Nei primi studi sistematici sull’ amnesia infantile condotti invece su bambini e adolescenti (Peterson et al., 2005; Bauer et al., 2007; Peterson et al., 2009) è emerso come l’età del primo ricordo aumenti con l’aumentare dell’età dei partecipanti: il limite dell’ amnesia infantile cambia in base all’età, è quindi un confine dinamico. Le conclusioni comuni sono sostanzialmente due: l’ amnesia infantile è un fenomeno riscontrabile anche nei bambini e non solamente negli adulti, e i suoi confini sembrano aumentare man mano che i bambini crescono (Peterson et al., 2011).
Sofia Facchinelli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO
La memoria: come funziona
La capacità dell’adulto e del bambino di recuperare accuratamente il ricordo di eventi occorsi nel passato e di fornire una testimonianza che possa essere considerata accurata e credibile, ha generato un acceso dibattito che impegna ricercatori e giuristi da oltre 100 anni.
Quando la memoria, in termini di recupero e descrizione di eventi, diventa elemento di prova, come all’interno di molti procedimenti legali, è necessario tenere in considerazione svariati elementi.
La memoria è un processo dinamico organizzato in diverse fasi, ciascuna modulata e guidata da fattori cognitivi, emotivi, affettivi, culturali ed ambientali, che possono entrare in gioco e alterare la traccia mnestica, portando alla creazione di un ricordo differente da quello originario.
Le nostre esperienze e conoscenze pregresse orientano la nostra attenzione e filtrano l’evento, selezionandone i vari aspetti, distinguendoli tra quelli che verranno ricordati e quelli che verranno dimenticati. L’acquisizione di una nuova informazione non è pertanto la registrazione esatta di ciò che vediamo o esperiamo, ma si tratta piuttosto di un complesso processo di riorganizzazione, integrazione e modificazione che concorre alla strutturazione dei propri ricordi e della propria conoscenza.
L’informazione integrata nel sistema di memoria tuttavia non rimane inalterata nel tempo, ma subisce delle modificazioni ad opera di diversi fattori, quali, ad esempio, il tempo trascorso tra l’evento e il momento del recupero, quante volte si è stati testimoni dell’evento stesso e quante volte lo si è poi rievocato, le conoscenze apprese successivamente, le proprie aspettative. Nei bambini, inoltre, lo sviluppo cognitivo e la maturazione delle strutture neurali possono generare ulteriori interferenze sulla traccia mnestica. Infine, specie in ambito forense, la suggestione esercitata dal contesto esterno, costituisce un elemento di fondamentale importanza nella modifica del ricordo. La memoria è quindi, per definizione, fallibile e inaffidabile.
C’è ormai comune accordo nel ritenere che [blockquote style=”1″]una riproduzione fotografica di un evento non è possibile, tanto nell’adulto quanto nel bambino. Ogni testimonianza, anche quando origina dalla percezione diretta dei fatti, è sempre il risultato di un processo, prevalentemente inconsapevole, di elaborazione soggettiva di un’esperienza.[/blockquote]
La testimonianza del minore
Tra i diversi mezzi di prova contemplati dal sistema giuridico italiano un ruolo centrale è ricoperto dalla testimonianza, sia in sede penale che in sede civile.
Nel nostro sistema processuale il Giudice ha un ampio potere discrezionale nel valutare quanto dichiarato dal teste e questo compito, pur complesso in ogni caso, lo è particolarmente in relazione ad alcune fattispecie.
È questo il caso in cui un minore assume la duplice veste di vittima e testimone. Tale situazione, che si può presentare nel caso di reato a sfondo sessuale, ha prodotto un incessante dibattito riguardo la “fondatezza” della dichiarazione resa, in quanto la stessa costituisce spesso l’unica prova su cui l’accusa è costruita.
