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Imagery nella cura del trauma e della dissociazione

Il trattamento trifasico tramite imagery può essere molto utile con i pazienti traumatizzati che presentano la dissociazione della personalità.

Di Luca Mazzucco

Pubblicato il 20 Mar. 2017

Aggiornato il 27 Set. 2019 14:33

L’ Imagery è uno strumento a disposizione del terapeuta, utile in diverse tipologie d’intervento, che vanno dalla psicologia sportiva al trattamento di pazienti traumatizzati che presentano la dissociazione.

Mazzucco Luca, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Imagery: che cos’è

Kosslyn, Ganis e Thompson (2001) definiscono l’ imagery come una “esperienza quasi-sensoriale e quasi-percettiva che avviene in assenza di stimolo esterno”, un’esperienza che, oltre all’emergere delle immagini mentali, permette la generazione di correlati emotivi e cognitivi, tanto da risultare “simil-esperienziale” (Conway, 2001).

Già nel 1929, Einstein osservava “L’immaginazione è più importante della conoscenza”, mentre Beck (2014) ha affermato “Nello sviluppare una teoria cognitiva della psicopatologia mi sono inizialmente basato sulla capacità dei miei pazienti di condividere le proprie percezioni interne, attività decisamente favorita dall’ imagery”.

Due aspetti risultano fondamentali nell’uso della tecnica immaginativa con i pazienti in terapia:

  • individualizzare le caratteristiche della tecnica in funzione delle peculiarità del paziente
  • porre estrema attenzione alle possibili conseguenze iatrogene di un uso errato della tecnica stessa, come ad esempio l’involontaria creazione di immagini minacciose.

 

Dissociazione strutturale della personalità

Secondo la quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), i criteri diagnostici caratteristici della presenza di un Disturbo dissociativo dell’identità (DID), riguardano la “presenza di due o più stati di personalità distinti” che portano a “una marcata discontinuità del senso di sé e della consapevolezza delle proprie azioni, accompagnata da correlate alterazioni dell’affettività, del comportamento, della coscienza, della memoria, della percezione, della cognitività e/o del funzionamento senso-motorio” e “ricorrenti vuoti nella rievocazione di eventi quotidiani, di importanti informazioni personali e/o di eventi traumatici non riconducibili a normale dimenticanza”.

Sempre il DSM-5 riporta: “Il disturbo dissociativo dell’identità è associato a esperienze opprimenti, eventi traumatici e/o abusi nell’infanzia … l’abuso interpersonale fisico e sessuale è associato a un maggior rischio di disturbo dissociativo e sottolinea che la gravità del DID aumenta in presenza di “Abusi continuativi, nuovi traumi nel corso della vita, comorbilità con disturbi mentali ed età del soggetto”.

Ancora il DSM-5 riporta: “Molti individui con disturbo dissociativo dell’identità manifestano un disturbo in comorbilità. Se non vengono valutati e trattati specificatamente per il disturbo dissociativo, questi individui spesso ricevono trattamenti prolungati solo per la diagnosi in comorbilità, con una ridotta risposta generale al trattamento e conseguenti demoralizzazione e disabilità”. In linea con tale posizione, Van der Hart, Steele e Boon (2011) affermano: “I disturbi in comorbilità al DID, tipicamente si risolvono quando si chiarisce il loro collegamento con la sottostante dissociazione della personalità”.

Prendendo spunto dal lavoro di Pierre Janet (1907) e in sintonia con le indicazioni presenti nel DSM-5, Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) propongono il concetto di “ Dissociazione Strutturale della Personalità” e ipotizzano che essa derivi da un “deficit delle capacità integrative” del soggetto, dal quale avrebbero origine “parti dissociate separate da barriere psicobiologiche, che impediscono la comunicazione tra di esse”.

Ford (2009) propone la dissociazione come un tentativo di mantenere la propria integrità che avviene abbandonando la self-regulation a favore della self-preservation.

In pratica, il soggetto che si trova ad affrontare un’esperienza talmente “minacciosa” da non poter essere integrata, va incontro alla formazione di parti dissociate della propria personalità. Si tratta di una strategia che permette il superamento momentaneo del trauma, ma che spesso si cronicizza e si trasforma in una “strategia di sopravvivenza, una possibilità di andare avanti nella vita quotidiana, evitando di venire schiacciati da esperienze, presenti o passate, insopportabili” (Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006).

Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) ipotizzano due tipi distinti di parti dissociate di personalità:

  • “apparently normal part of the personality” (ANP), funzionante nella quotidianità, in grado di comunicare con l’ambiente in cui il soggetto vive, ma che evita ogni possibile collegamento al trauma;
  • “emotional part of the personality” (EP), bloccata al tempo del trauma, ancora alle prese con la necessità di difendersi. Si attiva quando il soggetto incontra “trigger” che richiamano l’esperienza traumatica, prende il controllo della persona e la spinge a rispondere alle minacce ed ai pericoli, reali o temuti, usando le stesse modalità che erano state utilizzate durante l’evento traumatico.

Questo spiegherebbe perché “le persone con disturbi della dissociazione presentano problematiche che interferiscono con l’essere presenti. Solo quando il passato sarà dietro di loro, potranno essere presenti” (Van der Hart, Steele & Boon, 2011).

I sintomi della dissociazione possono essere ricondotti a quattro gruppi fondamentali (Van der Hart, Steele, Boon & Brown, 1993):

  • sintomi negativi (perdita di funzionalità, come afonia, amnesia, paralisi, ecc.)
  • sintomi positivi (intrusivi, come flashback o il “sentire delle voci”)
  • psicoformi (come amnesia, voci, ecc.)
  • somatoformi (come anestesia, tic, sensazioni corporee legate al trauma, ecc.)

 

Anp, Ep e reti neurali

Vari studi eseguiti su pazienti traumatizzati esposti a stimoli che rievocavano le loro esperienze traumatiche (Liberzon & Phan, 2003; Schmahl, Elzinga & Vermetten, 2008) hanno rilevato l’attività di diverse aree cerebrali coinvolte nell’attivazione legate al riconoscimento e al controllo delle emozioni. In particolare:

  • strutture corticali (corteccia prefrontale mediale e cingolo anteriore)
  • strutture sottocorticali (amigdala ed insula)

Studi neurali volti a valutare le singole parti dissociate, ANP e EP (Nijenhuis & Den Boer, 2007), hanno rilevato che:

  • l’attivazione corticale si verifica soprattutto quando il soggetto si trova in “modalità ANP”
  • l’attività sottocorticale è invece caratteristica della “modalità EP”

Si tratta di risultati che confermerebbero la teoria della dissociazione strutturale di personalità di Van der Hart e collaboratori (2006), dimostrando come i soggetti, quando si trovano in “modalità ANP”, non riconoscevano l’evento come rilevante per loro (lo avevano cioè dissociato), mentre rivivevano le emozioni traumatizzanti quando si trovavano in “modalità EP”, ma non riuscivano a dare un significato alla loro esperienza emotiva.

 

Dissociazione e intervento terapeutico trifasico

Secondo numerosi autori (Brown, Scheflin & Hammond, 1998; Chu, 2011; Courtois, 2010; International Society for the Study of Trauma and Dissociation, 2011; Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006) l’intervento terapeutico riguardante i PTSD (semplici o complessi), i  Disturbi da stress estremo non altrimenti specificati (DESNOS), il Disturbo borderline di personalità correlato a traumi e il Disturbo dissociativo dell’identità (DID), deve seguire 3 fasi specifiche, che si susseguono in un processo a spirale, nel quale le diverse fasi possono alternarsi e riprendere da capo. Ad esempio è molto probabile che in fase 3 emergano nuovi ricordi traumatici che richiedono di ripartire dalla fase 1 del trattamento.

 

Imagery e intervento trifasico nella dissociazione della personalità

I pazienti che presentano disturbi dissociativi complessi sono caratterizzati da una grande capacità di coinvolgimento immaginativo e tutte le parti dissociative della personalità sono spesso assorbite in esperienze di immaginazione. Tale capacità, secondo vari autori (Ogden, Minton & Pain, 2006; Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006), rappresenta un’importante opportunità terapeutica. L’ imagery assume infatti un ruolo centrale in ogni singola fase dell’intervento, permettendo a ANP e EP di entrare in contatto tra di loro e con il mondo esterno, all’interno di un contesto “sicuro” come quello terapeutico.

