Paolo VI il 26.03.1967 pubblica l’enciclica Popolorum Progressio in cui mette l’accento sul rapporto tra lo sviluppo e la crescita economica: “Lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere sviluppo autentico, dev’essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”.
Il Papa, in un periodo – gli anni sessanta- in cui era esaltato il concetto di sviluppo illimitato, nella prima parte dell’enciclica mette subito in chiaro il suo messaggio
la questione sociale ha acquistato dimensione mondiale, ed è urgente una risposta perché i popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza.
Il valore del dono nell’enciclica di Paolo VI
Nell’enciclica Paolo VI critica in maniera efficace i teoremi e i concetti che guidano l’homo economicus soprattutto quando fa riferimento alle strutture oppressive e alla proprietà privata. Sulle prime scrive letteralmente
la ricerca esclusiva dell’avere diventa … un ostacolo alla crescita dell’essere e si oppone alla sua vera grandezza: per le nazioni come per le persone, l’avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale – ed ancora – strutture oppressive, sia che provengano dagli abusi del possesso che da quelli del potere, dallo sfruttamento dei lavoratori che dall’ingiustizia delle transazioni.
Sulla proprietà privata sostiene che
non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto. Nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario
arrivando ad affermare che
il bene comune esige dunque talvolta l’espropriazione se, per via della loro estensione, del loro sfruttamento esiguo o nullo, della miseria che ne deriva per le popolazioni …, certi possedimenti sono di ostacolo alla prosperità collettiva.
Queste ultime affermazioni per una crescita sostenibile, all’interno di uno sviluppo sostenibile non possono non passare attraverso la ricerca dei legami sociali, anche sul piano globale, che spesso la ricerca ossessiva dell’utile e del proprio benessere tende a sottovalutare o, addirittura, a non prendere in considerazione. Se analizziamo attentamente le frasi riportate dall’enciclica Populorum Progressio con la pratica del dono nelle società arcaiche, possiamo trovare vari parallelismi: l’avere che sia economico o possesso dei beni di produzione non deve essere a uso esclusivo, ma deve essere un bene condiviso che nelle società arcaiche si esprimeva attraverso il donare. Vero è che nella pratica del potlac ciò era messo in atto nel tentativo di creare un debito nei confronti del ricevente, ma è anche pur vero che non faceva nascere delle insurrezioni e portava alla pace. Allo stesso modo Paolo VI ammonisce che
Si danno, certo, situazioni la cui ingiustizia grida verso il cielo, ma se riusciamo ad addivenire a una progressione sociale che mette in primo piano le esigenze dell’essere “lo sviluppo” può essere “il nome nuovo della pace” .
Il valore del dono nella descrscita serena di Latouche
S. Latouche, nel breve saggio “Decrescita Serena” (2007), in accordo con quanto sostenuto da Paolo VI, esordisce chiedendosi
Dove andiamo? Dritti contro un muro. Siamo a bordo di un bolide senza pilota, senza marcia indietro e senza freni, che sta andando a fracassarsi contro i limiti del pianeta – e continua affermando – tutte le varie espressioni “sviluppo sostenibile”, “vivibile” o “sopportabile” sono solenni imposture: negli ultimi due secoli, lo sviluppo è sempre stato contrario all’idea di sostenibilità, poiché ha cinicamente imposto di sfruttare risorse naturali e umane per trarne il massimo profitto. Oggi il vecchio concetto è stato rivestito con una patina d’ecologia, che tranquillizza l’Occidente e nasconde la lenta agonia del pianeta. Lo sviluppo cambia pelle, insomma, ma resta se stesso.
Nella sua critica a un modello individualista, utilitarista e razionale di sviluppo che sembra giunto al collasso, egli propone una decrescita serena i cui cambiamenti potrebbero racchiudersi in otto R: “rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare”. Rivalutare vuol dire creare un diverso immaginario collettivo caratterizzato da
amore della verità, senso della giustizia, responsabilità, rispetto della democrazia, elogio della differenza, dovere di solidarietà, uso dell’intelligenza.
Si dovrebbero riconcettualizzare e ristrutturare tanto gli apparati produttivi che i rapporti sociali. E’ in questo riconcentualizzare e ristrutturare, insieme alla categoria del ridistribuire, che sono riscoperte gli studi di Mauss sul dono nel senso che quest’ultimo serve ed è utile a creare relazioni e legami. Ridistribuire le risorse e le ricchezze accumulate da Nord a Sud in modo da creare condizioni economiche di vivibilità per tutti. Rilocalizzare vuol dire
produrre in massima parte a livello locale i prodotti necessari a soddisfare i bisogni della popolazione.
