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Il punto cieco: trovarlo scoprendo la propria amabilità e dignità – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Attraverso una relazione rassicurante sulla propria amabilità e dignità si può lasciare il proprio falso Sé e disappannare il proprio punto cieco

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 11 Gen. 2017

Mi viene da pensare che la scoperta del punto cieco sia lo scopo non soltanto della supervisione ma anche della terapia stessa. Il problema allora diventa: cosa deve verificarsi perché uno possa vedere i propri punti ciechi

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Il punto cieco (Nr. 18) 

 

In  supervisione mi riprometto di stare attento a quanto viene detto e rispetto ai casi ma sopratutto al punto di vista dal quale viene detto, insomma sono più interessato ai colleghi che al paziente. Alle premesse dalle quali affermano ciò che affermano. Il panorama che vedono lo descrivono benissimo meglio di come potrei fare io che invece sono preso dai loro occhi.

Insomma la predica è interessante e su di essa dibattiamo e la aggiustiamo ma vuoi mettere il fascino del pulpito. Ancor più utile forse è far caso a ciò che non si vede perché dato per scontato (ovvio, appunto). Il punto cieco credo sia in parte culturale, in parte familiare e in parte individuale (33,33, 33 come diceva Leonardo a Troisi e Benigni).

Mi viene da pensare che la scoperta del punto cieco che, se volessimo legarci a tradizioni più nobili potremmo chiamare “Ombra”,  sia lo scopo non soltanto della supervisione ma anche della terapia stessa. Il problema allora diventa cosa deve verificarsi perché uno possa vedere i propri punti ciechi? Forse in supervisione non è decisivo quantunque l’atmosfera relazionale è importante per fare un buon lavoro. Ma certamente in terapia lo è.

Il segreto credo stia nella relazione che permette al paziente di guardarsi nello specchio rappresentato dal terapeuta senza dover per forza distorcere l’immagine per vedere la più bella del reame. Una relazione in cui sono sicuro e riconosciuto permette di non indossare ma guardare come oggetto il “falso sé”  dismesso.

Se consideriamo che una buona relazione consente la metacognizione e se cessa l’allarme lo stesso ragionamento (quello base non solo quello meta) migliora per la gioia di Baron allora la terapia avrebbe come scopo di permettere al soggetto di essere “come è” certo che non perderà l’amore. A questo punto anche a costo di perdere il monopolio della cura dobbiamo ipotizzare che possono esistere relazioni amorose che sono in senso profondo autenticamente terapeutiche. Anche se mi sembra persino una osservazione alla Catalano. Meno ovvio ed un po’ eretica è che una relazione non può essere terapeutica se non è anche d’amore (troppo detto così?, che resti tra noi)

 

Giungere al punto cieco passando da amabilità e dignità

Propongo di ragionare su uno dei due termini che sono stati proposti come oggetto della umana profonda rassicurazione sulla propria dignità e sull’essere amato suggerita dal dottor Conversi (comunicazione personale 2016) come  scopo profondo di tutte le terapie. Ammesso che essere “amabile” una volta eliminato l’equivoco con “essere amato” (che tuttavia presumiamo esserne la causa) sembra essere la percezione di sé come  interessante e appetibile per l’altro, meno chiaro è l’altro termine.

Di “dignità” sono pieni i giornali, gli appelli del papa, le dichiarazioni dei diritti di tutti i generi ed anche io ho imparato ad usarlo, so dove ci sta bene e grossomodo significa valore ma esattamente cosa intendiamo? come la si perde? e come si può incrementare? Non può essere semplicemente qualcosa di superficiale come il “decoro” ma ne sta al confine. Insomma colleghi uno scatto di dignità e definiamolo operativamente.

