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Psicoterapia psicodinamica per pazienti migranti: presupposti teorici e prassi clinica

La psicoterapia psicodinamica con pazienti migranti, seppur ancora poco considerata tra le modalità di intervento, può rappresentare un'importante via di accesso all'elaborazione delle esperienze traumatiche di questi pazienti, grazie ad un lavoro sulla relazione terapeutica e sull'integrazione di un nuovo vero Sé.

Di Paolo Mandolillo

Pubblicato il 01 Giu. 2018

Aggiornato il 03 Ott. 2018 09:40

La Psicoterapia psicodinamica rivolta ai migranti differisce da qualsiasi altro tipo di intervento supportivo o psicoeducativo perché mira all’integrazione dei fattori inconsci che sottostanno al trauma esperito, mettendo al centro la relazione clinica.

 

Il fenomeno migratorio che coinvolge il popolo africano è sempre più rappresentativo del periodo storico che stiamo vivendo e tocca molto da vicino l’Italia, determinando un cambiamento politico, economico e sociale; gli effetti si evincono dall’attivazione del Welfare che pone in essere sempre più servizi di accoglienza ai migranti.

In questi contesti, lo psicologo risulta chiamato in causa, rappresentando il professionista di riferimento capace di prendere in carico le singole persone, favorendo l’accoglienza prima e l’integrazione poi nel nuovo ambiente socio-culturale.

Psicoterapia Psicodinamica: una possibilità di intervento nel rapporto con i migranti

Se da una parte la letteratura scientifica sull’etnopsichiatria è sempre più florida (utile a fornire chiavi di lettura capaci di prescindere dal DSM 5 per le condizioni più gravi) e sono presenti lavori che dimostrano l’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale (Bianco et al., 2016) o della Terapia dell’Esposizione Narrativa (Marzocchi, 2015), manca ancora una comprensione psicodinamica del vissuto dei migranti ed una proposta di trattamento di tipo espressivo.

La psicoterapia psicodinamica potrebbe essere perfetta in uno SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) durante sia la fase di seconda accoglienza ma, compatibilmente con i tempi di permanenza molto lunghi, anche nella fase di prima accoglienza; si potrebbe, infatti, pianificare questo tipo di intervento in ogni contesto che si occupa di servizi per migranti, tenendo conto ovviamente delle caratteristiche personologiche soggettive ed escludendo eventuali criticità psicopatologiche gravi.

In particolare, sarebbe possibile pensare ad un intervento di psicoterapia psicodinamica quando gli individui mostrano, ad una prima analisi, alta tolleranza alla frustrazione, capacità intellettive notevoli e si esclude sintomatologia psicotica; l’intervento deve essere, però, quanto più possibile moderno ed intensivo soprattutto per ciò che riguarda la cadenza e il numero delle sedute.

Il colloquio con il migrante secondo una prospettiva di Psicoterapia Psicodinamica

Una buona comprensione psicodinamica non può prescindere dalla realizzazione di una solida e ben definita relazione clinica, capace di aiutare la persona a mostrarsi progressivamente per quello che realmente è. Ma la domanda sorge spontanea: “Migrante, chi sei? Sei la persona che ha lasciato il suo Paese o sei una persona che è arrivata in Italia?”.

Questo aspetto iniziale, tutt’altro che scontato, apre le porte al disagio esistenziale centrale su cui ruoterà successivamente la terapia, ovvero quello della “disintegrazione dell’identità” (Van der Kolk et al., 2004).

Il primo impatto con persone migranti appare segnato da una generale sensazione di disorientamento: seppur con i piedi sulla terra, la persona appare psicologicamente “in viaggio”, incapace di definire bene il proprio passato, presente e futuro. Questo disorientamento, non è esclusivamente traducibile in diffidenza verso lo sconosciuto “Altro diverso da me”, ma anche e soprattutto verso lo sconosciuto “Altro diverso in me” successivamente proiettato verso l’oggetto esterno. Ecco perché sarà fondamentale, per il clinico, la costruzione fin da subito di una relazione spontanea e diretta, nella quale potrà e dovrà mostrare la parte più autentica del proprio Sé.

Riuscire a creare un clima caldo e accogliente, circostanza che potrebbe sembrare ovvia e scontata, rappresenta la prima sfida per lo psicologo, che deve essere capace di adattarsi alle circostanze puramente logistiche ed alle condizioni psico-fisiche della persona, riuscendo ad essere il più originale possibile nel creare un setting altamente personalizzato. Questo obiettivo deve essere tenuto ben in mente fin dal primo colloquio, cercando di creare un contesto adeguato in grado di garantire riservatezza e che sia totalmente privo di qualsiasi forma di coercizione. Certo sarà difficile definire un ambiente standardizzato, ma proprio per questo è bene non porre alcun limite alla creatività: a volte anche le panchine esterne di un rumoroso cortile o la sala del caffè di una comunità possono rappresentare la scenografia del “primo incontro”.

