Uno dei fattori che viene frequentemente riportato in letteratura, come fattore di rischio per l’insorgenza delle psicosi è la migrazione (e.g. Bhugra et al. 2004; Cantor-Grae et al. 2005; McGrath et al. 2004). Nella comunità sud-asiatica presente in Gran Bretagna, per esempio, è stato riscontrato un maggior tasso di incidenza di psicosi rispetto alla popolazione nativa (Bourque et al., 2011), risultati simili sono stati rilevati nella minoranza etnica caraibico-africana (Morgan, 2006; Cantor-Grae, 2005).
Ornella Lastrina, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena
Interazione geni-ambiente nell’esordio della psicosi
Negli ultimi anni, diversi studi hanno messo in evidenza come, non solo i fattori genetici, ma anche i fattori socio-ambientali, abbiano un ruolo fondamentale nel determinare l’insorgenza delle psicosi (e.g. Bredy, 2007; Akdeniz & Meyer-Lindenberg, 2014). Una spiegazione di tipo solo biologico-genetico sembra, infatti, essere riduttiva per comprendere l’insorgenza del disturbo psicotico (Van Os et al., 2008). Sempre maggior importanza acquisiscono gli studi di tipo epigenetico che hanno l’obiettivo di far luce sulle interazioni geni-ambiente coinvolte nell’eziopatogenesi delle psicosi.
Per epigenetica si intende, secondo la prima definizione di Waddington (1942): “le interazioni dei geni con il loro ambiente che danno vita al fenotipo.” E’ proprio attraverso i meccanismi di tipo epigenetico che si esplica, dunque, il ruolo dei fattori di tipo socio-ambientale coinvolti nella comparsa dei disturbi psicotici (Rutten et al., 2009; Pishva, 2014). Un cambio di direzione si è verificato, inoltre, nel considerare i disturbi dello spettro psicotico attraverso un approccio dimensionale piuttosto che categoriale. Alla luce delle ultime evidenze scientifiche, Jim Van Os ha introdotto, infatti, il concetto di “sindrome psicotica multidimensionale complessa” sostenendo l’esistenza di un continuum sintomatologico tra soggetti della popolazione generale e casi clinici di psicosi. In quest’ottica, diventa fondamentale considerare i fattori di rischio che in interazione con la predisposizione genetica possono trasformare le esperienze psicotiche sottosoglia, in psicosi conclamata (Van Os, 2008). Un’attenzione specifica ai fattori di rischio e alle prime manifestazioni psicotiche consentono, infatti, oltre che di comprendere meglio l’eziopatogenesi delle psicosi, anche di poter intervenire precocemente e di favorire una migliore prognosi.
Come messo in luce da McGrath (2006), per molti anni si è consolidata nella comunità scientifica la credenza che l’incidenza della schizofrenia avesse una scarsa variabilità e che il disturbo potesse interessare tutti, a prescindere da sesso, etnia e altre condizioni socio-ambientali. Queste credenze sono state smentite, negli ultimi anni, da un sempre più corposo numero di evidenze scientifiche che mostrano invece come la comparsa del disturbo sia correlata ad alcuni specifici fattori di rischio. Alcuni dei fattori evidenziati dalle ricerche scientifiche sono: l’appartenenza ad una minoranza etnica, l’esperienza di abuso in età infantile, l’essere di sesso maschile, essere disoccupati, fare uso di cannabis e vivere in un’area urbana (Driessen et al.1998; Verdoux et al. 1998; Agerbo et al. 2004; McGrath et al. 2004; Di Forti et al., 2009).
La migrazione come fattore di rischio della psicosi
Un altro dei fattori che viene frequentemente riportato in letteratura, come fattore di rischio per l’insorgenza delle psicosi è la migrazione (e.g. Bhugra et al. 2004; Cantor-Grae et al. 2005; McGrath et al. 2004). Nella comunità sud-asiatica presente in Gran Bretagna, per esempio, è stato riscontrato un maggior tasso di incidenza di psicosi rispetto alla popolazione nativa (Bourque et al., 2011), risultati simili sono stati rilevati nella minoranza etnica caraibico-africana (Morgan, 2006; Cantor-Grae, 2005).