Nel caso in cui il testimone sia un minore vittima di reato, il modus operandi per l’accertamento previsto dal codice è indicato dalla “Carta di Noto”. Tale documento, oltre ad indicare la metodologia da utilizzare nel raccogliere le testimonianze, specifica all’art. 6 che “l’accertamento sulla idoneità a testimoniare deve precedere l’audizione del minore”. Pertanto, prima di procedere all’escussione del teste, al Giudice è suggerito di richiedere una valutazione al fine di accertare se il minore sia nelle condizioni di rendersi conto dei comportamenti tenuti in danno della sua persona, se sia in grado di riferirli e se sia quindi effettivamente in possesso di tutte le capacità necessarie a partecipare coscientemente al proprio esame. In linea con quanto indicato in questo importante documento, nel 2001, la Giurisprudenza di Legittimità (Cass., Sez. III, 23/02/2011, n. 26692, C.E.D. Cass.n.250629)2, ha voluto dare un valore normativo a quanto stabilito nella Carta, i cui principi sarebbero altrimenti non cogenti. Si è posto l’accento sulla naturale attitudine del minore, specie se in tenera età, a contaminare la realtà con la fantasia, contaminazione che può comportare delle modificazioni nella narrazione dei fatti.
La Suprema Corte di Cassazione, negli ultimi decenni, ha effettuato diversi tentativi di sistematizzazione delle analisi psicologiche in tema di testimonianza minorile. Una delle pronunce più importanti è sicuramente la sentenza n. 8962 del 3/10/1997, la c.d. “sentenza Ruggeri”, secondo cui [blockquote style=”1″]la valutazione del contenuto della dichiarazione del minore – parte offesa – in materia di reati sessuali […], deve contenere un esame dell’attitudine psicofisica del teste ad esporre le vicende in modo utile ed esatto, della sua posizione psicologica rispetto al contesto delle situazioni interne ed esterne. Proficuo è l’uso dell’indagine psicologica, che concerne due aspetti fondamentali: l’attitudine del bambino a testimoniare, sotto il profilo intellettivo ed affettivo, e la sua credibilità.[/blockquote] (Cass. Pen., Sez. III., 03/07/1997, n. 8962).
La sentenza Ruggeri oltre a definire in modo preciso e raffinato i parametri che è necessario considerare al fine di valutare l’idoneità psicofisica del minore a testimoniare, fornisce un importante contributo definendo i due concetti di “idoneità” e “credibilità” e differenziando quest’ultima dall’ “attendibilità della prova”. L’esperto chiamato ad effettuare l’indagine psicologica potrà infatti esprimersi solamente sul funzionamento psicologico del soggetto, declinato in svariati aspetti, e sulla possibilità che siano intervenuti dei fattori che abbiano comportato un rischio in relazione alla genuinità di quanto raccontato. Dovrà invece astenersi dal pronunciarsi in merito alla probabilità che il racconto fornito dal soggetto corrisponda effettivamente ad un’esperienza vissuta.
Traducendo i parametri giurisprudenziali in termini cognitivi, la “capacità di recepire le informazioni” comporta l’analisi delle funzioni percettive e attentive di base; la “capacità di raccordarle con altre” è indagata attraverso la valutazione della capacità di ragionamento e pensiero; la “capacità di ricordarle” con l’indagine delle funzioni mnestiche e la “capacità di esprimerle in una visione complessa” è analizzata attraverso la valutazione dell’abilità linguistica. Al fine di valutare tale idoneità è necessario esplorare il contesto familiare e sociale in cui è nato il racconto, come è avvenuta la prima rivelazione, se è avvenuta in modo spontaneo o se è stata sollecitata e se ci sono state modifiche nelle successive ripetizioni, nonché il numero delle ripetizioni. È inoltre di fondamentale importanza indagare le eventuali domande poste al minore da parte di adulti di riferimento per identificare possibili suggestioni che possono essere involontarie, o anche volontarie.
