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6° Corso internazionale Nuove frontiere nella cura del trauma, Venezia, 2017 – Intervista a Dolores Mosquera

Si è tenuta a Venezia la VI edizione del corso “Nuove Frontiere nella cura del trauma”, tra i formatori, la partecipazione di Dolores Mosquera.

Di Gloria Mazzocato

Pubblicato il 05 Giu. 2017

Aggiornato il 22 Ott. 2021 12:37

L’istituto Canossiano di Venezia ha ospitato dal 19 al 21 Maggio 2017 la VI edizione del corso “Nuove Frontiere nella cura del trauma” organizzato da associazione AreaTrauma e ha visto la partecipazione di Dolores Mosquera, Natalia Seijo e Giovanni Tagliavini.

 

Come intervenire sulle memorie traumatiche

Questo corso di alta formazione si colloca senza soluzione di continuità con quanto emerso nei cinque corsi precedenti e per la prima volta quest’anno viene trattata la fase II del trattamento: l’elaborazione delle memorie traumatiche nel PTSD complesso e nei disturbi dissociativi.

Giovanni Tagliavini presenta il seminario e le docenti provenienti dal centro specialistico INTRA TP, operante in Spagna.

Si percepisce la presenza di una rete internazionale in costante scambio e aggiornamento, ma nello stesso tempo si respira un’atmosfera familiare. Sin dai primi interventi il gruppo si presenta composto da persone con orientamenti, aree di lavoro e background diversi, pronte a sviluppare ed integrare le loro conoscenze nell’ambito del trauma complesso.

Dolores Mosquera, molto apprezzata nelle edizioni precedenti per la sua capacità di condividere attraverso la sua esperienza clinica concetti complessi e sempre in evoluzione, presenterà quest’anno la parte principale del corso. Esordisce collocando l’elaborazione dei ricordi traumatici al centro del suo approccio progressivo trifasico, già descritto in precedenti contributi sul tema, ma ribadendo come questo modello possa risultare artificioso se accettato rigidamente. Sostiene infatti come nella pratica questi processi debbano essere sempre contemporaneamente in divenire e simultanei. Già dall’inizio (fase I di riduzione dei sintomi e di stabilizzazione) alcune domande del terapeuta, infatti, insegnano al paziente a guardarsi dentro affrontando e regolando la tipica reazione fobica (fase III di integrazione e riabilitazione della personalità). Nella fase finale del trattamento sarà da potenziare ulteriormente l’integrazione, nonostante molti tendano in questo momento a lasciare la terapia perché stanno meglio e riescono a regolarsi.

Basandosi sull’idea oramai condivisa di Dissociazione Strutturale, ci propone il modello dell’elaborazione adattiva (AIP) come cornice teorica per comprendere quali elementi siano adattivi e quali no: Il comportamento dissociativo, risorsa che permette di sopravvivere mantenendo distante il dolore, diventa un problema perché il conflitto interno tra le parti dissociate nel tempo cresce sempre più di complessità.

Vengono proposte alcune specifiche tecniche da lei ideate che, seguendo questa base teorica, possono venire integrate in diversi approcci e strumenti utilizzati nell’elaborazione delle informazioni immagazzinate in maniera disfunzionale. Esse possono essere sia generate dall’esterno, che dall’interno: è proprio questo conflitto che si crea tra le diverse parti dell’individuo, con tutte le emozioni che ne conseguono e che non comunicano tra loro in maniera adeguata rispetto ai propri bisogni e scopi, che manda l’intero sistema in “cortocircuito”, creando confusione e blocco.

Quando il paziente riesce ad autoregolarsi ed a tollerare le proprie sensazioni fisiche, per lo meno in seduta grazie all’attenzione condivisa sul qui e ora con il terapeuta, sarà quest’ultimo a dover superare le proprie di paure “è troppo presto, è ancora fragile, lo sovraccarico e potrei farlo stare ancora peggio..” agendo sulle esperienze disturbanti e tenendo sempre in considerazione come si è organizzato il sistema di conseguenza. Dietro ad ogni suo intervento c’è la costante convinzione che non si debba interpretare, bensì comprendere insieme alla persona cosa le stia accadendo, quale funzione possa avere qualunque sua reazione apparentemente insensata e nociva e soprattutto se sia positivo per lei continuare in quella sessione o sia preferibile fermarsi. Sarà proprio la possibilità di poter condividere con qualcuno che rimane calmo di fronte a qualunque evento, che si impegna ad affrontarlo insieme rispettando il fatto che non ne voglia parlare in quel momento, l’esperienza correttiva principale. Per fare ciò il terapeuta deve sempre comunicare con l’intero sistema, deve costruire un’alleanza con tutte le parti, con quelle più problematiche, deve essere sufficientemente buona così che “ascoltino” e permettano di lavorare su tematiche più dolorose. Deve anche insegnare al paziente a dialogare con tutte le parti, in modo da potenziare l’integrazione dell’intero sistema.