Anche in Olanda una maggiore incidenza di disturbi psicotici è stata evidenziata tra persone immigrate, di origine surinamese, danese e marocchina (Selten et al., 2001). Un maggior rischio di sviluppare psicosi è stato anche rilevato nelle popolazioni migranti presenti in Danimarca, in particolare tra i migranti provenienti da Australia, Africa e Groenlandia (Cantor-Grae et al.; 2003). Lo studio di Zolkowska e colleghi (2001) riporta che i migranti in Svezia presentano un maggior rischio di sviluppare disturbi dello spettro psicotico rispetto alla popolazione nativa. Questi dati epidemiologici hanno sollecitato l’interesse e l’attenzione della comunità scientifica. I dati di maggiore incidenza di psicosi in popolazioni migranti hanno aperto, inoltre, una nuova strada di comprensione dell’eziologia della psicosi, offrendo l’opportunità di indagare fattori di rischio propriamente socio-ambientali e come questi interagiscono con la vulnerabilità genetica.
Il fenomeno migratorio si configura come un fenomeno complesso ed eterogeneo, le motivazioni che sottendono, infatti, la scelta di migrare verso un altro Paese sono molteplici e anche molto diverse tra loro: si può emigrare per motivazioni economiche, per motivazioni di tipo religioso e/o politico, perché perseguitati nel Paese di origine o perché si scappa da situazioni di conflitto. La migrazione può avvenire in condizioni spesso precarie e di pericolo, il viaggio può essere intrapreso in modo individuale o con altri familiari. I motivi che inducono alla partenza, le aspettative rispetto alla nuova condizione nel Paese di destinazione e la modalità con cui avviene il viaggio, influiscono sul modo in cui viene percepita l’intera esperienza migratoria e dunque sul livello di stress esperito, rendendo l’individuo più o meno predisposto a sviluppare disturbi psicologici (Bhugra, 2000).
Sia la fase della migrazione, che quella post-migrazione sono caratterizzate da molteplici avversità e spesso anche da esperienze di tipo traumatico (Fearon et al., 2006). La migrazione si configura, infatti, come un evento particolarmente stressante nella vita di un individuo: essa implica il distacco da amici, familiari e da tutto il contesto in cui si è vissuto per anni, per approdare, poi, in un ambiente completamente nuovo che pone il soggetto di fronte a continue sfide e sollecitazioni. La migrazione verso un nuovo paese implica la ridefinizione del proprio progetto di vita (Cimino, 2015). Di uguale importanza e complessità sono, infatti, le difficoltà che presenta la fase post- migrazione: il migrante si trova a dover affrontare diversità linguistiche, religiose, diversi usi e costumi della comunità ospitante e la necessità di ricostruire una solida rete di relazioni sociali. In questa fase così complessa, l’accettazione da parte della comunità ospitante e il processo di integrazione sono, inoltre, fondamentali, e se vengono a mancare, contribuiscono a creare ulteriori difficoltà (Bhugra, 2000). La discrepanza tra aspettative e realizzazione, le difficoltà economiche, le condizioni abitative spesso precarie e la mancanza di opportunità lavorative sono alcuni dei fattori che rendono la fase successiva alla migrazione particolarmente stressante e difficoltosa (e.g., Bhugra, 2005).
In questa fase di ridefinizione e adattamento alcuni fattori sono protettivi e funzionali a facilitare il benessere dell’individuo nel paese ospitante. Tra questi, il supporto sociale è stato evidenziato come una buona risorsa di coping per affrontare le difficoltà della migrazione. Coloro che hanno, infatti, una buona rete di relazioni e supporto sociale presentano una migliore condizione psico-fisica e vivono più a lungo (Holt-Lunstad et al. 2008). Come riportato dalla revisione sistematica di Anderson e Morgan (2013), molti studi hanno indagato la riduzione delle relazioni sociali e del supporto sociale, di pazienti con psicosi, ma poche ricerche hanno, analizzato il supporto sociale e la quantità di relazioni sociali, nella fase precedente l’esordio psicotico.
