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Nerve: un film sulla fobia sociale (2011) – Cinema e Psicologia

Nerve (2011) è un film indipendente di J.R. Sawyers sulla fobia sociale. Nel film viene proposto un esperimento di esposizione comportamentale.

Di Gianluca Frazzoni

Pubblicato il 23 Ott. 2017

Un film sulla fobia sociale, la descrizione di un esperimento condotto per una tesi di laurea e svolto seguendo le gesta quotidiane di un ragazzo alle prese con la paura. Questo ha tentato J.R. Sawyers nel suo film Nerve, uscito nel 2011.

 

La trama del film Nerve

Aurora è una studentessa di psicologia che per analizzare la fobia sociale propone a Josh di diventare il suo soggetto sperimentale. La procedura utilizzata per testare le reazioni di Josh – e allo stesso tempo impostare una sorta di aiuto terapeutico che possa permettergli di compiere progressi – è l’esposizione comportamentale, indurlo ad affrontare situazioni ansiogene di difficoltà crescente. Si parte dal chiedere il numero di telefono alle sconosciute per arrivare ad approcci più complessi, nel tentativo di abituarlo a tollerare l’agitazione e ad accettare gli eventuali rifiuti.

Gli incidenti di percorso non mancano, sebbene ciò che sembrerebbe più instabile nello sviluppo del film non sia tanto l’umore del protagonista quanto la trama narrativa. Alcuni passaggi sono estremamente realistici, veri, in altri si perde il significato complessivo della vicenda. Il tentativo di Josh di scalare la montagna di un appuntamento con una ragazza è percorso dalla sfiducia, da un’inquietudine rabbiosa, autocritica, che ben rispecchia gli stati d’animo della fobia sociale.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

Le emozioni e i comportamenti del protagonista del film Nerve

La frustrazione nel percepirsi inadeguato, la sensazione che un destino avverso ostacoli il raggiungimento di un’accettabile appartenenza al mondo delle relazioni, sono per Josh una compagnia emotiva costante alla quale egli reagisce con modalità talvolta poco comprensibili allo spettatore. Non si capisce la ragione per cui il ragazzo inizi a raccogliere senzatetto per strada portandoli a casa e facendoli bivaccare in salotto per svariati mesi, né appare motivabile la metamorfosi fulminea con cui si trasforma per brevi parentesi in un soggetto provocatorio, che attira l’attenzione degli altri con azioni bizzarre e spavalde negli stessi contesti sociali che poco prima lo lasciavano atterrito e poco dopo tornano a sembrargli ostili.

Il ritiro emotivo si alterna all’impulsività con cui tira un pugno a uno sconosciuto molesto, la timidezza che lo paralizza alla sola idea di rivolgere la parola a una ragazza diventa coraggio risoluto nel dichiararsi ad Aurora affrontando il suo fidanzato. La sensazione da spettatore è che non vi sia un’integrazione narrativa tra i diversi stati emotivi del protagonista, come se fossero persone diverse e non, eventualmente, parti diverse della stessa persona.

Il passaggio dall’ansia al terrore alla rabbia per finire alla consapevolezza delle proprie risorse avviene senza una linea che congiunga i significati in modo attendibile, mostrando cosa accade all’emotività di Josh in relazione ai progressi che compie e alle ricadute di cui è vittima. La matassa pare sciogliersi quando il ragazzo si rende conto che l’esposizione non basta – forse Aurora avrebbe dovuto pensarci prima di iniziare – e ammette il disagio di non sentirsi risolto. Suo malgrado sta descrivendo il film, un’idea pregevole non risolta. Buttarsi a caso nella mischia delle relazioni sociali, fraternizzare con gli sconosciuti per spezzare il tabù di non essere visto dagli altri esseri umani non è una terapia bensì un modo caotico per uscire dall’isolamento. Unito all’elaborazione delle emozioni e integrando i vari livelli della personalità – impulsi, storia personale, costruzione dell’identità – diventerebbe una terapia. Come accade al film, che mostrando un leone in gabbia svela una potenziale caratteristica della fobia sociale senza dirci come può la belva ritornare in natura e non essere in pericolo.

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