Nell’ affrontare le memorie traumatiche, il compito del terapeuta sarà quindi quello di comunicare con l’intero sistema e di incoraggiare il paziente a fare lo stesso. Insegnandogli ad ascoltarsi interamente e a verificare che ogni sua parte sia d’accordo con quello che sta accadendo in seduta.

Il trauma e i disturbi alimentari

Natalia Seijo arricchisce ulteriormente il quadro ponendo l’attenzione sulla caoticità dell’esperienza interna spesso presente in persone affette da disturbi alimentari. Il legame tra queste problematiche, traumi, attaccamento e dissociazione è reso chiaro attraverso coinvolgenti esempi di sedute, dove si comprende come diverse esperienze traumatiche infantili avvengano spesso in ambienti che tendono a non proteggere e trascurare i bambini. E’ proprio questa mancanza di figure di riferimento in grado di dare sicurezza che spinge il bambino a cercare una qualche forma di “base emotiva” alternativa. Ecco che il cibo si trasforma in un elemento dissociativo, nel senso che diventa una scappatoia da una realtà dolorosa.

Le persone che soffrono di disturbi alimentari risultano così difficili da trattare perché sin da piccole hanno imparato ad innalzare molte difese (ad esempio autocriticandosi in maniera patologica così da imparare a non farsi scalfire dalle critiche esterne) che proteggono le proprie parti emotive più dolorose e temute (ad esempio “il/la bambino/a che non hai mai potuto essere a causa delle eccessive responsabilità richieste dall’ambiente circostante). Proprio per questo è importantissimo con questi pazienti validare la loro esperienza quando le difese si abbassano un po’ lasciandoci avvicinare a queste parti così fragili e nascoste, è importante infatti che quando ciò avviene loro si sentano finalmente capiti. Si propone in seduta l’occasione per integrare questa nuova esperienza emotiva condivisa: la regolazione emotiva che avviene tramite la relazione terapeutica permette al paziente di percepire, accettare e verbalizzare le proprie sensazioni somatiche e integrarle in una visione di sé più funzionale.

Le tre giornate, seppur impegnative e ricche di nozioni, esercitazioni e riflessioni, scorrono piacevolmente. Aumentano le conoscenze e la rete di persone che si interessa e si applica in quest’ambito così intuitivo da una parte, ma anche complesso e sorprendente dall’altra.
I lavori in piccoli gruppi, da citare un confronto molto interessante coordinato da Giovanni Tagliavini sulle sovrapposizioni e distinzioni tra disturbi dissociativi e psicotici, permettono un atteggiamento propositivo e curioso nei partecipanti, base per potenziali ulteriori sviluppi nel lavoro clinico e nelle prossime edizioni di questo incontro primaverile a Venezia.

L’intervista a Dolores Mosquera

Di seguito l’intervista a Dolores Mosquera, esperta di trauma complesso, disturbi dissociativi, disturbi borderline e antisociali di personalità, che racconta la sua esperienza clinica. Dagli inizi ad un approccio sempre più integrato, la formazione del centro clinico INTRA – TP a la Coruña (Spagna) e il confronto continuo con la ricerca e la clinica internazionale.

  • Quali pensi siano le caratteristiche necessarie di uno psicoterapeuta che lavora con pazienti così complessi?

DM: L’interesse innanzitutto. E’ necessario essere sempre curiosi e avere voglia continua voglia di imparare. Penso poi che la capacità di lavoro di squadra sia cruciale, se un clinico non ne è in grado tutto diventa molto complicato. Bisogna poi saper tollerare la frustrazione, riuscire ad accettare di poter commettere errori ed essere pronti ad imparare da essi. Per me è importantissimo essere in grado di non rimanere attaccato alla tua idea se questa non è più adeguata.
Il terapeuta deve cercare di mantenere l’attenzione duale verso la propria capacità di autoregolazione e contemporaneamente verso ciò che sta accadendo nel paziente. Bisogna seguire i suoi bisogni e non i propri, per fare ciò non bisogna ritrovarsi “contagiati emotivamente”, lo stesso si fa separando bene la nostra storia personale da ciò che sta accadendo in loro. Quindi possono esserci problematiche personali che si possono mettere in mezzo, a quel punto penso sia anche importante permettersi di affrontarle.

  • Qual è la tua idea di un centro clinico integrato? Pensando alle tue idee iniziali e da quello che hai imparato, che consigli daresti dalla tua esperienza?