È necessario infine considerare la distanza temporale tra il presunto evento e il momento della deposizione: maggiore è il tempo trascorso tra l’evento ed il momento in cui viene raccolta la testimonianza, più il ricordo sarà affievolito e maggiore sarà la possibilità che si siano insinuate influenze suggestive. In relazione a questo ultimo aspetto, le Linee Guida Nazionali e la Giurisprudenza di Legittimità si allineano, suggerendo di procedere all’ascolto del minore nel più breve tempo possibile. Nel 2010 infatti la Suprema Corte rammenta che, nel caso di reati sessuali su minori, sarebbe opportuno condurre l’indagine psicologica sull’idoneità a testimoniare “in epoca il più possibile vicina ai fatti”, al fine di “evitare il pericolo di rimozione dei ricordi tipico della fase infantile”, di cristallizzare la prova e ridurre al minimo “manovre suggestive, anche inconsapevoli, degli intervistatori” che rischiano di compromettere il narrato (Cass. Pen., Sez. III, 13/04/2010, n. 22007).
In tema di distanza temporale tra presunto evento e testimonianza, la terza sezione della Cassazione Penale, in una recente sentenza, ricorda che l’incombente, ossia l’audizione del minore, dovrebbe essere svolto il più vicino possibile ai fatti o alla loro emersione “per scongiurare il pericolo della nota amnesia infantile per la quale il bambino non è in grado di conservare i ricordi” e per eliminare, per quanto possibile, eventuali contaminazioni mnestiche (Cass. Pen., sez. III, 22/01/2013 n. 3258).
Da questa sentenza emerge come lo stato psichico del minore, soprattutto se in tenera età, sia considerato stabile solo per un tempo limitato e, basandosi su studi neuroscientifici, la Corte ha inoltre concluso che l’impianto psichico del minore in età evolutiva è naturalmente instabile, e che le strutture di personalità sono mobili, si evolvono e si modificano in relazione alla fisiologica progressione delle fasi evolutive. Da tale osservazione deriva che una perizia a distanza di tempo dai presunti fatti potrebbe non essere più utilmente praticabile proprio a causa della mutata condizione della mente infantile (Cass. Pen., n. 3258, citata). Dal riconoscimento della precarietà delle strutture psichiche dei minori in età evolutiva, ne potrebbe conseguire la necessità di una ripetizione dell’accertamento dell’idoneità a rendere testimonianza ogni volta che, per esigenze processuali, debba essere condotta una nuova audizione.
Memoria e amnesia infantile
La memoria, in senso generale, inizia a svilupparsi molto precocemente: i neonati sono infatti in grado di distinguere tra un suono nuovo e uno familiare, come la voce materna (De Casper & Spence, 1986). Nel corso del primo anno di vita la memoria comincia a strutturarsi.
Nonostante la ricerca sullo sviluppo della memoria autobiografica indichi che i bambini in età prescolare siano piuttosto abili nel raccontare il passato (Meltzoff, 1995; Bauer, 1996; Picard et al., 2009), i loro ricordi sono meno dettagliati e meno organizzati di quelli degli adulti. Le narrazioni dei bambini piccoli riguardano principalmente eventi definiti e condivisi, e prima dei 4 o 5 anni i bambini hanno difficoltà nel rispondere a domande circa il contesto e la sequenza causale dell’evento (Uehera, 2000; Van Abbema & Bauer, 2005). Inoltre anche nella fascia di età tra i 7 e i 10 anni, i bambini non sono in grado di ricordare correttamente le persone presenti o di ricostruire il contesto spazio- temporale (Bauer et al., 2007). È solo dai 9-10 anni che i bambini sviluppano ricordi autobiografici simili, nella loro natura, a quelli degli adulti. La capacità di ricordare eventi specifici con una precisa collocazione nello spazio e nel tempo, è una delle ultime caratteristiche della memoria autobiografica a diventare pienamente disponibile.
È proprio in quanto la memoria autobiografica riguarda il ricordo di eventi vissuti che diventa rilevante nell’ambito della testimonianza.
Lo studio dell’origine e dello sviluppo della memoria autobiografica è intimamente correlato alla considerazione del fenomeno dell’ amnesia infantile. Una plausibile risposta alla domanda “quando compare la memoria autobiografica?”, potrebbe essere “quando scompare l’ amnesia infantile”.
L’ amnesia infantile è un fenomeno universale che è responsabile dell’assenza o scarsità di ricordi autobiografici riferiti ai primi anni di vita.