Pretendere che il migrante possa fidarsi subito di una persona che parla un’altra lingua, che veste in modo diverso, il cui ruolo non è ben definito e riconosciuto, è chiaramente un’aspettativa ambiziosa. Il primo passo che lo psicologo può fare per creare un ponte efficace potrebbe essere proprio quello di presentare se stesso ed il proprio ruolo, utilizzando la lingua conosciuta dal migrante (inglese o francese); in maniera sincera, con parole semplici e dirette, senza prestare eccessiva rilevanza ai titoli, presentare le proprie peculiarità personali e professionali può essere la strada giusta per creare il primo contatto.

In questo, la presenza della figura del mediatore culturale durante il primo colloquio può dimostrarsi fondamentale, soprattutto quando i migranti parlano una lingua totalmente sconosciuta allo psicologo; in queste circostanze, previa idonea spiegazione del ruolo di interprete rivestito dalla figura del mediatore, questi viene a rappresentare un ausilio fondamentale per il lavoro dello psicologo. Se la persona migrante parla però una lingua conosciuta anche solo parzialmente dallo psicologo, che possiede un’adeguata competenza transculturale (Koehn, 2005), è preferibile un incontro vis à vis esclusivamente tra clinico ed utente: non è importante comprendere il 100% del riferito, ma è piuttosto prioritario un ascolto attivo ed empatico.

Durante il colloquio clinico, è importante, inoltre, che lo psicologo abbia la capacità di saper aspettare. La raccolta delle informazioni anamnestiche nel setting dello psicologo, diverso da quello di altre figure professionali coinvolte nell’accoglienza dei migranti, dovrebbe avvenire nel mondo più spontaneo possibile. Prendere appunti, seguire un preciso e dettagliato corso degli eventi, può avere degli effetti negativi sulla realizzazione di una solida relazione terapeutica. Il primo racconto sarà probabilmente ricco di omissioni o incongruenze, ma è fondamentale in questo momento la validazione empatica piuttosto che la stesura successiva di un coerente resoconto della loro vita.

Costruito un “ponte” con la persona migrante durante i primi incontri, sarà possibile seguire questa persona successivamente attraverso un percorso di psicoterapia ad orientamento psicodinamico.

La Psicoterapia Psicodinamica: modalità di intervento

L’intervento psicodinamico rivolto ai migranti differisce da qualsiasi altro tipo di intervento supportivo o psicoeducativo perché mira all’integrazione dei fattori inconsci che sottostanno al trauma esperito, mettendo al centro la relazione clinica.

Il passaggio dall’illusione dell’emigrazione alla sofferenza dell’immigrazione, descritto da Sayad (2002) può essere affrontato in psicoterapia psicodinamica, attraverso un processo di esplorazione emotiva delle aspettative deluse che erano state costruite attraverso criteri definiti da un’identità che non appartiene più alla persona.

Il viaggio della migrazione e le esperienze vissute, di fatto, “cambiano” la persona. Non c’è solo una dislocazione spazio-temporale dell’identità, avviene la disintegrazione della stessa, determinata dalla separazione violenta e repentina tra ciò che la persona era e ciò che la persona è, aggravata dal mancato riconoscimento dell’esperienza lavorativa e dei titoli di studio pregressi, che conduce la persona a doversi accontentare di attività professionali molto dequalificate. Inoltre la qualità dei rapporti con familiari rimasti in Africa cambia radicalmente (e progressivamente anche l’oggetto interiorizzato degli stessi): da un lato perché non vengono accolte e comprese dai familiari le problematiche quotidiane dell’immigrato in Italia, dall’altro perché purtroppo manca un “pezzo di vita” che non può essere immediatamente raccontato. Questo genera sentimenti di rabbia nei confronti dei familiari, che però non può essere razionalmente espressa, tollerata e soprattutto accettata, perciò attraverso il meccanismo di difesa del volgimento contro il Sé la rabbia viene rivolta verso un Sé già frammentato e disintegrato, determinando una forte chiusura in Sé stessi.

In questa cornice, la psicoterapia psicodinamica rappresenta così il luogo dove può avvenire l’integrazione dell’identità. Un fattore terapeutico che può essere catalizzatore di questo processo è il rispecchiamento da parte del terapeuta.