In sintesi si può dire che “attraverso una relazione umana profondamente rassicurante sulla propria amabilità e dignità si può: lasciare il proprio falso Sé e disappannare il proprio punto cieco, ragionare senza troppi bias e incrementare la metacognizione

Immaginiamo che in principio ci sia il sé autentico (SA) e che questo sperimenti di non essere amato e di non valere (ciò rimanda alla pippa suprema, la madre di tutte le seghe mentali, ne abbiamo accennato all’ultimo incontro, Dio mi perdoni! se il valore sia importante per essere amato o, piuttosto, l’essere amato come prova del proprio valore: siccome questa storia non si striga granché, né teoricamente né per me personalmente, in quanto alcune volte mi sembra in un modo, altre in quello esattamente opposto, come quelle figure care alla gestalt,  la lascerei così, concludendo che valore ed essere amato sono due scopi terminali indispensabili per la sopravvivenza). Se il SA sperimenta di non essere amato per cercare di esserlo si scinde  in due:

  • Un sé sommerso (SS) o ombra che racchiude tutto ciò che non si vuole essere (gli antiscopi identitari).
  • Un sé ideale o IO  che ne costituisce l’opposto (gli scopi identitari).

Il falso sé è la narrazione interiore da un lato e la recita sociale dall’altro, ciò che si fa per credersi IO di valore e amabile. Queste operazioni di autoinganno e camuffamento ancorché faticose e costose fanno sperimentare interiormente un senso di impostura o bluff e danno agli osservatori un senso di inautenticità.

La psicoterapia attraverso una relazione correttiva che come dice San Paolo nell’inno all’amore “tutto comprende, tutto accetta, tutto giustifica, tutto scusa, tutto ama”  ( credo sia più o meno la relazione compassionevole di Gilbert) permette una integrazione dell’ombra e dell’Io in un nuovo sé autentico.

Un ulteriore passo potrebbe essere definire come mappare l’IO e l’Ombra.

Faccio alcune osservazioni così un tanto al chilo: l’Io è il punto di vista dal quale parliamo. Il Pulpito da cui proviene la predica che è, appunto la narrazione del falso sé. Per scoprirlo basta chiedere al soggetto “come è”. Sembrerebbe più preciso chiedere “come vorrebbe essere” ma in realtà lui non si accorge, appunto, della differenza, ci crede davvero.

Altro elemento è che rispetto a quel modello di persona è completamente acritico e ritiene che quelle caratteristiche siano il bene assoluto in modo autoevidente e non necessitino di spiegazioni. Stessa acriticità e autoevidenza la mostra verso le caratteristiche opposte che rappresentano l’Ombra e in genere attribuisce agli altri che considera nemici. Nel caso, anche solo per scherzo, quest’ultime vengano riferite a lui perde ogni forma di autoironia, al punto che si potrebbe elaborare un test fatto di battute chiedendo quali non lo fanno ridere e trova stupide: segnalano i confini dell’ombra.

L’Io è la voce narrante fuori campo, il sé mnemonico semantico che ci racconta chi siamo e le cui belle storie ci aiutano ad addormentarci anche quando sappiamo che non la racconta giusta, e tanto meno tutta.

L’ombra, attenzione, non è quello che non ci piace essere, gli aspetti di noi che critichiamo. A ciò abbiamo ampio accesso cosciente, ce lo diciamo ogni giorno nei rimproveri che ci muoviamo, ed anzi, avere una serie di cose che non si vuole essere non è altro che un ulteriore sostegno e conferma dell’Io “sono talmente così che non vorrei assolutamente essere così e mi sforzo continuamente di non esserlo”.  Insomma l’Ombra è una cosa seria. Per dirla in termini religiosi non è un peccatore per quanto incallito ma Lucifero in persona con coda e zoccoli regolamentari.

Per questo la sua integrazione con l’Io nel rinnovato sé autentico attuabile all’interno di una relazione compassionevole ha più a che vedere con una conversione e la creazione di un “Uomo nuovo” piuttosto che con quello che normalmente si intende per guarigione.

 

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