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Essere John Malkovich (1999) e la ricerca dell’identità – Recensione del film

Essere John Malkovich è un film che ha come protagonisti 4 personaggi insoddisfatti ed è una metafora dell'annullamento del vero sè nel contatto con l'altro

Di Nicole Tornato

Pubblicato il 11 Apr. 2017

Essere John Malkovich (1999) raggruppa quattro personaggi infelici e insoddisfatti: un burattinaio appassionato e disoccupato, la moglie trasandata e ingenua, la collega bella e sfuggente, il datore di lavoro centenario e bizzarro; quattro persone diverse che grazie alla celebrità realizzano un sogno recondito proibito.

 

Essere John Malkovich: la trama e la rappresentazione psicologica dei personaggi

Craig è costretto ad accettare un impiego redditizio ma terribilmente noioso, si isola con i suoi “giocattoli” che strumentalizza per rappresentare la solitudine e i sogni, in un’esistenza condotta per inerzia, misera e scialba come il rapporto di coppia che riflette l’unico probabile punto in comune tra i protagonisti: la mancanza di vitalità e di consapevolezza di sé. Allo stesso modo Lotte si fidanza e sposa un uomo senza comprendere quanto si allontani dai suoi desideri: dalla scarsa cura di sé e il look maschile trasuda un modo di essere che di femminile non ha nulla, totalmente inconsapevole dei suoi interessi sessuali, appare spaesata quando si trova di fronte ad una donna di bell’aspetto.

Dal principio non sembra nutrire alcuna invidia nei confronti di Maxine, ma un desiderio di unirsi a lei che si concretizza solo nell’ingresso nel corpo di John Malkovich. È curioso notare il momento di presa di coscienza sulla vera identità di genere e sessuale, ovvero nel primo viaggio nella mente dell’attore, un’esperienza perfetta in cui tutto ha un senso e non manca nulla. Da questo dettaglio tutt’altro che insignificante si deduce una conoscenza di sé silente che si risveglia prepotentemente attraverso l’incontro con Maxine e l’ingresso in John. In altre parole, è significativo scoprire di essere omosessuale e di indossare un corpo egodistonico in un’età ormai lontana dall’adolescenza, un dato che suggerirebbe, pertanto, una scarsa inclinazione alla riflessione su di sé.

Si arriva così alla sprezzante, snob e cinica Maxine, l’approfittatrice che riscopre una sensibilità nella relazione con un Malkovich che ha poco di sé e molto degli altri. Non appena apprende la notorietà dell’attore cerca di accoppiarsi con lui per tornaconti economici e presumibilmente narcisistici, e quando riesce a conquistarlo definitivamente, accedendo così allo status di celebrità internazionale, qualcosa si rompe. Non a caso accadono due avvenimenti essenziali: la metamorfosi di John in Craig e l’attesa di un bambino che organicamente appartiene all’attore ma è “mentalmente” legato a Lotte. La notorietà perseguita anche a costo di ferire l’unica persona che sembra averla amata in quanto tale, perde di significato quando il marito assomiglia più al burattinaio fallito che al grande attore e la gravidanza innesca il senso di colpa: in termini kleiniani, Maxine slitta nella posizione depressiva nella quale comprende una responsabilità personale e si protende verso la persona amata per riparare al danno effettuato. Più che l’orientamento sessuale, appare centrale il tema della popolarità come mezzo di espressione del sé: stare con personaggio celebre a livello internazionale è quindi la sola scappatoia da una vita mediocre nella quale non può essere notata e quindi amata, però qualcosa manca, ed è il riconoscimento, la sintonizzazione affettiva che si concretizza nel legame con Lotte.

 

Essere John Malkovich: riflessioni psicologiche sul film

L’interesse di Craig si sofferma presumibilmente su due elementi: essere un burattinaio di successo e stare con una donna di successo. La carriera ardua e sfuggente, una relazione con la collega ambita e distante suggeriscono il tema dell’irraggiungibilità e della disposizione allo sforzo per creare un contesto perfetto ma poco congruente con la realtà, un’ossessione che macchia la serenità e impedisce di venire a patti con i propri limiti. Non accetta il fallimento professionale, né tanto meno il palese rifiuto di Maxine riluttante ad approfondire la sua conoscenza fin dall’inizio, eppure tenta qualsiasi carta pur di rincorrere i sogni che, una volta realizzati si sbiadiscono e perdono la lucentezza di un tempo.

