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Dogman (2018): tra assenza di colore e assenza di speranza, un destino che soccombe sotto il dolore di ciò che ci circonda – Recensione del film

In Dogman, la narrazione è quasi elemento di contorno rispetto alla parabola di un uomo di fronte alla sopraffazione, uomo minuscolo e poi spietato, buono e infine lucido che tenta la sopravvivenza con le stesse carte della propria rovina.

Di Gianluca Frazzoni

Pubblicato il 23 Mag. 2018

Appena premiato a Cannes con il riconoscimento per il miglior attore protagonista, Dogman, il film di Garrone, liberamente ispirato al “delitto del canaro” che trent’anni fa scosse la periferia romana e l’opinione pubblica nazionale per la sua efferatezza, peraltro mai pienamente provata, riesce a salire di livello rispetto alla (mai) semplice narrazione di un evento. 

 

Il primo elemento che colpisce di Dogman è la capacità di costruire un ambiente visionario nella sua crudezza, all’interno del quale il flusso del racconto sembra armonizzare la disperazione del degrado. La città non ha nome, la periferia è romana, romanesca negli accenti dei suoi personaggi ma potrebbe essere l’estrema terra abbandonata di qualunque città impotente di fronte al proprio destino immobile. I colori sono cupi o assenti, le case diroccate nei significati che trasmettono mute, più che se avessero subito una guerra, la distruzione è nelle strade deserte in mezzo ai casermoni, nei palazzacci isolati da qualunque forma di vita. Una sintesi, si potrebbe immaginare, fra la spoglia solitudine di gomorriana memoria e l’alienazione lunare degli scenari post fine del mondo.

In questo inferno che non scalfisce il silenzio, si muovono, come ombre stanche, uomini la cui vita è l’unico bar, l’unica sala di giochi più o meno leciti, l’officina che ripara motori e smercia provvidenziale cocaina – viene da credere possa essere l’unica emozione riproducibile – e pochi negozi che non si capisce di quali clienti possano sopravvivere. Uno di questi è “ Dogman ”, toelettatura per cani, tanti cani, più cani che umani parrebbe. Come se affidarsi ai quattro zampe fosse l’unico modo per avere uno scambio con altre vite.

Il canaro è Marcello che, come gli altri abitanti del quartiere e in realtà molto di più, fino a conseguenze devastanti, subisce le vessazioni di Simone, gigantesco pugile cocainomane che dispone a piacimento del prossimo grazie alla violenza bestiale che nessuno riesce a fermare. Marcello non si limita a subirlo, sembra essergli amico non solo per paura ma anche per una sorta di benevola indulgenza verso l’omone stupido che pare avere nei suoi confronti altrettanta gentilezza, ruvida forse, ma percepibile. I due sembrano quasi capirsi, come se le loro solitudini potessero, proveniendo da mondi interiori opposti, diventare solidali. Simone ha bisogno di Marcello per la droga e lo risparmia dalla propria aggressività, dinamica resa ovvia e tragica dall’arrendevolezza senza condizioni del canaro. Quest’ultimo sopravvive alle mareggiate emotive del pugile placandolo con la polvere bianca e garantendo remissiva disponibilità alle scorribande di ordinaria criminalità notturna che Simone mette in piedi con qualche compare altrettanto triste.

I battiti del film Dogman sono regolari, paralleli allo scorrere di una vita consumata e degradante, nella quale ogni figura pare non poter fare nulla di diverso da ciò che fa e continuerà a ripetere, esattamente come i cani e la loro toeletta. Fino al crescendo della violenza, al ricatto inarrestabile che conduce Marcello a consegnarsi come vittima inerme senza mai perdere l’espressione di un’impotenza a tratti enigmatica, che nelle pieghe della storia inizia a rimuginare, a invertire la rotta, a rinforzarsi di una rabbia silenziosa e ragionata, poi manifesta ma ad ogni modo fredda, nei lenti movimenti che finiscono per avvolgere il carnefice di un tempo e nell’epilogo finale.

La narrazione del delitto è quasi elemento di contorno, marginale rispetto alla parabola di un uomo di fronte alla sopraffazione, minuscolo e poi spietato, buono e infine lucido nel tentare la sopravvivenza con le stesse carte della propria rovina, forse le uniche possibili in quel microcosmo espressione dell’universalità.

Sembra che Marcello comprima per tutta la vita il peso di dolori altri, di amarezze che si nascondono nel suo sguardo basso, nella voce sottile; sembra che ogni personaggio, nella luce obliqua di una periferia che è l’immagine di una realtà fuori dal mondo al centro del nostro mondo, nei riflessi metallizzati dell’assenza di colore e dell’assenza di speranza, percorra un destino che non può non infettarsi, soccombendo, dell’ansimare dolente di ciò che vive intorno a lui.

DOGMAN – GUARDA IL TRAILER DEL FILM:

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