Da numerose ricerche condotte su soggetti adulti, cui veniva chiesto di rievocare eventi della loro infanzia, è emerso che, in media, nonostante siano presenti differenze individuali, gli adulti non sono in grado di ricordare la loro vita prima dei 3,6 anni (Pillemer & White, 1989). Inoltre, i ricordi precedenti ai 7 anni sono scarsissimi, diminuiscono ulteriormente quelli precedenti ai 5 e sono del tutto assenti quelli relativi al periodo preverbale (24 mesi o meno) (Morrison & Conway, 2010; Bauer 2007a; Pillemer & White, 1989).
Molte delle evidenze sperimentali derivano da studi retrospettivi, da cui è emerso come l’ amnesia si strutturi in due fasi susseguenti: una fase di amnesia totale per la prima infanzia, in cui gli adulti non sono in grado di ricordare alcun evento relativo ai primi 2 – 3 anni di vita, e una seconda fase nella quale gli adulti sono in grado di rievocare solo pochissimi ricordi del periodo di età tra i 3 e i 7 anni (Peterson, 2002; Jack & Hayne, 2010).
Secondo l’approccio cognitivo l’abilità di formare ricordi durevoli è determinata dall’acquisizione del “senso di Sé”, a cui il bambino può associare ricordi personali (Howe & Courage, 1993), della teoria della mente (Perner & Ruffman, 1995), del linguaggio e delle abilità conversazionali (Simock & Hayne, 2002). La codificazione verbale del ricordo è di fondamentale importanza per la sua conservazione nel sistema di memoria e per un successivo recupero, e un più maturo concetto di Sé favorisce questo processo. Un altro fondamentale contributo allo studio del fenomeno è quello basato sull’interazione sociale, in particolare sulla precoce condivisione dei ricordi tra genitori e figli (Fivush, 2010). Secondo questo approccio teorico, l’uscita dal periodo oscurato dall’ amnesia infantile sarebbe connessa con la crescente abilità narrativa del bambino.
Un ulteriore contributo ci viene dalle teorie biologiche che formulano due ipotesi strettamente correlate tra loro. Secondo la prima, chiamata “teoria del cervello immaturo”, l’ amnesia infantile si verifica poiché le strutture chiave per la formazione e l’immagazzinamento dei ricordi non sono sufficientemente mature nel momento della formazione della traccia mnestica e non sono quindi in grado di elaborare l’informazione affinché possa rimanere immagazzinata in memoria. Gli elementi a sostegno di questa teoria derivano da studi di neuroimaging, le cui scoperte hanno evidenziato che, nonostante gran parte del cervello sia completamente formato al momento della nascita, le due regioni chiave per la memoria dichiarativa, la corteccia e l’ippocampo, mostrano uno sviluppo postnatale (Sierra et al., 2011).
La rapida mielinizzazione che si verifica durante i primi anni di vita può spiegare i cambiamenti nella velocità di codificazione ed elaborazione dell’informazione osservata in differenti compiti di memoria (Hayne, 2004). Tuttavia, la connessione tra la lenta maturazione corticale, la progressiva mielinizzazione e l’ amnesia infantile, resta una questione da chiarire.
La seconda, la “teoria della maturazione cerebrale”, postula invece che il processo stesso di maturazione interferisce con il consolidamento dei ricordi formati durante l’infanzia (Josselyn & Frankland, 2012). L’idea centrale è che la continua maturazione del cervello dopo l’iniziale acquisizione dell’informazione, possa interferire con la stabilizzazione della traccia mnestica. Il livello di neurogenesi sembra infatti essere inversamente proporzionale alla stabilità della memoria.
Nei primi studi sistematici sull’ amnesia infantile condotti invece su bambini e adolescenti (Peterson et al., 2005; Bauer et al., 2007; Peterson et al., 2009) è emerso come l’età del primo ricordo aumenti con l’aumentare dell’età dei partecipanti: il limite dell’ amnesia infantile cambia in base all’età, è quindi un confine dinamico. Le conclusioni comuni sono sostanzialmente due: l’ amnesia infantile è un fenomeno riscontrabile anche nei bambini e non solamente negli adulti, e i suoi confini sembrano aumentare man mano che i bambini crescono (Peterson et al., 2011).