Rilocalizzare è una sfida forte alla globalizzazione dei mercati con notevoli scambi di merce, al contrario, Latouche ipotizza che questi ultimi devono essere ridotti al minimo in modo da creare condizioni di autosufficienza localizzati. Egli, comunque, non si ferma solo ai prodotti e alle merci sostenendo che
anche la politica, la cultura, il senso della vita devono trovare un ancoraggio territoriale.
Il valore del dono e il contributo di Arendt
In sostanza, come sostenuto da Arednt (1958) si tratta di ritornare all’homo faber cui interessava il prodotto finale con il suo particolare valore d’uso, cui tutto il processo di produzione era finalizzato, il principio di utilità si preoccupa principalmente di stimolare la produttività. Sicché, commenta Arendt,
la vera unità di misura non è l’utilità né l’uso, ma la « soddisfazione », cioè la quantità di pena e di piacere provati nella produzione o nel consumo delle cose
Ridurre le emissioni di gas che stanno seriamente danneggiando la biosfera. E infine utilizzare e riciclare in modo da creare beni durevoli e avere minore impatto possibile sull’ambiente. Mauro Bonaiuti nell’articolo “Decrescita e politica – Per una società autonoma, equa e sostenibile” (2016), a proposito delle teorie di Latouche sostiene che
La “decrescita” rappresenta un orizzonte di senso condiviso, una visione d’insieme, sistemica che accoglie in sé, connettendole, alcune delle istanze di emancipazione portate avanti in questi anni dai movimenti. E’ questo lavoro di tessitura, di proposta di senso condiviso, che occorre portare avanti con forza.
Da questi pochi accenni alle idee di Latouche si capisce immediatamente il senso della nascita del movimento antiutilirista: dare una dimensione antropologica nuova ai comportamenti umani e non svilirla semplicemente nella ricerca a tutti i costi nell’accumulo di denaro da raggiungere con tutti i mezzi possibili. I partecipanti al movimento individuano nelle ricerche sul dono di Mauss la chiave di volta per reinserire l’uomo all’interno di un mondo di legami e relazioni.
Il valore del dono nel paradigma di Caillè
Caillè, con il “Paradigma del dono”, fa una scelta antropologica e metodologica precisa, come scrive in “quelle autre mondalisation?” (2002),
ogni concezione puramente strumentale dell’esistenza, che organizza la vita in funzione di un calcolo o di una logica sistematica dei mezzi e dei fini, per la quale l’azione è sempre compiuta in vista di qualcosa d’altro rispetto a se stessa e ricondotta in fine soltanto al soggetto individuale che viene presupposto come chiuso su se stesso ed unico padrone, destinatario e beneficiario dei suoi atti, oppure ogni dottrina per la quale gli interessi per, le passioni, le emozioni sono o dovrebbero essere degli interessi a : delle passioni utili.
Mentre l’homo oeconumicus mostra solo interesse a, nello scambio e nel dono, si mostra interesse per. Il principale interesse per è quello per la comunità.
In questo Caillè fa forza sulle ricerche di un etologo, Frans de Waal (1989) il quale nei suoi studi sui primati afferma che la moralità umana, sul piano evolutivo, non si differenzia da quella presente nelle specie animali. Anzi, egli bolla come artificiale la visione dell’uomo il quale mostra interesse per la comunità per nascondere una natura profonda essenzialmente egoistica.
Gli animali mostrano interessi per gli altri che estendono dai parenti fino ad arrivare all’intera comunità. L”interesse per la comunità, che nella specie umana sorge sotto la spinta di pressioni evolutive e che rappresenta il
più grande passo compiuto nell’evoluzione della moralità umana, vale a dire il passaggio dalle relazioni interpersonali all’individuazione di un bene più grande.
Franz de Waal introdusse il concetto di empatia per far si che, come scrive Pietro del Re nella prefazione di un’intervista per Repubblica al famoso etologo del 2006, il Bonobo abbracci un suo compagno per consolarlo.
Caillè rilancia il concetto di empatia introducendo l’aimance, per indicare l’apertura e la sollecitudine verso l’altro che è un polo dell’azione altrettanto primario e irriducibile al pari dell’”interesse per sé”, dell’”obbligo” morale e della “libertà”. Nell’”aimance
vanno annoverati l’amicizia, la philia, l’agapè, la caritas, la pietà, la solidarietà, l’altruismo, la cooperazione, l’alleanza, l’associazione: in breve, tutti quei comportamenti ispirati a reciprocità e, diremmo, a una qualche forma di riconoscimento dell’altro, sicché, come nota Caillé, essa, nella varietà delle sue manifestazioni storiche e culturali, è una “modalità simpatetica dell’empatia.
