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Autoefficacia del terapeuta – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 32

Nel valutare il proprio lavoro come terapeuta ciascuno di noi riflette in maniera più o meno approfondita sul proprio senso di autoefficacia e sul modo in cui è di effettivo aiuto per i propri pazienti. I criteri che possono essere presi in considerazione sono diversi e non hanno purtroppo valore oggettivo.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 01 Ago. 2018

Obiettivo di questo articolo è quello di proporre un possibile punto di vista sulla questione di come ciascun terapeuta possa valutare il proprio senso di autoefficacia rispetto al proprio lavoro in terapia, portando l’attenzione su alcuni criteri di valutazione che forse è bene non dimenticare.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Autoefficacia del terapeuta (Nr. 32)

 

Se devo costruire una sedia, la risposta alla domanda “Quanto sono stato bravo?” è facile e dipende dal collaudo: se regge ho fatto un buon lavoro, altrettanto se devo montare un mobile di Ikea e alla fine non avanzano pezzi.

Fin qui, almeno in apparenza, il compito di valutare la propria autoefficacia, che sia più o meno connessa nella mente del soggetto al valore personale, sembra piuttosto facile e sposta immediatamente il problema sulla valutazione del risultato, per cui si tratta di stabilire i criteri molteplici per definire una buona sedia o una buona scrivania. Più complesso è fare la stessa valutazione rispetto ad una psicoterapia, per due motivi.

Il primo motivo è che il risultato (riduzione dei sintomi e/o benessere del paziente) è decisamente più impalpabile di una sedia e difficile la messa a punto di strumenti di misura.

Il secondo è che trattandosi di un lavoro tra due persone il risultato dipende da entrambi.

Questa seconda constatazione può portare, all’estremo, a due posizioni opposte. Da un lato in terapeuti affetti da sicumera perniciosa ad attribuire la responsabilità delle difficoltà e degli insuccessi al paziente grazie a quel costrutto salva stima, non a caso condiviso da quasi tutti gli approcci, che è “la resistenza”, il cui utilizzo può diventare iatrogeno scaricando colpe sul paziente. Dall’altro in terapeuti iperresponsabili a ritenere che aver attivato una resistenza nel paziente è comunque segno di non averne previsto adeguatamente il funzionamento il che è compito precipuo del terapeuta. Questi terapeuti pensano di essere o, peggio, che si potrebbe e dovrebbe essere onnipotenti trascurando il fatto che l’ora di terapia è soltanto uno dei fatti che capitano al paziente durante la settimana e infinite sono le altre perturbazioni che possono attivare o impedire un cambiamento.

La valutazione della propria autoefficacia come terapeuta

Fin qui ci siamo mossi nel dominio della valutazione reale di efficacia che è ormai da anni oggetto di studio e dibattito nel mondo della psicoterapia dopo l’avvento della EBM (Evidence-Based Medicine). Talmente vasto l’argomento che ce ne distanziamo immediatamente per rifugiarci in un molto più ristretto e “intimistico” argomentino che riguarda “la sensazione soggettiva di efficacia”.

Ci chiediamo cosa ci faccia a volte dire “oggi ho fatto proprio un buon lavoro” e ci accompagni fino a casa soddisfatti e desiderosi di ampliare la nostra attività ed altre volte ci faccia sentire “di essere un disastro, di aver danneggiato il paziente” impegnandoci nottetempo in defaticanti rimuginii sul senso della nostra professione e sulla necessità di rilevare il negozio di frutta e verdura sottocasa per occuparsi più di broccoli e rape che di cristiani.

Credo che questo vissuto, positivo o negativo che sia, abbia ben poco a che fare con l’ autoefficacia reale e quindi possa essere studiato distintamente da essa.

È esperienza comune avere netta l’impressione di aver risolto brillantemente un importante nodo problematico del paziente e di ritrovarselo di fronte tale e quale senza neppure una scalfittura mentre eravamo ancora impegnati nel complimentarci con noi stessi per la genialata. Di contro talvolta i pazienti ci ringraziano per un nostro intervento che reputano decisivo nel loro cambiamento e che ricordano minuziosamente tanto lo ritengono significativo mentre noi ne abbiamo alcuna memoria.

Dunque, in primo luogo dobbiamo tenere distinto il campo della valutazione di autoefficacia da quello della sensazione di efficacia che riguarda queste poche righe. Se il primo è molto studiato anche perché coinvolge importanti aspetti economici (ad es. assicurativi) e si cerca di andare verso una sempre maggiore oggettività, il secondo merita più attenzione, soprattutto come acquisizione di consapevolezza del terapeuta sui propri criteri interni che necessariamente finiscono per influenzare il suo operato. Una ricerca descrittiva avrebbe, a mio avviso, lo scopo di sollecitare questo tema all’attenzione del formatore e del supervisore.

