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L’ascesa della tecnica della Deep Brain Stimulation (DBS) per i disturbi mentali gravi farmaco-resistenti: una questione controversa

La Deep Brain Stimulation, usata per mappare l’attività neurale in alcuni disturbi psichici e stimolare le aree cerebrali, solleva diverse questioni etiche

Di Enrica Gaetano

Pubblicato il 19 Dic. 2017

Aggiornato il 15 Gen. 2018 12:24

Attualmente l’uso della Deep Brain Stimulation è stato allargato al trattamento dei disturbi psichiatrici che si sono rivelati persistenti nel tempo e che non rispondono più ad alcun tipo di dosaggi farmacologico e terapia di qualunque genere.

 

La tecnica della Deep Brain Stimulation (DBS)

La tecnica della Deep Brain Stimulation (DBS) è stata approvata per la prima volta negli Stati Uniti nel 1997 dalla FDA, la Food and Drug Administration, per il trattamento di numerose condizioni neurologiche associate alla malattia di Parkinson come i tremori incontrollabili e la distonia, l’epilessia, la sindrome di Tourette (Perlmutter & Mink, 2006).

Il trattamento con la Deep Brain Stimulation consiste nell’impianto chirurgico di elettrodi in specifiche regioni cerebrali, coinvolte nel disturbo, con lo scopo di stimolarle elettricamente attenuando e migliorando i sintomi del paziente; è bene sottolineare tuttavia che il meccanismo per il quale la tecnica neurochirurgica sembra funzionare è ancora scarsamente conosciuto anche se è noto che la Deep Brain Stimulation agisce tramite meccanismi multimodali che non sono limitati all’inibizione o all’eccitazione dei circuiti (Askan, Roger et al., 2017).

È stato postulato che l’efficacia della Deep Brain Stimulation nell’attenuare i sintomi del paziente e di migliorarne la qualità di vita sia dovuta al fatto che gli impulsi elettrici, rilasciati dagli elettrodi impiantati, modulino l’attività neurale.

Ad esempio, è stato osservato come durante la Deep Brain Stimulation per il trattamento di tremori invalidanti caratterizzanti la malattia di Parkinson, il semplice impianto di un elettrodo nel talamo ha determinato l’immediata riduzione di questi (Benabid, 2003).

Gli elettrodi vengono impiantati tramite una procedura neurochirurgica e sono collegati ad un device simil-pacemaker che viene posto sottopelle al di sotto della clavicola; una volta che il paziente viene dimesso, l’apparecchio pacemaker viene programmato e regolato per far si che gli elettrodi rilascino corrente elettrica con una frequenza e un voltaggio specifici in modo tale da ottenere la miglior riduzione possibile dei sintomi (Askan, Roger et al., 2017).

Attualmente l’uso della Deep Brain Stimulation è stato allargato al trattamento dei disturbi psichiatrici che si sono rivelati persistenti nel tempo e che non rispondono più ad alcun tipo di dosaggi farmacologico e terapia di qualunque genere, come ad esempio alcune forme di depressione e disturbo ossessivo-compulsivo molto gravi e che non mostrano alcun tipo di miglioramento dei sintomi nel tempo (Fitzgerald & Segrave, 2015).

Deep Brain Stimulation: gli sviluppi

Recentemente, il gruppo di ricercatori statunitensi del Defence Advanced Research Projects Agency (DARPA) in collaborazione con i ricercatori dell’Università di San Francisco e dell’ospedale di Boston, ha presentato per la prima volta alla società di neuroscienze (SfN), un progetto di ricerca preliminare che si prefigge lo scopo di testare la Deep Brain Stimulation per identificare e registrare online pattern di attivazione cerebrale associati specificatamente ai disturbi mentali ed eventualmente trattarli sulla base delle informazioni raccolte tramite gli elettrodi impiantati.

La Deep Brain Stimulation infatti non solo è in grado di modulare l’attività elettrica delle aree cerebrali coinvolte e di interesse per il disturbo ma anche di registrarla online (Perlmutter & Mink, 2006).

Il gruppo di ricerca ha sviluppato tale progetto sperimentale partendo dagli studi su soggetti con epilessia che già avevano impiantati elettrodi per tracciare i momenti in cui avvenivano gli attacchi epilettici; tramite la Deep Brain Stimulation i ricercatori sono stati in grado di utilizzare le informazioni provenienti dagli elettrodi impiantati per registrare online cosa stava accadendo nel cervello di questi pazienti ed intervenire con stimoli elettrici solo al momento del verificarsi di un attacco epilettico.

I ricercatori inoltre hanno avuto modo di accedere all’attività cerebrale non legata agli episodi epilettici ma comunque registrata dagli elettrodi e di poter rilevare nel dettaglio anche l’umore dei pazienti per un periodo di tre settimane.

La loro idea innovativa è stata quella di mettere in relazione i due tipi di informazioni, l’attività cerebrale registrata dagli elettrodi e le rilevazioni dell’umore, creando uno specifico algoritmo in grado di decifrare i cambiamenti dell’umore utilizzando l’attività cerebrale delle aree associate.

L’intenzione alla base dello studio non è stata quella di identificare un particolare disturbo mentale e ridurne i sintomi ma di “mappare”, tramite la Deep Brain Stimulation, l’attività cerebrale dei soggetti associata con delle funzioni compromesse dal disturbo dell’umore come ad esempio la capacità di concentrazione: gli studiosi hanno utilizzato l’algoritmo da loro sviluppato per capire quando stimolare le aree cerebrali legate all’attenzione “alterata” nel momento in cui il soggetto si distraeva da un compito, come ad esempio l’identificazione di espressioni facciali emotive.

I ricercatori hanno trovato che trasmettere impulsi elettrici alle aree cerebrali coinvolte ad esempio nel decision-making migliorasse significativamente la prestazione dei soggetti ai compiti; l’equipe inoltre ha avuto modo di registrare l’attività cerebrale mentre le persone cominciavano a distrarsi o a rallentare mentre svolgevano un compito e di conseguenza intervenire con una stimolazione.

Mi auguro che questa stimolazione possa in futuro rappresentare un trattamento a lungo termine per quei pazienti con disturbi dell’umore farmaco resistenti, in parte perché l’uso di questo trattamento è personalizzato e basato su specifici segnali cerebrali dell’individuo anziché sui giudizi del medico – afferma Wayne Goodman, psichiatra al Baylor College di medicina di Houston, Texas.

Questo trattamento solleva certamente delle questioni etiche notevoli e complesse da tenere in considerazione in quanto il passo successivo sarà la possibilità di “correggere” al momento le emozioni o le decisioni delle persone o di registrare ciò che l’individuo sta provando andando al di là di ciò che è osservabile tramite le espressioni del volto o il comportamento e riferibile dal soggetto.

Sarà forse possibile in futuro accedere all’attività cerebrale che codifica le emozioni delle persone; la cosa affascinante riguardo queste tecnologie è che per la prima volta siamo in grado di aprire una finestra sul cervello e sapere cosa sta accadendo al momento con la possibilità di intervenire e prevenire ricadute – afferma Alik Widge, neuroingegnere e psichiatra all’università di Harvard

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