In sostanza, le ricerche etologiche dimostrano che in origine abbiamo un homo donator che mantiene lungo tutto il suo sviluppo filogenetico questa caratteristica. Essere un homo donator non vuol dire non potersi inserire nei processi economici tipici della società industriale e post industriale. Il dono, infatti, riprendendo Mauss, è un atto che prevede un contraccambio e serve a creare legami sociali che possono condurre a risultati positivi o negativi.
Per Caillè l’interesse per e l’interesse a si sovrappongono, cosi come già descritto da Mauss, anche se è solo l’interesse per l’altro che permette lo sviluppo di un interesse a. Egli fa suo il principio di Mauss il quale sosteneva che
le società hanno progredito nella misura in cui esse stesse, i loro sottogruppi e, infine, i loro individui, hanno saputo rendere stabili i loro rapporti, donare, ricevere e, infine, ricambiare. Per poter commerciare, è stato necessario, innanzitutto, deporre le lance. Solo allora è stato possibile scambiare i beni e le persone, non più soltanto da clan a clan, ma anche fra tribù e tribù, fra nazione e nazione e – soprattutto – fra individui e individui. Solo in seguito i popoli hanno saputo crearsi degli interessi, soddisfarli reciprocamente e, infine, difenderli, senza dover ricorrere alle armi. In tal modo, il clan, la tribù, i popoli sono riusciti – e lo stesso devono fare, nel mondo cosiddetto civile, le classi, le nazioni e anche gli individui – a contrapporsi senza massacrarsi, e a “darsi” senza sacrificarsi l’un l’altro. Proprio in questo risiede uno dei segreti permanenti della loro saggezza e della loro solidarietà.
L’incontro con l’altro, infatti, può portare a un accordo, a una pacificazione o invece a un conflitto permanente, alla violenza. Allo stesso modo il dono può essere positivo (portatore di sentimenti di amore, di alleanza, etc.) o, al contrario, portatore di morte e di guerra. Mauss rivede quest’ambivalenza nel termine tedesco Gift che significa nello stesso tempo regalo e veleno.
Quello che maggiormente differenzia Caillè dalle teorie sull’homo oeconomicus è il riconoscimento. Le azioni dell’uomo tendono al farsi riconoscere come attore unico all’interno del palco della vita. Mentre secondo i teorici dell’homo oeconomicus è l’affermazione dell’interesse individuale e l’accumulo dei beni che danno il segno dell’essere, in Caillè è il dono che permette di essere riconosciuti. Addirittura, Caillè sostiene che l’interesse dell’uomo è di apparire e di essere riconosciuto più ché che di accumulare ricchezza. Nel postulare ciò mutua dall’Arendt la quale, nella “Vita della Mente” (1978), sostiene che tutti gli esseri viventi
uomini e animali, non soltanto sono nel mondo, ma sono del mondo, e questo proprio perché sono nello stesso tempo soggetti e oggetti, che percepiscono e sono percepiti.
Il valore del dono nell’ottica di comunità di Saranson
E’ il principio fondamentale del potlach la cui ritualità è rivolta a farsi riconoscere nella propria posizione sociale e gerarchica e, nello stesso tempo, a essere riconosciuti poiché i doni non si possono rifiutare pena la perdita della stima sociale. Il farsi riconoscere tra l’altro, come ci informa Sarason (1919 – 2010) (24), porta a sentirsi appartenente
ad una collettività stabilendo un sistema di rapporti e di interdipendenze a cui subordinare i propri interessi particolari.
Lo stesso autore rileva che questo sistema d’interdipendenza costituisce l’esito di un processo e deve essere volontariamente mantenuto. Ciò implica l’idea che il senso di comunità dipenda dagli investimenti individuali in funzione di uno scopo sovraordinato – il mantenimento di uno specifico sistema di rapporti – e dalla sua condivisione a livello collettivo. Donare, quindi, oltre ad essere un atto volontario, è un atto simbolico che è necessario al fine di mantenere una comunità. L’atto stesso del donare come atto simbolico, mettendoci a contatto con la sacralità, è un atto di riconoscimento che permettere il perpetuarsi del senso di appartenenza alla comunità.