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La difficoltà di percepire la realtà della morte cerebrale e l’opposizione alla donazione di organi

Donazione degli organi e morte cerebrale tra tanatologia e trapianti: se non percepiamo la morte cerebrale come tale, diventa più difficile donare organi

Di Guest, Marco Tanini

Pubblicato il 13 Mar. 2019

Banalmente e volgarmente si potrebbe sintetizzare la definizione di morte come “l’unica cosa certa della vita”. Come tale e come simbolo di ignoto per eccellenza, da sempre l’uomo si interroga su questo fenomeno, provandone angoscia, paura, talora sollievo laddove la vita terrena non offra altro che sofferenza.

Alessandra Gottardello, Marco Tanini

 

Per secoli la morte ha rappresentato un argomento che poteva essere trattato, al di là delle dissertazioni filosofiche già presenti fin dall’antichità, solo dalla Chiesa (di qualunque credo), dalla teologia, dalla metafisica, mentre è solo a partire dal XVIII secolo, sulla spinta della rivoluzione illuministica, che ha origine una meditazione più o meno sistematica e scientifica sul tema, proprio in concomitanza della nascita e dello sviluppo della disciplina tanatologica (Sozzi M., 2014).

Lungo il percorso della storia, come si vedrà, molteplici saranno i criteri che si susseguiranno per stabilire il decesso e solo nella seconda metà del secolo scorso si proporrà quello tuttora accettato, almeno nel nostro Paese e seppur non senza dibattiti, della “morte cerebrale totale”.

Donazione degli organi: si parte dalla constatazione della morte

Per lungo tempo, l’ordinamento giuridico non avvertì la necessità di definire cosa fosse la morte; tanto meno, si riteneva la morte un momento che dovesse essere normato, facendo parte della naturale evoluzione della vita, così come la nascita (Pizzetti F.G., in De Ceglia F.P., 2014).

Solo con lo sviluppo, in particolare, delle tecniche rianimatorie, nonché delle possibilità offerte dalla trapiantologia, a partire soprattutto dalla seconda metà del XX secolo, la legge dovette codificare una disciplina che regolasse il momento in cui poteva considerarsi avvenuta la morte.

Infatti, fermo restando che la vita dell’individuo rimane il bene principale e a favore del quale bisogna profondere ogni sforzo atto a salvarla e preservarla, è necessario individuare il momento in cui si può considerare cessata l’esistenza di un soggetto.

Nell’evoluzione normativa si rintraccia un lungo percorso in cui si sono succeduti diversi criteri sulla base dei quali poteva avvenire la dichiarazione di morte di un individuo: dalla L. 644 del 1975 alla L. 578 del 1993, passando per l’emanazione della L. 91 del 1999 in materia di trapianti.

Constazione della morte prima e dopo della L. 578/1993

Il primo atto legislativo che è necessario citare qui è il R.D. 11 gennaio 1891, n. 42, che, agli articoli da 9 a 12, dispone un tempo minimo necessario di 24 ore di osservazione dal momento del presunto decesso prima di poter procedere ad autopsia, imbalsamazione, inumazione o cremazione della salma, salvi i casi in cui il medesimo periodo debba essere prolungato ad un massimo di 48 ore nelle morti improvvise o apparenti, ovvero, al contrario, possa essere ridotto a meno di 24 (nei decessi per malattie contagiose, in presenza di un corpo con evidenti segni di decomposizione o «per altre ragioni speciali»).

Dal brevissimo excursus storico relativo all’evoluzione della normativa di polizia mortuaria e le disposizioni sulle modalità per stabilire la morte di un individuo, appare nitidamente che gli atti sopra nominati avessero come fine precipuo quello di bilanciare le esigenze di scongiurare la sepoltura in vivo, da un lato, e quelle di sanità e igiene pubbliche, dall’altro.

Infatti, oltre ai periodi di osservazione di cui si è dato conto, non viene previsto nessun accertamento medico-legale per determinare il momento della morte. Le conoscenze tanatologiche sono ancora relativamente arretrate o scarse, così come le tecniche rianimatorie devono ancora svilupparsi appieno.

Tuttavia, nella seconda metà degli anni Cinquanta del ‘900, la prima legge sui trapianti introduce all’art. 4 la specifica locuzione «accertamento della realtà della morte», verifica necessaria per poter, in un successivo momento, procedere a prelevare gli organi da donare ad altri soggetti.