Alcuni studi hanno mostrato, invece, un impoverimento delle relazioni sociali precedentemente al primo contatto con i servizi clinici, nello stesso periodo corrispondente al periodo di psicosi non trattata (Thorup et al. 2006; Jeppesen at al. 2008). Il supporto sociale è stato inoltre indagato in soggetti appartenenti a diverse etnie e a gruppi di minoranza etnica. Das Munshi e colleghi (2012) hanno registrato che, su un campione di 4281 soggetti, considerando i soggetti appartenenti a minoranze etniche, coloro che percepivano un maggior supporto sociale avevano anche minore probabilità di riportare esperienze psicotiche. Il modo di percepire il supporto sociale sembra, inoltre, essere influenzato dai valori culturali propri dell’ etnia di appartenenza. In uno studio di Lee e colleghi (2012), si è registrato che in un campione di soggetti immigrati a New York, di origine cinese, coloro che avevano mantenuto i valori propri della cultura cinese, riportavano di percepire un maggior supporto sociale e mostravano, inoltre, migliori capacità di coping dello stress.
In linea con queste evidenze, l’ipotesi della densità etnica sostiene che nelle aree in cui la densità di persone appartenenti ad una stessa etnia è più alta, vi è una minore probabilità di sviluppare disturbi psicologici (Boydell et al. 2001, Kirkbride et al. 2008 e Veiling et al., 2009). La possibilità, infatti, di vivere a contatto con persone che condividono uno stesso background culturale e dunque la stessa lingua, stessi usi e costumi, consente di poter avere una buona rete di supporto e di aiuto e permette dunque di ridurre le difficoltà che il migrante deve affrontare nella fase di adattamento.
Spesso, questa rete sociale è fondamentale per ottenere informazioni sugli iter burocratici da effettuare per ottenere i documenti, come trovare un alloggio, come iscrivere a scuola i bambini, oltre che fornire un supporto e sostegno morale che facilita notevolmente un buon inserimento della persona nella comunità. A conferma di quanto teorizzato dall’ipotesi di densità etnica, anche i dati relativi ai tassi di suicidio hanno una correlazione con la densità etnica dell’area in cui si vive. Un esempio è dato dalla comunità marocchina presente in Belgio che registra un’alta densità etnica nell’area metropolitana e una buona coesione sociale, riportando un tasso di suicidi più basso, rispetto ad aree con densità etnica inferiore (Fossion, 2004).
Le evidenze scientifiche sopra elencate rendono ben chiaro come la migrazione sia un’esperienza complessa che comporta un notevole carico di difficoltà per chi la vive; le teorie che hanno tentato di far luce su come essa possa essere un fattore di rischio per l’insorgenza di psicosi sono molteplici e a volte contrastanti.
Una delle teorie proposte è quella di Selten e Cantor-Grae (2005): i ricercatori hanno ipotizzato che l’esperienza di svantaggio sociale sia uno dei fattori esplicativi degli alti tassi di psicosi presso le popolazioni migranti. Lo svantaggio sociale viene inteso come una posizione di subordinazione e di emarginazione rispetto al contesto sociale in cui l’individuo è inserito. E’ fondamentale considerare, però, il modo in cui l’individuo percepisce la sua condizione di emarginazione e isolamento (Selten et al., 2013) perché è infatti, il modo in cui egli considera e percepisce questa condizione, uno dei fattori che andrà poi a influire sul suo benessere e potrà elicitare la comparsa di psicosi.
L’ipotesi dello svantaggio sociale si contrappone all’ipotesi della migrazione selettiva dello psichiatra norvegese Odegard, (1932), questa è una delle prime teorie che ha tentato di dare una spiegazione dei più alti tassi di psicosi presso le popolazioni migranti, in particolare negli Stati Uniti. La teoria della migrazione selettiva, nell’ottica di un modello di “selezione negativa” postulava che: coloro che intraprendevano un percorso migratorio erano accomunati da alcune caratteristiche quali, scarsa integrazione sociale nel paese di origine, debolezza psico-fisica e problematiche familiari, queste caratteristiche favorivano disturbi latenti che si sarebbero poi rivelati nel paese d’accoglienza.