Un esempio: alcuni criteri di valutazione della propria autoefficacia come terapeuta

Per dare il buon esempio cerco di elencare cosa mi fa sperimentare la soddisfazione di aver fatto un buon lavoro in seduta o meno, consapevole che ciò, nei contenuti specifici, vale solo per me mentre il metodo può essere utile per tutti. Da qui in avanti dunque mi riferisco a me stesso e mi rendo conto di quanto questi criteri siano perniciosi. Comunque meglio saperlo che lasciarli agire indisturbati.

In primo luogo è importante l’impressione di aver capito, di aver risolto un rompicapo. Lo stesso piacere lo provo nel trovare la soluzione ad un problema di matematica, un indovinello complicato o nell’individuare l’assassino in un giallo. Per me è una vera goduria quando si fa luce, quando tutto torna, quando finalmente ho capito. Mi rendo conto che tale vissuto è molto simile all’eureka dell’esordio delirante e che per non rinunciare a questo piacere epistemico rischio di trascurare i dati incongruenti che rovinerebbero la festa. Per non imbrattare la limpidezza della soluzione metto sotto al tappeto quanto mi costringerebbe ad una spiegazione meno semplice ed elegante ma più complessa e vera.

In secondo luogo mi sembra importante che il paziente stia bene, o meglio, non soffra nel tempo che sta con me. Quanto questa attenzione a non provocargli disagio immediato sia dannosa mi sembra inutile argomentare, basterà pensare ai disastri che causerebbe un chirurgo mosso dalla stessa preoccupazione. Forse per dare dignità teorica a questo atteggiamento sono anche vistosamente contrario all’idea di molti terapeuti e anche pazienti che una terapia per essere efficace e profonda debba comportare lacrime e sangue. In proposito ricordo come la stessa convinzione in campo medico porti spesso a preferire la terapia iniettiva rispetto a quella orale anche quando ciò non ha alcun razionale e addirittura le aziende farmaceutiche tendono ad aggiungere sostanze urticanti nelle fiale secondo la regola della fata turchina a Pinocchio che “la medicina se è cattiva e fa male vuol dire che è efficace”.

In terzo luogo, attenzione perché questo è gravissimo e pericolosissimo, mi sembra importante e credo di darmi da fare perché si realizzi che il paziente mi trovi simpatico, in gamba e, in estrema sintesi, mi voglia bene. È facile spacciare ciò come l’attenzione alla creazione di una positiva relazione terapeutica e avere il consenso in quanto ciò compare sempre tra gli obiettivi terapeutici ma se devo essere sincero credo che la mia motivazione sia prevalentemente autoreferenziale. Voglio intendere che lo farei anche se fossi alla cassa del negozio di frutta e verdura che prima o poi mi deciderò a rilevare dai pakistani sotto casa. È interessante notare quanto poco conti nella mia sensazione di essere stato bravo la riduzione sintomatologica a meno che il paziente non me la riferisca con gratitudine. Sembra infatti che basta che capisco, loro non soffrono e ci stiamo simpatici che tutto va bene.

Sulla riduzione sintomatologica, il primo motivo per cui viene in terapia, devo mettere consapevolmente l’attenzione perché spesso il paziente continua a portare ciò che non va, poco importa se comunque è ridotto rispetto ad un tempo.

Attendere con interesse la  prossima seduta e magari lavorarci mentalmente per prepararla al meglio è indicatore del fatto che con quel paziente mi sento bravo perché se vogliamo, come topini da esperimento, premere spesso la leva di quel paziente vuol dire che esso ci dà una gratificazione validando la nostra identità professionale. Se al contrario facciamo novene perché non venga e alla notizia di una buca esultiamo scompostamente con lingue di Menelik e nacchere evidentemente quel paziente ci rimanda che non siamo un bravo terapeuta.

Se poi, piuttosto che liquidare la faccenda dicendoci che “è uno stronzo, non collaborativo, traboccante di resistenze”, ci dicessimo che lui fa solo la sua parte da matto potremmo prendere in considerazione l’ipotesi che magari davvero non siamo stati bravi con lui e potremmo vedere perché.

Se si volesse fare una ricerchina in proposito chiederei ad un gruppo di colleghi:

Ogni settimana prova a compilare questa scheda

Autoefficacia del terapeuta quali criteri utilizzare per l'autovalutazione1

 

E poi una volta ogni sei mesi

 

Ndr: una versione precedente di questo articolo è stata pubblicata su State of Mind il 7 febbraio 2017, la trovi qui.

 

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