Essere “un altro” gli ha permesso di ottenere la carriera, non l’amore, e per essere ricambiato Craig è disposto a trasferirsi per sempre in un’altra mente che curiosamente appartiene a qualcuno di molto prezioso per la bella collega: la figlia. Mentre all’inizio l’assunzione di un’identità ideale si pone al centro, adesso è via via più marginale. Essere John Malkovich è l’unico in grado di ottenere l’attenzione delle donne difficili, permettersi di rivestire i panni di chi desidera, anche quelli di un burattinaio: il successo è assicurato poiché la stella del cinema è ammirata e acclamata dal mondo intero e riceverà comunque apprezzamenti.

Il potere, quindi, sta nel pilotare un simbolo, impersonare un’identità dal prestigio conquistato e stabile che ammalia il mondo intero, monitora l’affetto e l’attenzione delle persone ambite e soddisfa, di conseguenza, i desideri inesaudibili. La stessa Maxine suscita nei coniugi una forte attrazione: bella, curata, a tratti perfida e autoritaria, trasmette sicurezza e diventa, in tal senso, il simbolo del potere che non si piega di fronte a nessuno, ad eccezione di Malkovich con il quale perde in confronto. Attraverso la mente dell’attore, Lotte e Craig possono accedere all’oggetto del desiderio, controllarne il piacere e quindi in un certo senso soggiogarla: peccato, però, che questo costituisca una pericolosa illusione, un trampolino di lancio per un abisso incolmabile, in cui il vero sé viene condannato ad un’esistenza inautentica e fittizia per ricevere in cambio la completa accettazione. E se non è possibile essere John Malkovich si trova una soluzione alternativa: entrare nel corpo della piccola figlia, amata e accudita per sempre. Il soggetto cambia, ma il risultato resta immutato e il legame è sorretto precariamente, appunto perché si esce letteralmente e figuratamente da se stessi.

 

Essere John Malkovich: la costruzione dell’identità e del vero sè

Il film è sostanzialmente una metafora dell’aberrante, spasmodica ricerca del contatto con l’altro, dell’accettazione e ammirazione assoluta nelle vesti estranee, sacrificando la vera natura interna, il vero sé di cui parla Winnicott (1965), il daimon di Hillman (1996), la forza creatrice, la personalità autentica e costruttiva. In un certo senso Craig non riesce ad essere diverso, non compiace pienamente neppure con uno sforzo sovrumano: è lui a monitorare il corpo di John fino a riappropriarsi della sua identità, che piaccia o no, alla fine decide di essere quello che voleva essere fin dal principio.

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Dopo una gran fatica il protagonista è destinato a ritornare a se stesso, una scelta che si palesa nella realizzazione della carriera da burattinaio, nella trasformazione estetica che si riappropria dei tratti distintivi: i capelli, i vestiti, l’abbandono della recitazione e il debutto con le marionette profumano del protagonista che sembra aggrapparsi ai suoi interessi con impegno e devozione. Tuttavia tra la carriera e Maxine, Craig sceglie la seconda, ristabilendo le priorità: ricevere il suo amore, la sua attenzione è più importante di un futuro professionale promettente.

E per finire c’è il Dr. Lester la cui scelta desta una riflessione su un altro tema connesso al falso sé. Da tempi remoti progetta il proseguimento infinito della vita, scovando passaggi su passaggi, per restare vivo, permettersi di ricominciare dall’inizio, pagando il prezzo di Craig, restando intrappolato in un essere diverso da sé: diversamente dagli altri che mirano all’attore per una scelta intrapsichica ed interpersonale, in questo personaggio è cruciale la paura di morire fronteggiata attivamente attraverso la crescita di John e successivamente della figlia nata dall’unione con Maxine. Il fine ultimo non è essere una celebrità o un altro per compiacere o ottenere una gratificazione, ma continuare a vivere per sempre sconfiggendo la morte, con il risultato di sperimentare multiple identità, di essere tutto e nulla. Il vero sé è soppresso per un bene supremo: la sopravvivenza, non importa come e nei panni di chi, basta che la vita continui in eterno. La fragilità umana, l’inarrestabile forza del tempo, l’accettazione della morte come fine dell’esistenza sono evitate energicamente con un progetto interminabile in cui la personalità si disperde e confonde con le altre.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Blandino, G. (2009). Psicologia come funzione della mente. Utet, Torino
  • Guidano, V. (1988). La complessità del sé. Bollati Boringhieri, Torino.
  • Hillman, J. (1996). Il codice dell’anima. La Feltrinelli, Milano.
  • Winnicott, D. (1965). Sviluppo affettivo e ambiente. Armando Editore, Roma.
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