Troppo stressati? Situazioni familiari o lavorative che mettono a dura prova i vostri nervi? Un’idea fissa vi impedisce di riposare? Pensateci, ma non troppo. Sembra esser questo il senso della storia del professore che un giorno si presenta a lezione con un bicchiere d’acqua tra le mani e, tra lo stupore e la sorpresa generale, domanda ai suoi studenti quale fosse il suo peso. Ricevendo le risposte più diverse e stravaganti.
Maurizio Bifulco, Eugenia C. Bifulco
Dipartimento di Medicina, Chirurgia e Odontoiatria “Scuola Medica Salernitana”, Università di Salerno, Baronissi (Sa)
CORPOREA- Fondazione Idis- Città della Scienza, Napoli.
La metafora del bicchiere d’acqua per pesare le preoccupazioni e il rimuginio
[blockquote style=”1″]Il peso assoluto del bicchiere d’acqua è del tutto irrilevante[/blockquote] li interrompe il professore.
[blockquote style=”1″]Ciò che conta davvero è per quanto tempo lo tenete sollevato! Sollevatelo per un minuto, e non avrete problemi! Sollevatelo per un’ora, e il braccio vi farà male. Sollevatelo per un’intera giornata e il braccio vi si paralizzerà! In nessun caso, il peso del bicchiere è cambiato! Eppure, più il tempo passa, più il bicchiere vi sembrerà pesante. Ecco, le preoccupazioni sono come questo bicchiere d’acqua: piccole o grandi che siano, ciò che conta è il tempo che dedichiamo loro. Se ad esse dedichiamo il tempo minimo indispensabile, la nostra mente non ne risentirà. Se, invece, ci pensiamo più volte durante la giornata, la nostra mente comincerà ad essere stanca e inquieta. Se, infine, pensiamo continuamente alle nostre preoccupazioni, la nostra mente si paralizzerà.[/blockquote]
Detto per inciso, si allude qui al sopravvenire di forme e modi di pensiero come il rimuginìo e la ruminazione. Il primo caratterizzato da schemi iterativi come credenze, immagini avversive e assunti disfunzionali consistenti in minacce e pericoli incombenti su diversi ambiti di significato (Beck & Clark, 2010), la cui percezione rende più acuta la consapevolezza della propria incapacità di farvi fronte, con l’innalzarsi dei livelli d’ansia che impongono strategie di coping come la soppressione del pensiero e la ricerca continua di rassicurazioni (Borkovec, 1994).
Il secondo, la ruminazione, che spinge la mente a focalizzarsi su un unico argomento, solitamente di natura regressiva (Gabbard, Del Corno & Lingiardi, 2010). Per tornare alla nostra storia, il professore concluse il proprio racconto esortando i suoi studenti a ricercare la serenità, imparando a dedicare alle preoccupazioni il minor tempo possibile, concentrandosi solo sui propri desideri e progetti e niente altro. In definitiva, a mettere giù il bicchiere d’acqua!
Quella del bicchiere d’acqua è una riflessione leggera e ironica, non certo banale, sul peso delle preoccupazioni e delle angosce che assediano la nostra esistenza quotidiana. Ciò che conta davvero, infatti, non è il numero di eventi che possono condizionare le nostre scelte, ma il modo in cui le leggiamo e le interpretiamo. In altre parole, non sono i contenuti cognitivi a generare emozioni come ansia e tristezza, quanto il tempo che vi dedichiamo. Proprio come un bicchiere d’acqua che, sebbene scarsamente pieno, metterà a dura prova la nostra resistenza muscolare se lo terremo sollevato per ore. La sua è un’utile metafora per i nostri tempi, che ripropone un’evidenza nota fin dalla notte dei tempi, ma troppo spesso ignorata. Cioè che l’ansia, proprio come la paura, è una reazione fisiologica di difesa o di attacco dell’organismo ad eventi esterni percepiti come pericolosi (LeDoux, 2015).
Entrambi rappresentano meccanismi adattivo-evolutivi finemente regolati, indispensabili per la sopravvivenza della nostra specie. La fuga o la difesa rappresentano armi a nostra disposizione per identificare situazioni o persone potenzialmente pericolose; anche se queste, come tali, in relazione alla loro funzione specifica, devono essere istantanee, in grado di innescare azioni tempestive e risolutive di fronte a insidie e pericoli (Gazzaniga, Ivry & Mangun, 2009). Al contrario, le condizioni d’ansia e preoccupazione finiscono per occupare un posto diverso, trasformandosi nell’oggetto più visitato dai pensieri, così presenti nel vissuto da impedire un normale svolgimento dei nostri compiti nell’ordinario fluire della vita.