Tale accertamento, che deve essere effettuato secondo i criteri della semeiotica medico-legale, ai sensi del D.M. 7 novembre 1961 consta del tracciato elettrocardiotanatodiagnostico, metodo all’epoca ritenuto più rispondente a criteri di sicurezza di diagnosi precoce di morte e di praticità di applicazione. L’esecuzione di detto tracciato veniva assegnata a personale medico qualificato del settore.

Ecco che, dunque, viene introdotto per la prima volta, al di fuori delle leggi di polizia mortuaria peraltro, un primo metodo di accertamento della morte.

Tuttavia, è necessario precisare che, come si vedrà poco oltre, al fine di rendere utilizzabili gli organi potenzialmente prelevabili di quegli individui che, ora, vengono dichiarati morti senza che i più o meno lunghi periodi di osservazione siano spirati, il criterio della “morte cardiaca” rimane non utilizzabile, in quanto l’assenza di perfusione durante il periodo corrispondente a quello di osservazione renderebbe impossibile l’intervento.

Donazione degli organi: il D.M. agosto 1969 denota più attenzione ai trapianti

Pochi anni più tardi, con il D.M. 11 agosto 1969, accanto all’elettrocardiotanatodiagnosi, che rimane il metodo principale da adottare, ne viene introdotto uno ulteriore, limitatamente ai casi di «soggetti sottoposti a rianimazione per lesioni cerebrali primitive», per i quali dovrà essere effettuato il tracciato elettroencefalografico unitamente a mezzi della semeiotica neurologica clinica e strumentale determinati biennalmente dal Ministero della Salute su parere conforme del Consiglio Superiore della Sanità.

La ratio legis è evidente: oltre a raggiungere la certezza della morte del soggetto, si voleva preservare e potenziare la possibilità di procedere a trapianti che, proprio da quegli anni, guadagneranno un ruolo sempre più importante e incidente nella medicina moderna.

Siffatto accertamento verrà svolto da un collegio composto da un medico legale, un medico anestesista rianimatore e da un neurologo esperto in elettroencefalografia. Importante specificare che suddetti medici componenti il collegio accertatore non devono far parte dell’équipe che procederà, se del caso, al trapianto.

Si affaccia, dunque, il modello dell’accertamento elettroencefalografico come metodologia più adeguata alle tecniche e alle esigenze trapiantologiche, in quanto stabilire che la morte irreversibile è quella che sopraggiunge al cessare delle funzioni cerebrali e non cardiocircolatorie permette di risolvere in radice una basilare questione, non solo giuridica.

Infatti, nell’ipotesi di accoglimento della definizione di morte come arresto delle funzioni cardiocircolatorie, l’atto di procedere a espianto del cuore potrebbe essere posto in essere solo nel momento in cui l’organo risulti privo di battiti; ma, in tal caso, fisiologicamente, esso risulterebbe privo anche di flusso sanguigno, in probabile anossia, condizioni che pregiudicherebbero il buon esito dell’intervento. D’altro canto, per scongiurare il rischio di perdere la disponibilità dell’organo da trapiantare, si dovrebbe procedere a prelievo quando esso batta ancora, ossia quando il soggetto donatore tecnicamente risulta ancora vivo.

In altre parole, se la morte fosse diagnosticabile solo attraverso la rilevazione della cessazione delle funzioni cardiocircolatorie, l’espianto dell’organo cardiaco, come di tutti gli organi, ancora in funzione avrebbe comportato la violazione, da parte dei medici, del disposto dell’art. 5 c.c. che vieta tutti gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionino una lesione permanente dell’integrità psicofisica del soggetto, oltre che la loro esposizione alla legge penale, alla responsabilità civile e deontologica per un’ipotesi di omicidio (Puccini C., 2003).

Si comprende, dunque, che non era possibile sposare siffatta tesi, a meno di incorrere in seri problemi giuridici, bioetici e deontologici, i quali sarebbero, invece, appunto disinnescati nel momento in cui si considerasse la morte come cessazione delle funzioni cerebrali.

Così, paradossalmente, le medesime tecniche rianimatorie che nel frattempo si affinavano sempre più e sempre più permettevano di “riportare in vita” individui colpiti da blocco cardiorespiratorio, quindi rappresentando un potenziale quanto concreto paracadute, al tempo stesso rischiavano di costituire un ostacolo insormontabile ai fini dei trapianti: fintanto che il soggetto fosse stato mantenuto in vita tramite l’assistenza di macchinari per la respirazione, questi non sarebbe mai potuto essere considerato legalmente morto e, dunque, non avrebbe mai potuto candidarsi come donatore di organi.