 

Imagery e fase 1

Nella fase 1 del trattamento dei disturbi dissociativi di personalità, l’obiettivo riguarda:

  • la messa in sicurezza del paziente
  • la sua stabilizzazione
  • la riduzione della dissociazione
  • lo sviluppo di skill che gli permettano di affrontare più efficacemente la vita di tutti i giorni.

Una volta garantita la sicurezza fisica e psicologica del paziente, inizia un lento processo di ri-stabilizzazione in cui ci si focalizza sul raggiungimento di numerosi obiettivi, come ad esempio la gestione del sonno, il controllo degli impulsi, la funzione riflessiva, la gestione delle energie fisiche e mentali, le capacità relazionali.

Un aspetto centrale di tale fase terapeutica, in cui il ruolo dell’ imagery risulta fondamentale, è rappresentato dalla identificazione empatica delle parti di personalità dissociate e dalla costruzione di una reciproca relazione cooperativa. Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) evidenziano come, dal momento in cui i pazienti realizzano tale suddivisione della propria personalità, vi sia una sensibile riduzione dei sintomi ansiosi.

Il lavoro del terapeuta, in tale fase, è focalizzato essenzialmente sulla relazione con la ANP che avrà il compito di interagire con le EP. In tal modo, i risultati riportati da Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) dimostrano come i pazienti stessi riescano a individuare l’immagine delle loro EP, che riguardano, nella grande maggioranza dei casi, parti correlate agli eventi traumatici come, ad esempio:

  • Parti giovani e bambine (tipiche di traumi nell’infanzia), che vivono nell’età del trauma, esprimono sentimenti come solitudine, dipendenza, consolazione, sfiducia, rifiuto e possono essere descritte dai pazienti come “un bimbo piangente rannicchiato in un angolo”
  • Parti che aiutano, descritte come somiglianti a una persona gentile del passato, tentativo del soggetto di consolare e confortare se stesso
  • Parti che imitano l’aggressore, descritte come somiglianti a persone maltrattanti del passato, caratterizzate da rabbia e collera e vissute da altre parti come terrorizzanti
  • Parti che provano vergogna, descritte ad esempio come timorose di farsi vedere, concentrate su un senso di colpa che le fa sentire responsabili del trauma.

Un secondo passaggio, in cui l’ imagery è centrale in fase 1, riguarda la possibilità di fornire alle diverse EP uno speciale equipaggiamento di protezione (Van der Hart, Steele & Boon, 2011). Il terapeuta invita il paziente ad immaginare un negozio in cui sono esposti vari tipi di protezione, capaci di difendere da tutti i possibili stressor. Ogni EP può scegliere e indossare la propria specifica protezione e tenerla a disposizione in situazioni future ri-attivanti.

A questo punto, ogni EP deve essere protetta dal mondo esterno e, a volte, dalle altre parti dissociate. La tecnica del “luogo sicuro” permette alla ANP di sviluppare, insieme alle diverse EP, delle specifiche aree protette. In previsione di eventi minacciosi (esterni o interni) l’ANP informerà la EP che potrebbe essere coinvolta, invitandola preventivamente a trovare riparo. Sarà la stessa ANP a comunicare che il pericolo è passato e aiutare la EP a tornare allo scoperto. Il terapeuta guida il paziente a identificare il proprio (o i propri) luoghi sicuri, lasciandolo libero di immaginare ogni più piccolo particolare (es. un’isola deserta, un bunker, una casa su un albero, …). Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) sottolineano il ruolo strategico che il “luogo sicuro” può assumere con pazienti che pensano al suicidio o ad azioni autolesive. In questo caso la ANP invita la EP fonte dell’acting-out a restare nella propria area di sicurezza fino all’incontro con il terapeuta.

Altro utilizzo terapeutico dell’ imagery in fase 1 riguarda l’individuazione, da parte del paziente, di un “contenitore in cui custodire le memorie traumatiche” (una cassaforte, un file dati, un videotape …), il cui accesso potrà avvenire unicamente tramite una doppia chiave (o password) in possesso del paziente e del terapeuta ed accessibile quindi solamente durante la seduta terapeutica.

