) ed attuando una autoregolazione emotiva funzionale. Trasversalmente, il paziente svilupperà strategie di mastery sempre più sofisticate, lavorerà sul decentramento, sulla differenziazione e sul suo senso di agency. Il principio è, dunque, che se in immaginazione riusciamo ad agire diversamente da quello che crediamo saremo più predisposti a sperimentarlo al di fuori della seduta e questo rafforzerà l’esperienza avvenuta in studio, costruendo le basi per un vero e proprio, eventualmente del tutto nuovo, apprendimento. È possibile, dunque, utilizzare tali procedure a partire già dalla fase di formulazione del funzionamento oltre che in quella della promozione del cambiamento e per fare questo il contratto terapeutico deve essere centrale, rinegoziato continuamente e strettamente connesso al lavoro sulla relazione.

Giusto per dare un input, tra le varie tecniche menzioniamo il gioco delle due sedie, il role playing o gioco di ruolo, gli enactment. Mi stimola soffermarmi a pensare quanto il terapeuta debba essere aperto, flessibile, curioso oltre che inventivo per mettere a punto tali esercizi, rendendo la seduta interattiva e dinamica. Infatti, sebbene le procedure debbano seguire criteri ben precisi di conduzione, il contenuto può essere costruito ad hoc sul paziente… e subito mi catapulto nel mio studio, coi pazienti della prossima settimana, nella costruzione di interventi esperienziali. Nel momento stesso in cui immagino, mi sembra già di stare lì con loro.

Cosa ci portiamo a casa di tutto questo?

Una quantità di nozioni teoriche, cliniche e relazionali notevole, che credo ci vorrà un po’ per metterle in ordine nella mia mente ma quello che più di tutto mi porto a casa è una conoscenza sempre più marcata dell’importanza di essere pienamente consapevoli di che tipo di terapeuta si vuol essere. E, per concludere, il focus sulle tecniche immaginative, drammaturgiche e corporee, arricchisce la TMI rendendola ancora più sofisticata ed efficace oltre che profondamente integrata con altre discipline (le tecniche di cui si parla fanno capo, infatti, alle terapie bioenergetiche e reichiane, alla terapia sensomotoria, allo yoga e alle arti marziali). Non aggiungo altro perché credo sia un qualcosa di profondamente esperienziale e va quindi vissuto oltre che studiato e approfondito.

La domenica ci salutiamo dopo un esercizio di gruppo e ripartiamo, tutti più ricchi. Io già so che sentirò il bisogno di mettere nero su bianco quello che ho sentito in questi due giorni e mi godo il viaggio di ritorno in macchina con E. e G.

Immagino (è proprio il caso di dirlo) ed attendo il prossimo week-end. Giampaolo Salvatore sarà il docente. Non sappiamo cosa stia programmando per noi, ma cosa che lui ancora non sa, è che gli proporremo di fare lezione in spiaggia.

To be continued….

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G. (2013). Terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità. Ed. Raffaello Cortina.
  • Dimaggio, G., Ottavi, P., Popolo, R., Salvatore, G. (2019). In press.
  • Safran, J.D., Muran. J.C. (2003). Teoria e pratica dell'alleanza terapeutica. Laterza Ed.
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