I recenti progressi nell’imaging cerebrale hanno permesso agli scienziati di mostrare per la prima volta il ruolo di una proteina chiave nella morbo di Alzheimer, la quale si diffonde in tutto il cervello e causa la morte delle cellule nervose. La possibilità di bloccare tale diffusione potrebbe impedire alla malattia di svilupparsi.
Gli studi sinora condotti sul morbo di Alzheimer
Si stima che 44 milioni di persone in tutto il mondo vivano con il morbo di Alzheimer, una malattia i cui sintomi includono problemi di memoria, cambiamenti nel comportamento e progressiva perdita di indipendenza. Questi sintomi sono causati dall’accumulo nel cervello di due proteine: beta-amiloide e tau. La prima è il principale peptide delle placche amiloidi, o senili e ha origine dalla proteina APP, Amyloid Precursor Protein. Si suppone che, con lo sviluppo della proteina beta-amiloide, si verifichi la diffusione della proteina tau, responsabile della diffusione delle cellule nervose e di conseguenza dell’eliminazione dei nostri ricordi e delle nostre funzioni cognitive.
Fino a pochi anni fa, era possibile esaminare l’accumulo di queste proteine esaminando il cervello solo nei malati del morbo di Alzheimer post mortem. Tuttavia, i recenti sviluppi nella tomografia a emissione di positroni (PET) hanno permesso agli scienziati di osservare il fenomeno dell’accumulo delle proteine nei pazienti ancora in vita. La procedura prevede l’iniezione di un ligando radioattivo, il quale si aggancia a una molecola tracciante che a sua volta si lega al bersaglio al fine di essere rilevato dallo scanner PET.
Le ipotesi sulla diffusione della proteina tau nel cervello
In uno studio pubblicato sulla rivista Brain, un team guidato da scienziati dell’Università di Cambridge descrive l’utilizzo di una combinazione di tecniche di imaging per osservare le correlazioni tra i modelli della proteina tau e il cablaggio del cervello di 17 pazienti con morbo di Alzheimer, rispetto al gruppo di controllo.
Su come la proteina tau si diffonda in tutto il cervello è stato per molto tempo oggetto di speculazioni tra gli scienziati e ciò ha portato alla formulazione di diverse ipotesi.
Una prima ipotesi nota come “diffusione transneuronale”, nasce da alcuni studi effettuati sui topi, ai quali veniva iniettata la proteina tau “umana” anormale e si osservava una rapida diffusione in tutto il cervello. Il limite era sottolineato dalla quantità superiore di proteina tau nel cervello del topo rispetto alla dimensione del cervello umano.
Una seconda ipotesi fa riferimento all’ipotesi della “vulnerabilità metabolica” e sostiene che la proteina tau venga prodotta localmente nelle cellule nervose, ma che alcune regioni abbiano una maggiore richiesta metabolica e quindi siano più vulnerabili alle proteine. In questi casi il tau è un indicatore di angoscia nelle cellule.
La terza ipotesi si riferisce al “supporto trofico” e suggerisce che alcune regioni del cervello siano più vulnerabili, non per una richiesta metabolica come avveniva nella seconda ma per una mancanza di nutrizione nella regione o di modelli di espressione genica.
Grazie agli sviluppi nella scansione PET, è ora possibile confrontare queste ipotesi.
Un nuovo studio sulle connessioni del cervello dei malati di Alzheimer
“Cinque anni fa, questo tipo di studio non sarebbe stato possibile, ma grazie ai recenti progressi nell’imaging, possiamo verificare quale di queste ipotesi concorda meglio con ciò che osserviamo“, afferma il dott. Thomas Cope del Dipartimento di Neuroscienze Cliniche presso l’ Università di Cambridge, il primo autore dello studio.
Il Dott. Cope e colleghi hanno esaminato le connessioni funzionali all’interno del cervello dei malati di Alzheimer – in altre parole, come erano cablati i loro cervelli – e hanno confrontato questo con i livelli di proteina tau presenti. Le loro osservazioni li hanno portati a propendere per l’ipotesi della diffusione transneuronale, dove la tau prodotta in una determinata area si diffonde in altre regioni ma è in contrasto con le previsioni delle altre due ipotesi.
“Se l’idea della diffusione transneuronale è corretta, allora le aree del cervello che sono maggiormente collegate dovrebbero avere il più grande accumulo di tau e lo trasmetteranno alle loro connessioni. È lo stesso che potremmo vedere in un’epidemia di influenza. Ad esempio, le persone con le reti più grandi hanno più probabilità di prendere l’influenza e poi di trasmetterle ad altri, e questo è esattamente ciò che abbiamo visto“, dice il professor James Rowe, autore senior dello studio e aggiunge inoltre: “Nel morbo di Alzheimer, la regione del cervello più comune dove compare la proteina tau è l’area della corteccia entorinale, situata vicino l’ippocampo, la “regione della memoria”.
La conferma dell’ipotesi di diffusione transneuronale è importante perché suggerisce che potremmo rallentare o arrestare la progressione del morbo di Alzheimer sviluppando farmaci per impedire alle proteine tau di muoversi lungo i neuroni.
Il confronto con la paralisi sopranucleare progressiva
Lo stesso team ha esaminato anche 17 pazienti affetti da un’altra forma di demenza, nota come paralisi sopranucleare progressiva (PSP), una rara condizione che influenza l’equilibrio, la visione e la parola ma non la memoria. Nei pazienti con PSP, la tau tende a proliferare alla base del cervello piuttosto che in ogni parte. I ricercatori hanno scoperto che il pattern di accumulo di tau in questi pazienti supportava le seconde due ipotesi, la vulnerabilità metabolica e il supporto trofico, ma non l’idea che il tau si diffondesse attraverso il cervello. I ricercatori hanno anche preso pazienti in diversi stadi della malattia e hanno osservato come l’accumulo di tau abbia influenzato le connessioni nel loro cervello. Nei malati di Alzheimer, hanno dimostrato che quando il tau si accumula e danneggia le reti, le connessioni diventano più casuali e probabilmente questo potrebbe spiegare i ricordi confusi tipici di tali pazienti.
Nei pazienti con paralisi sopranucleare progressiva (PSP), le “autostrade” che trasportano la maggior parte delle informazioni in individui sani ricevono il maggior danno, il che significa che le informazioni devono viaggiare intorno al cervello lungo un percorso più indiretto. Questo potrebbe spiegare perché, quando viene posta una domanda, i pazienti con PSP possono essere lenti a rispondere ma alla fine arrivano alla risposta corretta.