I vissuti legati all’esperienza della migrazione sono molto diversi rispetto a quelli che lo psicoterapeuta è comunemente abituato a prestare attenzione, perciò non sarà difficile sentirsi empaticamente travolti dalle emozioni ascoltando le proprie reazioni controtransferali. Mostrare dispiacere per le drammatiche ed inusuali esperienze condivise, esprimere verbalmente sentimenti di sofferenza, aiuta fortemente non solo a creare la tanto auspicata alleanza terapeutica, ma facilita la nascita di un sentimento nuovo nel cuore del migrante: l’idea che la sua storia merita di essere raccontata, che la sua sofferenza emotiva è ragionevole e non merita di essere repressa o rimossa attraverso meccanismi di gestione del trauma culturalmente indotti come l’oblio o il silenzio (Burnett e Peel, 2001). Va discusso ed affrontato il trauma perché rappresenta il nucleo della sua nuova identità, la cui individuazione può aiutarlo a definire il nuovo progetto della sua esistenza, non necessariamente legato alle aspettative del momento della sua partenza.

Lo psicologo-psicoterapeuta psicodinamico deve essere capace di aiutare la persona a considerarsi “speciale”, per poter successivamente capire che il momento di transizione che sta vivendo può essere il momento in cui può integrare la sua doppia identità, che fa riferimento a ciò che era e ciò che può diventare. Integrarle non significa abbracciarne una, ma decidere realisticamente che è arrivato il momento di creare qualcosa di nuovo che sappia fondare le radici su un adeguato esame di realtà e delle circostanze del qui-ora.

Favorire questo processo narrativo non è l’unico aspetto caratterizzante della psicoterapia psicodinamica: il principio su cui può ruotare l’intero trattamento psicoterapeutico è quello di svincolare il migrante dalla tenaglia del presente per favorire una quanto più adattiva presentificazione del futuro.

Gran parte dei colloqui con il migrante sono caratterizzati dall’espressione di intolleranza: verso il cibo, verso il clima, verso gli operatori o altre persone conosciute, etc. Quest’intolleranza, se da una parte va accolta ed approfondita, dall’altra necessita della giusta lettura analitica: sfruttando l’interpretazione dei sogni, oppure la tecnica delle libere associazioni, o l’osservazione delle dinamiche transferali, è utile aiutare la persona a capire quali meccanismi di difesa alimentano questo vissuto (solitamente proiezione, identificazione proiettiva e compartimentalizzazione) che gli impediscono di considerare l’incertezza del futuro come una risorsa. Questi meccanismi da una parte tendono a reprimere le spinte pulsionali caratteristiche della propria natura, dall’altra determinano un blocco interpersonale e l’impossibilità di attivare un pensiero creativo ed autodeterminante sul futuro.
Promuovere l’insight di questo blocco può sia migliorare il tono dell’umore sia favorire l’integrazione psico-sociale dei migranti, due importantissimi obiettivi della psicoterapia piscodinamica in questo tipo di circostanze.

Ovviamente il futuro incerto che caratterizza la vita dei migranti spesso può determinare precoci e frequenti drop-out legati a motivi di forza maggiore (trasferimenti improvvisi, passaggio dalla prima alla seconda accoglienza, etc.), per questo è fondamentale favorire quanto più possibile il processo di introiezione della figura del terapeuta da parte del paziente, in modo che possa facilmente acquisire la capacità di un “dialogo interno” capace di determinare meccanismi riflessivi sui propri pensieri, sui propri comportamenti e sulla propria identità tutt’altro che rigidamente predeterminata da ciò che era, ma piuttosto orientata verso il ventaglio di possibilità che possono aprirsi alla luce della sua esperienza e che può garantirgli un’apertura al “sentire” profonda ed efficace.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bianco, S., Messore, C.E., Radice, G. (2016). Psicoterapia con pazienti stranieri: verso una prospettiva italiana. State of Mind, 03-2016.
  • Burnett, A., Peel, M. (2001). What brings asylum seekers to the United Kingdom? British Medical Journal, 322, 485–488.
  • Koehn, P. (2005). Medical Encounters in Finnish Reception Centres: Asylum-Seeker and Clinician Perspectives. Journal of Refugee Studies, 18, 47-75.
  • Marzocchi, C., (2015) Il trauma nel racconto dei rifugiati: la terapia dell’esposizione narrativa (NET)
. State of Mind, 11-2015.
  • Sayad, A., (2002). La doppia assenza. Dalle illusioni dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato. Milano. Editore Cortina.
  • Van der Kolk, B.A., Mcfarlane, A.C., Weisaeth, L. (2004), Stress traumatico. Gli effetti sulla mente, sul corpo e sulla società delle esperienze intollerabili. Roma. Magi Edizioni
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