Tale teoria è stata però ampiamente smentita (e.g. Rosenthal et al. 1974; Selten et al. 2002; Lundberg et al. 2007; van der Ven, 2014), e contrapposta ad un modello di “selezione positiva” che indica come la migrazione sia intrapresa, invece, da soggetti particolarmente sani e in grado di affrontare con successo, il difficile percorso della migrazione. Le ricerche più recenti evidenziano, tuttavia, che i fattori motivanti la scelta migratoria, sono fattori contingenti, piuttosto che fattori individuali, quali guerre, violenze, persecuzioni, crisi sociali ed economiche. Il cosiddetto “effetto migrante sano”, ovvero una preselezione di individui particolarmente dotati di risorse, rimane valido solo per alcuni percorsi di migrazione: quando questa è cioè una scelta ponderata e autonoma che implica una valutazione dei costi che l’esperienza migratoria comporta (Geraci et al., 2005). Ulteriori studi sono stati condotti per indagare la presenza di disturbi psicotici anche nei migranti di seconda generazione. Alcune evidenze scientifiche presentano un uguale elevato tasso di incidenza di psicosi anche in questo gruppo rispetto a quello dei nativi, con alcune differenze di questo dato fra le diverse etnie prese in considerazione nel campione di studio (Selten et al., 2001). Una meta analisi condotta da Bourque et al. (2011) riporta, invece, un rischio di psicosi per i migranti di seconda generazione più alto, rispetto a quelli di prima. Tale dato suggerisce che la situazione di avversità sociali vissute spesso anche dai migranti di seconda generazione possa influire sul loro benessere.
Le teorie si sono succedute nel corso degli anni, producendo risultati utili per comprendere meglio i meccanismi sottostanti l’insorgenza delle psicosi e hanno permesso inoltre di individuare i gruppi ad alto rischio, sui quali gli stressors di tipo socio-ambientale, quali la migrazione, possono avere maggiore influenza. Una delle ricerche scientifiche, più recenti, sul tema e di notevole importanza per la quantità di dati raccolti e di centri coinvolti è il progetto EUGEI: European Network of National Schizophrenia Networks studying Gene-Environment Interactions. Questo progetto è iniziato nel 2010 e ha permesso, per un periodo di 5 anni, di raccogliere dati su fattori ambientali, socio-psicologici e genetici e di comprendere come questi intervengono nell’insorgenza delle psicosi. La ricerca è stata condotta in più di 15 centri in Europa permettendo così di effettuare anche confronti trans-culturali sui dati raccolti. Questo progetto testimonia perciò l’interesse della comunità scientifica nazionale e internazionale a far luce sull’interazione di fattori socio-ambientali con quelli genetici per meglio comprendere l’origine delle psicosi e per orientare in modo efficace la prevenzione e i trattamenti del disturbo.
Conclusioni: l’interazione di fattori genetici e ambientali dell’esordio della psicosi e il rischio derivante dalla migrazione
L’attenzione che negli ultimi anni si è posta sui fattori socio ambientali ha, infatti, avuto numerose ricadute dal punto di vista clinico poiché in tal modo si è aperta la possibilità di intervenire e di avere un margine di azione molto più ampio, rispetto ad un approccio che considera le psicosi derivanti solo da vulnerabilità genetica (Kirkbride et al., 2010).
I gruppi maggiormente a rischio sono quelli verso cui orientare le strategie di prevenzione e che permettono inoltre di indagare come le interazioni geni-ambiente si esplicano a livello clinico. Coloro che hanno una storia migratoria in anamnesi e presentano esordio psicotico diventano perciò un’occasione per comprendere i meccanismi di interazione tra fattori di vulnerabilità individuale e fattori di rischio ambientale che sono coinvolti nell’eziopatogenesi delle psicosi (Tarricone et al., 2013). La comprensione, per esempio, di come gli aspetti sociali di esclusione e isolamento siano causali nell’insorgenza delle psicosi, può avere delle ricadute pratiche molto utili per strutturare interventi di prevenzione (Kirkbride e Jones, 2011).
Trattamenti di tipo cognitivo comportamentale possono, inoltre, intervenire sulla percezione di svantaggio sociale e sul potenziamento delle abilità sociali (Burnett et al., 1999). Numerosi studi confermano l’efficacia di interventi di CBT per la prevenzione degli esordi psicotici in pazienti giovani, come confermato dalla recente revisione sistematica di Hutton e Taylor (2014). Si auspica perciò che ulteriori ricerche scientifiche permettano di indagare in modo più completo le interazioni e i meccanismi sottostanti i disturbi dello spettro psicotico, favorendo l’elaborazione di ulteriori protocolli clinici per il trattamento.