È la vita in sé ad essere vorace necessitando di continua energia per mantenersi, limitando l’entropia di Tanatos e dunque l’altro è necessariamente preda o, nel migliore dei casi, competitor rispetto alle risorse.
CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Vinca il peggiore (Nr. 42)
La vita non ha alcun senso se non se stessa.
Il burattinaio supremo è la forza cieca della vita che tende a conservarsi, ampliarsi e riprodursi con frenetica ingordigia.
Essa potrebbe essere identificata per reificarla col “gene egoista”, descritto dal biologo inglese Richard Dawkins, che progetta e costruisce macchine sempre più adatte alla sopravvivenza e alla sua riproduzione, oppure lasciarla astratta con il nome generico di forza della vita o Eros nell’accezione freudiana di energia contrapposta a Tanatos. La vita dunque non serve a niente se non a se stessa, non è strumentale a nulla e tutto invece è da essa utilizzato.
La vita è una guerra continua senza esclusione di colpi e regole per l’affermazione individuale (lotta intraspecifica) e tra le specie (lotta interspecifica).
Così come le modificazioni anatomiche e funzionali che sono avvenute nell’evoluzione naturale ipotizzata da Darwin sono strumentali al predominio in questa guerra, così anche gli strumenti culturali di cui soprattutto la specie umana si è dotata (filosofie, religioni, sistemi valoriali) avendo ormai l’evoluzione culturale superato e inglobato l’evoluzione naturale stessa, non sono veri o assoluti ma semplici ulteriori strumenti di questa guerra senza fine.
Non esiste un sistema culturale migliore o più giusto, la dimensione su cui si valutano è “vincente-perdente”.
L’aggressione e l’utilizzo o proprio la distruzione dell’altro nella lotta interindividuale o tra gruppi (nazioni, etnie, specie, ecc) non viene messa in atto solo ed esclusivamente se si valuta elevato il rischio di sconfitta o per altre valutazioni nel rapporto costi/ benefici, comunque sempre per una valutazione di convenienza bellica.
Tutti i sistemi valoriali sono un modo ulteriore di sopraffazione dell’altro. Quelli vincenti scrivono le narrazioni e si presentano come “migliori, buoni e giusti” fintantoché non vengono sconfitti ed una nuova narrazione subentra a ribaltare le verità consolidate. Alleanze transitorie o tregue sono certamente possibili ma solo quando gli interessi coincidono e valgono soltanto per il periodo in cui tale coincidenza dura per rompersi subito dopo.
È certo che la nostra civiltà si estinguerà come è successo a tutte le altre culture anche molto più grandi che l’hanno preceduta, il cui oblio ci fa ritenere i più evoluti sorridendo o inorridendo ai loro stili di vita e valori.
È anche molto probabile che la vita stessa nella sua espressione umana si estingua come è successo praticamente a tutte le altre specie spesso per mano nostra. Non sarà di certo una gran perdita, se non per noi, e saranno altre specie vincenti, magari batteriche, a rappresentare la vita. Se poi anche tutte le altre forme di vita si estingueranno l’entropia e il caos avranno la meglio sarà finalmente la pace universale.
In tutto questo il singolo individuo è solo un tentativo che non conta nulla ed anche la singola specie abbastanza poco.
Tutto è lecito purché funzioni aumentando la sopravvivenza individuale e soprattutto la riproduzione. Gli apparati culturali/ ideologici che pongono limitazioni a questo stabilendo ciò è che è o non è lecito e/o giusto sono essi stessi macchine da guerra per la sopraffazione dell’altro.
Il comportamento più opportuno per ciascuno è quello che a seconda del suo posto nella gerarchia di forze del suo ambiente gli prospetta la maggiore sopravvivenza e possibilità riproduttiva, contemporaneamente il soggetto svilupperà un modo di vedere la realtà che lo giustifica e lo considera il migliore.
Qualsiasi giudizio di valore su persone o situazioni è espresso da un soggetto individuale o collettivo e rispecchia i suoi interessi.
Per capirci, i nazisti hanno avuto un solo imperdonabile torto: hanno fatto male i conti e così hanno perso diventando per questo i cattivoni di questo minuscolo brandello di storia di cui presto si perderà ogni memoria.
La partita della vita che seleziona i migliori per il proprio esclusivo interesse non è regolata da alcun ente, arbitro o regolamento esterno, non ci sono dei o altre forze. Né arbitri né spettatori. In un certo senso il gioco è estremamente corretto ed è impossibile barare essendo l’inganno e qualsiasi altra mossa di baro inclusa nelle possibilità: “tutti contro tutti, senza regole, senza esclusione di colpi e all’ultimo sangue”.
Inoltre, l’esito della partita è in grandissima parte dovuto al caso, per cui la nostra illusione di controllo è del tutto fallace: sulla maggior parte delle cose della vita e certamente sulle più importanti non abbiamo pressochè nessun controllo, accadono e basta e solo post hoc ce ne diamo false spiegazioni causali.
È legittimo chiedersi “ma perché tutto ciò?”
È legittimo ma è una stronzata, è così perché è così e la stessa domanda ce la si sarebbe potuta porre se fosse stato diversamente: in qualche modo doveva pur “essere” o, se non altro, “non essere” secondo il ben noto dilemma del principe di Danimarca.