La soluzione si palesò grazie al cosiddetto “rapporto di Harvard”, le cui conclusioni saranno poi accolte dal Legislatore negli anni successivi (Pizzetti F.G., in De Ceglia F.P., 2014).

Si può affermare, dunque, che i nuovi paradigmi stabiliti dai numerosi interventi legislativi e regolamentari succedutisi nel volgere di pochi anni sono stati introdotti non tanto o non solo per una sentita necessità di giungere ad una determinazione precisa della morte in risposta a bisogni “morali”, ma, piuttosto, per favorire lo sviluppo della nobilissima disciplina dei trapianti, sulla scia anche della storica svolta segnata dal primo trapianto di cuore eseguito in Sudafrica nel 1968 ad opera del dottor Christiann Neethling Barnard.

Si era resa improcrastinabile la necessità di approntare una normativa che consentisse, da un lato, da un punto di vista medico-scientifico, di “sfruttare” al meglio i potenziali organi disponibili ad essere reimpiantati in soggetti che ne necessitavano; da un altro, giuridicamente parlando, di fissare criteri certi e determinati per scongiurare possibili conseguenze circa responsabilità a vario titolo dei sanitari all’atto di prelevare organi vitali quando, in realtà, il donatore poteva essere considerato ancora in vita.

Morte cerebrale: il rapporto di Harvard e l’avvento della L. 578/1993

Ma è solo con la L. 578/1993 che viene chiarito, all’art. 1, che «la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo».

Anche se all’art. 2 viene richiamata la morte derivante da arresto cardiaco, essa costituisce solamente una “specie” di morte, dovendosi procedere con le modalità di accertamento previste dalla norma. Sicché, si deduce, se l’arresto cardiaco e la conseguente interruzione della funzione circolatoria e respiratoria non produce la cessazione delle funzioni encefaliche, non è possibile dichiarare la morte del soggetto.

Ecco che, dunque, ora l’unico criterio di accertamento è quello della morte cerebrale.

Per il resto, la legge in oggetto ricalca quella del 1975, demandando a chiare lettere alla fonte regolamentare le modalità clinico-strumentali di accertamento della morte. Questa delegificazione è importante per fugare i dubbi, sorti in precedenza, se il tema de quo fosse contraddistinto da riserva di legge assoluta o relativa: è ora pacifico che il Legislatore fissa le linee fondamentali della disciplina, mentre gli atti regolamentari si occuperanno di quella di dettaglio (ciò che avveniva prima della Legge 644/1975).

Quindi, il D.M. dell’11 aprile 2008, che richiama in larghissima parte (ma formalmente lo sostituisce) quello del 22 agosto 1994, n. 582, emanato subito dopo la legge in parola, definisce nel dettaglio i requisiti clinico-strumentali per l’accertamento della morte nei soggetti affetti da lesioni encefaliche e sottoposti a rianimazione e stabilisce un periodo di osservazione durante il quale deve perdurare la situazione richiesta pari a sei ore. All’inizio e alla fine di tale periodo deve essere compiuta la rilevazione della simultaneità delle condizioni richieste da parte di un collegio medico, laddove fino all’avvento del D.M. in parola ne era prevista una terza.

La presente legge e il presente decreto rappresentano oggi l’unico riferimento in materia di accertamento di morte, non mancando, comunque, di suscitare dubbi e critiche anche in capo alla giurisprudenza che, in verità, poche occasioni ha avuto per esternare la sua interpretazione del disposto normativo, nonostante i molteplici problemi sorti.

La differenza oggettiva tra morte biologica e morte clinica costituisce, quindi, il discrimen in base al quale sorge, in capo al Legislatore, la necessità di fissare dei criteri di fronte ai quali, pur non essendosi ancora raggiunta la prima, sia possibile dichiarare la seconda; criteri che devono rispondere, come si è già visto, a esigenze di irreversibilità, certezza, univocità, integralità e tempestività.

Donazione di organi e morte cerebrale

La difficoltà di percepire come morta una persona a cui continua a battere il cuore è l’elemento che determina gran parte del numero di opposizioni alla donazione di organi.

Nell’ anno 2016 il tasso di opposizione si è attestato al 32,8%, mentre nel 2017 questo è sceso al 28,7% con notevoli differenze a livello regionale.