Il momento centrale della fase 1 riguarda la possibilità di far incontrare, accettare e cooperare le diverse parti. Fondamentale in questo passaggio risulta la capacità del paziente di immaginare un “meeting place”, dove tutte le parti convergono e possono negoziare i diversi obiettivi e i vari modi per raggiungerli in modo sicuro. Anche in questo caso sarà l’ANP a coordinare gli interventi e a interfacciare la relazione bidirezionale tra terapeuta ed EP.

 

Imagery e fase 2

Nella fase 2 del trattamento dei disturbi dissociativi di personalità, l’obiettivo riguarda l’integrazione delle memorie traumatiche, processo che deve prevedere due momenti ben definiti (Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006):

  1. Sintesi, che comporta la condivisione tra ANP(s) e EP(s) dei principali elementi riguardanti l’evento traumatico e richiede la rievocazione narrativa autobiografica (simbolico verbale) di quanto successo
  2. Realizzazione, relativa alla collocazione temporale dell’evento all’interno della propria storia di vita

Tale processo permette al soggetto di realizzare che il momento attuale è diverso da quello del trauma, ma anche che il trauma è parte della sua vita e che è quindi naturale che vi siano alcune conseguenze.

Anche in questo caso, l’ imagery costituisce uno strumento fondamentale a disposizione del terapeuta, che inviterà le parti dissociate pronte ad affrontare l’evento traumatico ad incontrarsi in uno specifico “meeting place”, mentre le altre parti, che necessitano ancora di maggiore tempo per avvicinarsi ai ricordi traumatici, resteranno nei loro luoghi sicuri o potranno iniziare a partecipare attraverso una finestra nascosta, dietro una barriera protettiva, o ad ascoltare tramite speciali interfoni, ma sempre in condizioni di sicurezza. Alla fine di ogni incontro, tutte le parti potranno tornare nei loro luoghi sicuri ed eventualmente confortarsi a vicenda.

Si può trattare di un percorso lungo e laborioso, dove ogni parte dissociata diventa sempre più integrata nel gruppo e oggetto dei processi di sintesi e realizzazione e dove la capacità immaginativa del paziente deve essere continuamente variata e modulata verso lo scopo finale. Uno stralcio tratto da Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) può illustrare la procedura di fase 2: “Steve aveva cinque EP, una delle quali era estremamente terrorizzata dall’idea di ricordare il brutale abuso fisico. Il terapeuta invitò Steve, come ANP e le altre quattro EP a condividere i ricordi dolorosi, mentre l’EP spaventata andò nel suo luogo sicuro a prova di rumore. La sintesi guidata migliorò il livello mentale di tutte le parti coinvolte, che furono in seguito capaci di aiutare l’EP spaventata a diventare più orientata sul presente e a realizzare gradualmente cosa era successo”.

 

Imagery e fase 3

In alcuni casi, i processi di Sintesi e Realizzazione delle memorie traumatiche, eseguiti in fase 2, possono avere già favorito la re-integrazione della personalità del paziente (tutte le parti si fondono in un’unica personalità), obiettivo della fase 3. Ma, quasi sempre, tale obiettivo richiede tempi piuttosto lunghi con un continuo lavoro di condivisione. Anche in questo caso, mediante la tecnica di imagery il terapeuta può guidare il paziente a eseguire il processo di fusione, invitandolo a immaginare le parti che si abbracciano o danzano insieme, come nel caso riportato in Van der Hart (2012): “Mary who loved swimming imagined that the parts ready to become one simultaneously dived into a swimming pool, then under the surface swimming toward and embracing each other. When they emerged from the water, they had become one”.

La fase 3 include, spesso, anche la necessità di prendere atto di quanto di doloroso è accaduto. Van der Hart (2012) sottolinea l’utilità dell’ imagery nell’aiutare il paziente ad affrontare tale passaggio, ad esempio “immaginando un rituale solenne di addio al proprio perpetratore”.

Sempre in fase 3, il paziente deve affrontare anche il ritorno alla “normalità”, al dover affrontare situazioni critiche. Tramite l’immaginazione guidata, il terapeuta può aiutare il soggetto a visualizzarsi in tali situazioni e ad affrontarle scoprendo nuove possibilità e nuove abilità (Van der Hart, 2012).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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