La corrente psicoanalitica di Tradizione Interpersonale deriva dal filone di studi pioneristici inaugurati da H.S. Sullivan: egli spostò l’enfasi dall’osservazione del paziente (transfert), all’osservazione del paziente e dell’analista in interazione (matrice transfert-controtransfert)
La corrente psicoanalitica che oggi viene rubricata sotto la definizione di Tradizione Interpersonale deriva dal filone di studi pioneristici inaugurati da H.S. Sullivan nell’America del Nord nei primi anni del novecento che trovano radicamento in Europa nel secondo dopoguerra.
Dallo schermo bianco unipersonale all’osservazione partecipe bipersonale: il ruolo del transfert
L’intuizione di Sullivan, divenuta per esperienza diretta poi consapevolezza, sulle inclinazioni partecipatorie dell’analista e dei loro usi potenziali nel processo terapeutico rappresentò una svolta paradigmatica nella psicoanalisi e determinò il passaggio dal modello dello “schermo bianco” della psicologia unipersonale al modello di analisi della “osservazione partecipe” bipersonale (Hirsch, 1995).
Come ci ricorda Hirsch (1995):
Lo scienziato come ricercatore personale inevitabilmente interagisce con i dati in studio, e quindi la conoscenza diventa contestuale. Le idee e le percezioni del ricercatore/osservatore analitico sono inestricabilmente legate alla persona osservata. L’applicazione di Sullivan di questo punto di vista ai dati della psicoanalisi, spostò l’enfasi dall’osservazione del paziente (transfert), all’osservazione del paziente e dell’analista in interazione (matrice transfert-controtransfert) (p.642).
Secondo questa prospettiva teorica il transfert viene considerato come il: “trasferimento inconscio di un’esperienza da un contesto interpersonale ad un altro” (Fiscalini, 1995). In altre parole, le relazioni interpersonali del passato vengono rivissute in situazioni attuali.
Questa esclusività ha trovato varie obiezioni e nella grande maggioranza i teorici interpersonalisti avvertono di non porre un esclusivo focus sulle “caratteristiche ripetitive” del rapporto analitico, poiché questo potrebbe portare a trascurare il significato terapeutico del reale rapporto con l’analista.
La Thompson (1950), Cohen (1952) e Wolstein (1959), tra gli altri, hanno puntualmente e concordemente osservato che gli esseri umani, in virtù di operazioni caratteriologiche e di atteggiamenti difensivi, fanno pressioni su altri esseri umani in svariati modi non verbali per comportarsi o per reagire come gli adulti significativi nelle fasi iniziali delle loro vite. Di conseguenza: ”il vecchio modo di reagire sembra essere automaticamente ripetuto” (Thompson, 1950, p.57), quando in realtà è attivamente ricreato. Di conseguenza, nella situazione analitica, gli atteggiamenti del paziente rappresentano sempre: “un insieme di valutazioni transferali e realistiche” (Thompson, 1950, p. 100). Nella stanza di analisi, come nella vita di tutti i giorni, l’esperienza dell’individuo è sempre un complesso sistema di correlazioni transferali e non transferali.
Secondo Fiscalini (1995) è questa la principale revisione del concetto di transfert pertinente all’indirizzo interpersonalista: viene messo in discussione il tradizionale assunto che lo caratterizza come distorsione.
Seguendo l’analisi proposta da Fiscalini (1995), gli analisti interpersonali sono stati aperti storicamente ai concetti relativistici o prospettivistici di verità, significato e ai concetti democratici di autorità analitica. Sullivan (1954), primo fra tutti, parlava di “convalidazione consensuale” cioè di verità come accordo sociale o consenso, e dunque posizionò un concetto relativistico culturale ed interpersonale di verità al centro della teoria e della pratica psicoanalitica.
Critici nei confronti dei concetti autoritari dell’analista “oggettivo”, Gill (1983), Hoffman (1983) e Levenson (1988) come molti altri interpersonalisti contemporanei, rifiutano la nozione di analista come arbitro della realtà analitica.
Come affermano Gill (1983) e Hoffman (1983), nei riguardi delle esperienze transferali, è più appropriato parlare di rigidità di percezione intesa come errata contestualizzazione dei dati analitici piuttosto che di distorsioni proiettive. Hoffman (1983) argomenta che in linea di principio il transfert opera in maniera molto simile a un “contatore geiger”, con l’esperienza passata che sensibilizza un individuo a concentrarsi o a vedere selettivamente significati che potrebbero essere elusivi o dimostrarsi di poco interesse dinamico.
Più radicale, Levenson (1988), asserisce che l’esperienza transferale che i pazienti hanno dell’analista rappresenta la percezione reale o veritiera, piuttosto che semplicemente plausibile, che questi hanno della situazione analitica. Levenson spiega che l’analista è invariabilmente “trasformato” dalla nevrosi del paziente e dunque invariabilmente replica (re-enact) la situazione originale di transfert all’interno della situazione analitica.
Sotto questo aspetto il transfert non è attribuibile a distorsioni proiettive o a costruzioni verosimili e rappresenta sempre un’interazione reale.