Questo non vuol dire che sia necessario lasciarsi andare agli eventi del mondo che ci circonda: vuol dire diventare consapevoli che i fatti sono anche espressione dei significati e delle interpretazioni che noi assegniamo loro. Soprattutto, che le nostre condotte e i nostri stati emotivi sono, non di rado, l’esito di un fatto accaduto associato alle nostre interpretazioni (Rachman, 1997). Ogni nostra reazione è, infatti, condizionata da queste interpretazioni, dai comportamenti e dalle nostre conseguenti risposte emotive. Per non lasciarsi sopraffare occorre imparare a conferire a ciascuna vicenda la necessaria attenzione. Lo stesso può essere fatto a proposito di quelle circostanze in cui, pur se in qualche misura giustificata da precedenti negative esperienze, si sperimenta il timore del fallimento e dell’insuccesso (Mancini & Gangemi, 2002). “Non ce la faccio” è l’espressione più tipica che caratterizza questi momenti e che, proprio per la sua presenza ingombrante, impedisce il più delle volte l’azione che genera il cambiamento. La chiave di volta è nel concentrarsi su ciò che si può e si deve fare, più che su quel che non si vuole che accada (Johnson-Laird, Mancini & Gangemi, 2006). Come un cane che si morde la coda, o meglio per il cosiddetto ‘effetto Pigmalione’, la profezia che si autorealizza, si finirà per persuadersi della inevitabilità delle cose, ritrovandocisi per davvero.
Quando il ragionamento è utile e quando ci danneggia
Naturalmente va detto che, sebbene il ragionamento sia stato a lungo considerato fondamento della razionalità – costituito da entità oggettive, indipendenti da chi le pensa e diverse dalle rappresentazioni soggettive – non vi è alcuna evidenza che sia una facoltà superiore della mente. Originariamente, ratio indica proprio la capacità di scegliere i mezzi più adatti a perseguire uno scopo. Qualcosa, cioè, non di razionale in sé, ma solo relativo a uno scopo (Simon, 1983). In questo senso, l’orizzonte della razionalità è ben più ampio di quello della logica formale tradizionalmente intesa. Tra la logica e la ricerca di mezzi e condotte più idonee per la sopravvivenza vi è una stretta relazione. Gli sviluppi recenti delle scienze cognitive hanno rimesso in questione questa idea di razionalità (Gigerenzer, 2009). Si è visto cioè che, nelle nostre azioni, intervengono fattori extracognitivi come la valutazione emotiva del rischio, la perseveranza, il timore per le conseguenze di un’azione, la tolleranza alle frustrazioni, il coraggio, l’autostima e così via.
Se non ripensassimo tutto questo, anche alla luce delle evidenze neuroscientifiche, ogni descrizione di noi stessi e della nostra vita psichica continuerebbe a essere approssimativa. Tramontata la stagione che considerava la razionalità (espressione della corteccia cerebrale) come il vertice assoluto della vita psichica, oggi questa (e di conseguenza l’unità dell’Io) ci appare come un prisma dalle molteplici facce: un insieme di stati fisiologici e di identità transitorie e fluttuanti (Scott, 1995). I nostri stessi giudizi razionali e morali, da sempre considerati fulcro della nostra soggettività, appaiono movimenti di superficie di attività profonde, complesse e instabili.
Nei prossimi anni saremo chiamati a farci seriamente i conti con il mistero ancora insoluto del corpo, proprio come dovremo rifare i conti con la nostra soggettività. Questa non vive, secondo la bella immagine di Frege su un’isola deserta in un mare di ghiacci, molto prima dell’uomo. Non è indipendente dalle attività di pensiero. Essa nasce nel corpo. È il corpo a conferirle l’identità, che è ben più fluttuante e precaria di quanto non si sia ammesso sin qui. Il sentimento che abbiamo di ‘essere un soggetto’ è ritmato da discontinuità, intermittenze, variazioni (Oliverio, 2009). La stessa distinzione tra mondo esterno (cui attribuiamo una realtà viva) e mondo interiore (cui attribuiamo un’esistenza soggettiva) è una costruzione della mente, non un dato di natura (Gazzaniga, 2013). La consapevolezza di questa pluralità originaria non è solo la premessa per la cura del nostro disagio, ma ci consente di affrontare la paura della morte, guarire le nostre ferite e vivere pienamente il nostro presente.
Ringraziamenti
Si ringraziano il prof. Paolo Valerio e il Dott. Mauro Maldonato per la revisione critica dell’articolo.