A giochi conclusi, la sera a luci spente, mi rincuora pensare che Io è tutte quelle parti, un puzzle di quelli che ci giocano i bambini tante volte e alcuni pezzi sono mangiucchiati e non combaciano più e altri sono stati persi, ma l’immagine che ho ricomposto ha ancora senso compiuto. Immagino Daniel Dennett dirmi che ho trovato il mio “centro di gravità narrativa”.
Un articolo di Giancarlo Dimaggio pubblicato su La lettura del 14 maggio de Il Corriere della Sera, all’interno di una sezione speciale sui pronomi personali
Io è un mouse dal filo sconnesso, Io è Dio, Io è il trasformista che ti seduce, Io è appena esploso. Lo hanno smembrato Picasso e Pirandello e Io si è ricomposto in forma di dittatore vanaglorioso.
Quanta illusione c’è dietro quel pronome che ci rassicura sulla nostra identità, una roba da vertigini. Dire: “Io” è come fare una promessa di costanza. Domani mi ritroverai dov’ero oggi e se non mi presento l’accusa sarà di tradimento. Un’ipoteca ben garantita, un invito alla fiducia.
Menzogne. Io è solo la parola che definisce il centro di controllo dell’azione, ma i manovratori sono soggetti a turni. Ora voglio guardare mio figlio giocare a tennis. Chi guida la macchina verso il circolo? Io, il mio amore per il gioco, o l’ambizione che ho respirato in famiglia? Ora preparo la cena per la mia compagna. Chi profuma il tonno fresco di finocchietto selvatico? Il mio amore per i sapori intensi, complessi, evocativi? O la memoria dei giorni in cui temevo di perdere mia madre e mi attaccavo all’odore del ragù tirato per ore? Chi mi spinge a rubare tempo al gioco e spendere ore a studiare per scrivere il prossimo lavoro scientifico? Il mio gusto per la scoperta? O ancora il bisogno di soddisfare quelle ambizioni, trascinato da un motore che non si spegne mai?
A giochi conclusi, la sera a luci spente, mi rincuora pensare che Io è tutte quelle parti, un puzzle di quelli che ci giocano i bambini tante volte e alcuni pezzi sono mangiucchiati e non combaciano più e altri sono stati persi, ma l’immagine che ho ricomposto ha ancora senso compiuto. Immagino Daniel Dennett dirmi che ho trovato il mio “centro di gravità narrativa”.
Nei laboratori di psicoterapia vediamo le malattie dell’Io che segnano i nostri tempi. L’identità che chiamiamo “diffusa”: scomposta, sfibrata. La chiamiamo personalità borderline, ed è un vero caos. Un principio organizzatore è assente e l’azione è guidata da emozioni che scalciano come muli: rabbia, angoscia, tristezza infinita, più rabbia e poi click, si spegne tutto, un vuoto insopportabile, lo sguardo fisso al soffitto bianco. “Un grande amore via l’altro, quello di oggi è più bello, però non ha risposto al telefono e quindi mi sta tradendo, nessun dubbio e allora chi è lui e chi sono… io?”. L’Io borderline è il mouse staccato dalla presa USB.
L’altro simbolo: l’Io grandioso, la maschera del narcisismo. L’uomo che sbatte se stesso in prima pagina, anela alla grande bellezza, lo specchio che rimanda gloria e superiorità sfacciata. Attenzione, l’Io gonfiato è una misera copertura, protettiva quanto una sciarpetta di seta nel vento di novembre di Oslo. Il Dio, dittatore vanaglorioso, non protegge il suo popolo, si inebria solo di una gloria che imbelletta la corrosione del regno.
La soluzione che guida il mio lavoro: la disciplina dell’azione desiderata. Ascoltare il coro che parla dentro di noi e poi dimenticarlo e poi distinguere quella voce che suona più nostra e allora: agire, con perseveranza. Quando spezio il cibo e sento gli odori che si sprigionano dal soffritto sento dire Io con una buona ragione.