Nonostante il dolore non sia una sensazione piacevole, tuttavia risulta necessario: esso infatti ci segnala la presenza di un pericolo o di un danno al nostro organismo e ci permette in questo modo di allertarci e porvi rimedio per evitare conseguenze negative ancor più gravi o irreparabili a tessuti o nervi.
Anche se il dolore si sviluppa dagli stessi sistemi nocicettivi, l’esperienza dell’intensità del dolore differisce da persona a persona: per alcuni esso si risolve in poco tempo, per altri al contrario si protrae nel tempo e da acuto si cronicizza, risultando invalidante nonostante la ferita che l’ha generato sia stata sanata.
Dolore: uomini e donne non lo sentirebbero nella stessa maniera
Di conseguenza sembrerebbe che vi sia una natura soggettiva della sensazione e dell’esperienza del dolore che una persona sperimenta.
La ricerca nell’ambito del dolore si complica ulteriormente se, all’interno dell’esperienza soggettiva del dolore, si inserisce la differenza tra sessi biologici: a seguito di una medesima stimolazione dolorosa infatti, la ricerca ha evidenziato come le risposte fisiologiche osservate in maschi e femmine non siano le medesime (Dance, 2019).
Le ricerche sul dolore hanno da tempo messo in luce come la sensazioni sgradevoli o il dolore stesso siano gli esiti di specifiche vie biologiche e come in particolare l’ipersensività al dolore sia generata da “strade” nocicettive che si differenziano notevolmente tra maschi e femmine attraverso tipologie distinte di cellule immunitarie che contribuiscono al disagio e alla sensazione nocicettiva (Sorge, Mapplebeck et al., 2015).
Lo studio di Sorge e colleghi (2015) dell’Università dell’Alabama, Birmingham, condotto sui ratti, è stato tra i primi ad evidenziare con robuste evidenze il ruolo cruciale di particolari cellule immunitarie, chiamate microglia, presenti nel midollo spinale, per il processamento del dolore cronico.
Nell’investigazione dei meccanismi nocicettivi, Sorge, in collaborazione con le equipe di ricerca canadesi di Jeffrey Mogil della McGill University a Montreal e di Michael Salter dell’università di Toronto, è stato in grado di determinare sia nei topi maschi che nelle femmine una riduzione delle funzioni della microglia attraverso la somministrazione di farmaci e anticorpi e di farsi spettatore di una dissimile reazione al dolore da parte dei due sessi.
A seguito di questa manipolazione farmacologica infatti, tra i topi maschi si è rilevata una riduzione nelle risposte al dolore provocato, effetto che non è manifestato nelle femmine dove il meccanismo del dolore era stato prevalentemente attivato da altre cellule immunitarie, le cellule T.
Lo stesso danno, arrecato nella medesima posizione lungo il nervo sciatico afferente al midollo spinale, sia nei topi maschi che femmine, aveva determinato una forma di ipersensibilità al dolore negli arti inferiori – il dolore cronico può manifestarsi come un’ipersensibilità a stimoli in potenza non dolorosi – con la differenza che tale ipersensibilità nei maschi spariva se veniva bloccata la microglia mentre nelle femmine tendeva a persistere.
Questa differenza nella generazione del dolore è stata associata al testosterone, l’ormone maschile che potrebbe aver reso le cellule T meno capaci di mediare il dolore nei maschi e aver al contrario favorito la microglia per cui se nei ratti maschi veniva ridotto drasticamente il livello di testosterone, la via nervosa che produceva il dolore passava dalla microglia a quella che lo produceva nelle femmine cioè le cellule T (Sorge, Mapplebeck, Rosen et al., 2015).
Dolore cronico: nel soffre il 20% della popolazione mondiale
Questo importante studio ha rappresentato nel campo della ricerca sul dolore un importante spartiacque in quanto ha aperto gli occhi sull’amplissimo spettro delle risposte differenti tra maschi e femmine e sul ruolo chiave degli ormoni sessuali nella loro diversa produzione e modulazione.
Dopo la pubblicazione di questa ricerca infatti, molti studiosi del dolore hanno iniziato a considerare il sesso biologico come un’importante variabile all’interno dei loro studi biomedici e a selezionare con maggiore attenzione le popolazioni animali sulle quali effettuare i loro studi, anche sulla base del loro sesso per evitare complicazioni o effetti di queste differenze nei risultati.
Oltre a ciò, la pubblicazione dello studio di Sorge e colleghi (2015) ha aperto le porte anche a nuovi avanzamenti medici e farmaceutici favoriti dall’incremento di ricerche sull’esperienza del dolore cronico nelle popolazioni umane, sia di sesso maschile che femminile; questi studi hanno messo in luce che circa il 20 % della popolazione mondiale è affetta da questa malattia invalidante e che una grande fetta di questa popolazione è costituita da donne (Dance, 2019).
Di conseguenza, se le vie del dolore sono differenti per maschi e femmine, va da sé che alcuni farmaci o terapie del dolore possano apportare benefici solo ad alcuni individui e non ad altri, richiedendo di tenere in considerazione per la loro somministrazione alcune specifiche circa le fluttuazioni ormonali degli individui nel corso della loro vita.
Oltre a ciò, si aggiunge la problematica che per alcuni individui, a causa di alcune loro caratteristiche genetiche, di sviluppo e ormonali, potrebbe non essere immediato l’inserimento in una delle due classi biologiche.
Dolore: differenze di genere nei processi infiammatori
Un recente studio del neurofarmacologo Ted Price dell’Università del Texas e collaboratori (2019) ha raccolto le prime evidenze sulle differenze di genere nei processi infiammatori, tramite l’analisi dei tessuti nervosi rimossi a seguito di lesioni tumorali: è emerso il coinvolgimento di differenti cellule immunitarie nella generazione del dolore tra maschi e femmine; per i primi la generazione del dolore implicherebbe infatti la presenza di cellule immunitarie macrofage, mentre per le seconde risulterebbero necessari alcuni specifici peptidi (North, Li, Ray et al., 2019).
Da qui la necessità per la farmacologia di avere a disposizione dei trattamenti antidolorifici e classi farmacologiche “sesso-specifiche” dal momento che è stato evidenziato come alcune molecole, tra le quali la metformina, in alte dosi sia efficace nella riduzione del dolore esclusivamente nei maschi ma non nelle femmine (Inyang, Price, Szabo-Pardi et al., 2019).
Allo stesso modo, affinché vi siano i medesimi effetti antidolorifici nelle femmine e nei maschi, è necessaria una posologia e una quantità maggiore anche di morfina, il cui principio oltre a bloccare i neuroni della materia grigia periacqueduttale allo stesso tempo è in grado di attivare nelle femmine la microglia che ostacola e neutralizza gli effetti antidolorifici della prima (Doyle, Eidson, Sinkiewicz et al., 2017).
In conclusione, nonostante per molte decadi si sia assunto che maschi e femmine percepissero il dolore allo stesso modo e grazie ai medesimi meccanismi interni, oggi è possibile affermare che ciò è vero solo apparentemente: da un punto di vista biologico esiste un “pain gap” tra maschi e femmine.