Naturalmente qualsiasi affermazione (comprese queste mie righe che potremmo definire “relativismo evoluzionista”) è equivalente a qualsiasi altra senza alcuna corrispondenza con la realtà. Si può scegliere quale far propria a seconda della situazione e del momento inconsapevolmente guidati dalla propria convenienza che poi non è davvero propria ma della “forza della vita” del tutto disinteressata al singolo individuo tanto quanto noi lo siamo di un nostro villo intestinale. Certo la cosa migliore sarebbe tacersi completamente invece di dire ottuse parzialità in attesa della pax entropica, ma parlare è utile a far venir sete.
Machiavelli nel suo “Principe” descrive in modo analogo l’animo e il comportamento umano arrivando a concludere che l’uomo è malvagio e tale malvagità è ontologica e immodificabile. Non sono d’accordo perché già questo è un giudizio: sarebbe come dire che i solidi pesanti sono pigri perché tendono a poggiarsi per terra e a non muoversi o che i gas sono invadenti perché tendono ad espandersi e ad occupare tutto il volume disponibile.
È la vita in sé ad essere vorace necessitando di continua energia per mantenersi limitando l’entropia di Tanatos e dunque l’altro è necessariamente preda o, nel migliore dei casi, competitor rispetto alle risorse.
In questo senso la vita va distinta dall’esistenza che prevede esclusivamente l’”esserci” e può attribuirsi a tutti gli oggetti inanimati che non si riproducono e non muoiono e assistono distaccati alla lotta per la vita che si svolge intorno a loro e talvolta li utilizza come strumenti. L’esistenza è stabile e pacifica (magari un po’ monotona), la vita precaria e vorace, feroce per sua stessa natura ed è profondamente connessa con la morte (compaiono contemporaneamente nel panorama universale).
Se questa appena descritta è la realtà oggettiva come soggettivamente appare quest’oggi a me, il funzionamento delle cose a livello psicologico, quello delle rappresentazioni interne che alcuni viventi, tra cui l’uomo, hanno sviluppato la faccenda diversamente. Siccome questi viventi vivono sopratutto in un mondo di idee, questi “fenomeni” (le rappresentazioni), per dirla con Kant, diventano più importanti della “cosa in sè”, distante e inconoscibile, e sono loro a farci stare bene o male. Per questo ideali, ideologie, ed altri autoinganni come innamoramenti, amori, religioni e fedi di ogni genere sono utilissimi e rappresentano l’unica realtà che determina stati d’animo e comportamenti. Tutte le ricerche e l’osservazione clinica e quotidiana mostrano che attribuire un senso alla propria vita, meglio se assoluto e trascendente, sia uno dei principali motivi di benessere.
Tali costruzioni comportano un doppio vantaggio, da un lato costituiscono il nucleo dell’identità personale e ci danno l’impressione di particolarità e unicità e contemporaneamente di appartenenza (grande conforto rispetto all’anonimato e all’inutilità reale), dall’altro danno l’impressione di comprensione e conseguente padronanza sulla realtà. Che poi ciò non sia affatto vero è davvero questione di poco conto, che tutt’al più comporterà una puntina di delusione quando se ne dovrà prendere atto, ben compensata in anticipo dai vantaggi relativi all’identità e all’agentività. Inoltre è probabile che tale presa d’atto sia contemporanea o immediatamente precedente alla morte e dunque il vissuto di essersi sbagliati molto breve.
È dunque estremamente utile avere un senso per la propria vita, è giusto e importante avere delle proprie idee precise, crederci fermamente e combattere per esse. Ma sarebbe altrettanto importante tenere a mente che si tratta semplicemente di uno dei possibili modi di vedere le cose e di dare senso all’esistenza, che non è assoluto, e dunque è inopportuno imporlo agli altri con le buone o, peggio, con le cattive maniere e si tratta semplicemente di pattuire poche regole comuni che sono anch’esse un accordo e non una verità assoluta, che consentano a ciascuno di perseguire il “suo personale” senso della vita.
I vari ideali, i“sensi della vita”, le prospettive esistenziali, sono incommensurabili tra loro, come ci insegnavano delle mele e delle pere alle elementari. Non esiste un riferimento comune esterno su cui misurarle, né un convertitore di valore come per le valute. Così come le strutture (organi e apparati) e le strategie comportamentali diverse tra le specie e tra gli individui si misurano solo rispetto alla loro capacità di ottenere sopravvivenza e riproduzione, altrettanto nel mondo dei fenomeni, della realtà psichica, i modi di vedere, gli ideali e quant’altro, tutti, compreso questo mio, egualmente autoingannevoli, si misurano esclusivamente sulla loro capacità di produrre benessere nel loro portatore.
PS:
Naturalmente quanto scritto fin qui corrisponde esclusivamente alle mie convenienze personali in questa fine estate e può cambiare radicalmente, trasformandomi in un integralista buono per qualsiasi fede qualora ne avveda la convenienza. Oppure, più probabilmente, lasciarmi continuare a vivere secondo le abitudini consolidati e i valori del mio gruppo, fingendo di crederci.
“Stretta la foglia, larga la via dite la vostra che ho detto la mia” (diceva amabilmente al termine di un racconto lo stesso mio nonno che in altri momenti affermava perentorio “primiera o non primiera a casa mia voglio primiera”) che tanto una vale l’altra.