Donazione degli organi e percezione della morte cerebrale img1

 

Incidenza tasso di opposizione in Italia anni 2016/2017

Importante è sottolineare che la morte in quanto tale consta di un’unica definizione, questa però può essere accertata con due metodiche differenti: da una parte la metodica diretta in cui si va a constatare la totale ed irreversibile distruzione dell’encefalo, l’altra indiretta in cui si presuppone che questa distruzione sia avvenuta in seguito alla verifica della cessata attività cardiaca.

l’ipotesi della scelta individuale del criterio

Pur considerando tutte le innumerevoli variabili presentate da ogni singolo caso, si può affermare che il primo atto post mortem è la constatazione del decesso, da cui discende il suo accertamento e, successivamente, la dichiarazione. Ognuno di questi ha un fine precipuo, che va da quello legale e amministrativo a quello puramente sanitario, con possibilità di sconfinare in sede medico-legale qualora si sia in presenza di reato o sospetto tale.

Ma se dal punto di vista medico-legale o tanatologico le questioni di difficile risoluzione sono casi isolati, si può affermare che i veri problemi risiedano a monte, ossia nella qualificazione e individuazione del momento in cui una persona può essere dichiarata morta.

Si è visto che la legge, in proposito, ha dovuto compiere una scelta di quali criteri ritenesse i più validi e certi per dichiarare morta una persona, ma non sono gli unici accoglibili. La stessa pronuncia della Corte costituzionale, di cui si è dato conto, offre il grado di molteplicità di scelte che possono essere compiute in merito, richiamando, sul finire della parte del considerato in diritto, il concetto di “tronco cerebrale”, la cessazione irreversibile delle funzionalità del quale rappresenterebbe il momento della morte.

In realtà, il tronco cerebrale costituisce solo una delle funzioni dell’encefalo, o meglio, la sua distruzione irreversibile sta alla base di una delle concezioni di morte che ancora oggi si contrappongono e contribuiscono a complicare il quadro della materia. Accanto a questa, si richiami la concezione secondo la quale la morte si identifica con la cessazione di tutte le attività encefaliche e quella che richiede la distruzione della corteccia cerebrale, quella che si ritiene essere la sede delle funzioni che connotano l’individuo (Cozzolino U. e Izzo F., 2012).

Oltre questi dubbi, ci si può chiedere anche se quello della Corte costituzionale, laddove parla di “tronco encefalico”, debba qualificarsi come errore o come tentativo consapevole di provare ad introdurre nell’ordinamento un differente concetto da quello di “morte cerebrale totale” accolto dal Legislatore del 1993, e nuove riflessioni si aprono de iure condendo alla luce del contemperamento di più interessi che, se del caso, dovranno essere tenuti in considerazione nell’ipotesi in cui si volessero modificare i criteri di definizione di morte.

Infatti, da un lato vi è il bene primario ed essenziale della vita, che deve essere sempre e quanto più salvaguardato e garantito anche in forza del dettato costituzionale; dall’altro la scienza dei trapianti, che non può essere né limitata, né implementata senza controllo.

Così, è stato prospettato, seguendo gli esempi di New Jersey e Giappone, di permettere a ognuno di decidere, magari in modo simile a quello previsto dalle disposizioni anticipate di trattamento (Di cui alla L. 22 dicembre 2017, n. 219, “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), all’interno del ventaglio di possibilità ammesse dalla legge, con quale criterio dovrà essere dichiarata la propria morte, se in base alla cessazione delle funzioni cerebrali oppure a quelle cardiorespiratorie.

Scenario suggestivo questo, ma difficilmente attuabile se appena si consideri la difficoltà che potrebbero incontrare molti soggetti nella comprensione del complesso tema e, ancora più a monte, la necessità che i diversi criteri di morte entro cui scegliere dovrebbero comunque essere già accolti nell’ordinamento, poiché non è ipotizzabile un “trattamento fai da te” sul momento conclusivo dell’esistenza umana.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Carillo, F. (sotto la direzione di) (1839). Dizionario universale ossia repertorio ragionato di giurisprudenza e questioni di diritto. Tomo IX.
  • Caringella, F. (2013). Manuale di diritto civile.
  • Caringella, F. (2013). Manuale di diritto penale.
  • Cozzolino, U., Izzo, F. (a cura di) (2012). Medicina legale.
  • De Ceglia, F.P. (a cura di) (2014). Storia della definizione di morte.
  • Delpino, L. (2013). Manuale di diritto penale. Parte speciale.
  • Gazzoni, F. (2011). Manuale di diritto privato.
  • Puccini, C. (2003). Istituzioni di medicina legale.
  • Sozzi, M. (2014). Reinventare la morte. Introduzione alla tanatologia.
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