DM: Quando ho iniziato a lavorare non avevo molto supporto dai miei colleghi che lavoravano nell’area dei disturbi di personalità, ma penso che negli ultimi anni ci sia stata una grande evoluzione in questo ambito. All’inizio cercavo semplicemente qualcuno interessato a lavorare con quei pazienti che nessuno voleva trattare. Abbiamo iniziato in tre, ma gli altri hanno presto iniziato a pensare che fossi matta! Dicevano che era troppo complesso e non se la sentivano di lavorare con i miei casi. A me piacevano tanto, a loro no. Quindi ho iniziato a cercare qualcuno con i miei stessi interessi. Volevo persone curiose, disposte a lavorare insieme senza il bisogno di competere e capaci di supportarsi a vicenda.
Poi nel tempo mi sono resa conto che lavorando da sola mi ritrovavo spesso a gestire pazienti che, seppur non giovanissimi, vivevano ancora in famiglia e dalla quale dipendevano. Non so se sia lo stesso in Italia. Comunque per me era difficile gestire tutto; accadeva spesso che passassi la maggior parte della seduta a parlare con i familiari, spesso disperati nei casi di gravi disturbi di personalità, e mi rendevo conto che era una parte del lavoro molto importante. Ho cercato quindi un terapeuta familiare, così da potermi focalizzare sui bisogni dei pazienti, ma allo stesso tempo dando alla famiglia una possibilità di essere supportata. A volte i familiari interferiscono nel nostro lavoro più che aiutare, ma loro stanno cercando di essere utili. Quando capiscono come fare sono sorprendenti, la famiglia è una risorsa enorme. Poi prima di terminare la seduta noi terapeuti facevamo una piccola pausa e ci confrontavamo, cercando i punti positivi comuni da rinforzare e quelli dove chiedere da entrambe le parti un piccolo cambiamento. Questa idea si è sviluppata negli anni, ora è così che lavoriamo quando abbiamo la fortuna di poter coinvolgere anche i genitori.
Per me ora un team che funziona è composto da persone che si sostengano tra loro. Noi lavoriamo in questa maniera: se qualcuno ha bisogno può chiedere aiuto, ma quello che a noi capita frequentemente è che prima ancora che qualcuno chieda l’altro già l’abbia colto e chieda “che succede? Ti serve qualcosa?” e questo è ciò che ci protegge dal burnout. E il senso dell’umorismo ovviamente, a volte anche un po’ “nero”.

  • Quando utilizzi la parola integrazione, cosa intendi esattamente?

DM: Cosa intendo con la parola integrazione? Credo che dovrei pensarci! Ma la prima cosa che mi viene in mente è un funzionamento sufficiente in ogni senso. Quando il sistema è in grado di adattarsi a ciò che succede con sufficiente stabilità senza crollare. Si, è un processo ininterrotto: un percorso, non un risultato. Quando io e Kathy Steele utilizziamo questo termine in senso generale, intendiamo un’integrazione “sufficientemente buona” per funzionare al meglio nel presente, incorporando il nostro passato, presente e potenziale futuro in ciò che siamo e in ciò che facciamo.

  • E dal punto di vista dell’approccio clinico? Cosa significa per te lavorare in modo integrato?

DM: Sai, io mi sono formata in diversi approcci. Ho iniziato come psicoterapeuta cognitivo comportamentale, prendendo alcuni spunti dalla Dialectical Behaviour therapy (D.B.T.), dalla terapia basata sulla Mentalizzazione e studiando diversi autori psicodinamici sui gravi disturbi di personalità come Kernberg, Gunderson e altri. Poi mi sono formata in EMDR e in Terapia Senzomotoria, ma devo dire che per me il modello AIP dell’EMDR è molto utile per integrare tutto quello che imparo. A mio parere questa prospettiva può spiegare la complessità in maniera molto semplice. Poi il training sull’attaccamento, le teorie di Giovanni Liotti e la formazione sulla dissociazione sono stati cruciali, senza di questi non sarei riuscita a mettere tutto insieme. Per avere un approccio integrato per me è basilare confrontarsi continuamente con altri colleghi, poter avere come ho detto una squadra con cui condividere idee e poter comunicare ed aggiornarsi costantemente creando anche una rete internazionale.

  • Quale pensi sia qualche interessante direzione futura della ricerca?

DM: Credo veramente che sia necessaria più ricerca nell’ambito dei disturbi dissociativi e del trauma complesso. Per molti miei colleghi il trauma complesso è qualcosa che ancora non viene riconosciuto, rischia di essere confuso per altro e di conseguenza il trattamento non va al punto. Credo che sia una chiave di lettura in grado di aprire la visuale del terapeuta, perciò più evidenza scientifica porterebbe sicuramente ad un maggiore interesse e approfondimento da parte di più persone.

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