Peterson e colleghi passando in rassegna diversi studi su ricordi verbali di eventi accaduti prima del secondo anno di vita, hanno concluso che tali ricordi, anche se occasionalmente presenti, sono piuttosto scarsi.
Da una ricerca del 2005 (Peterson, Grant & Boland, 2005) è emerso un altro dato significativo: l’assenza di differenze tra i vari gruppi di età nella struttura del ricordo. In generale i partecipanti di tutte le età erano in grado di fornire solamente uno spaccato, una “fotografia” di un momento isolato nel passato, lasciando così supporre ai ricercatori che siano le abilità narrative possedute al momento della codifica dell’informazione e non l’attuale livello di abilità, a determinare la struttura del ricordo. Circa la natura e la struttura degli episodi rievocati, questi risultati non differiscono da quelli di altre ricerche condotte anche sugli adulti. In un altro studio del 2005 (Van Abbema & Bauer) è stato evidenziato nuovamente come, con il passare del tempo, la perdita dei ricordi aumenti significativamente.
Sono diversi i ricercatori che hanno concluso che i ricordi della primissima infanzia sono fragili e vulnerabili sia all’interferenza che all’oblio e per questo non si consolidano, diventando così inaccessibili (Peterson et al., 2011; Peterson et al., 2005; Wang et al., 2004).
Nella maggioranza degli studi condotti viene evidenziata una correlazione negativa tra la quantità di eventi ricordati e l’età. Riguardo a questo aspetto, di estrema importanza nell’ambito della testimonianza minorile, nelle Linee Guida Nazionali per l’ascolto del minore (2010) è stato sottolineato come sarebbe buona prassi procedere all’ascolto del minore nel più breve tempo possibile (principio reso operativo dalla Giurisprudenza di Legittimità, Cass. Pen., n. 3258, citata).
Riassumendo, le evidenze empiriche di una carenza di ricordi relativi alla prima infanzia sono consistenti e convincenti, nell’adulto come nel bambino. I ricordi di eventi ed esperienze vissute prima dei 3 o dei 4 anni sono scarsi e, se presenti, sono frammentari ed incompleti a confronto con quelli relativi ad un periodo di vita successivo, in cui la quantità di ricordi e la loro complessità aumenta rapidamente e i fattori sottostanti ad un decremento dell’ amnesia infantile sono molteplici.
Ma quali sono le implicazioni di queste scoperte nell’ambito forense? Nonostante le teorie sull’ amnesia infantile si focalizzino sui limiti cognitivi e linguistici dei bambini molto piccoli, è un errore concludere che il fenomeno implichi necessariamente la totale assenza di abilità mnemoniche. I bambini molto piccoli non sono in grado di esprimere verbalmente i loro ricordi, ma utilizzano forme diverse di memoria. Questo, pur di estrema rilevanza per la ricerca, non può tuttavia essere considerato valido indizio di affidabilità del ricordo in ambito forense, in particolare nei casi di reati sessuali su minori, dove il ricordo verbale del bambino è talvolta l’unica prova su cui è costruita l’accusa.
Inoltre, si ritiene importante sottolineare come i bambini, in particolare quelli molto piccoli, siano notoriamente dei soggetti estremamente vulnerabili alla suggestione e alla manipolazione da parte degli adulti e come questa influenza possa talvolta determinare delle modifiche o la creazione di un vero e proprio falso ricordo soprattutto se i pochi ricordi rievocati sono incompleti, frammentari, incoerenti e scarsamente strutturati (Ceci et al.,1987; Ceci & Bruck, 1993).
È pertanto fondamentale e necessario condurre le interviste con estrema cautela nella consapevolezza che ogni intervento può causare delle alterazioni. Anche le linee guida sulla memoria e il diritto redatte dalla British Psychological Society sottolineano come tutti i ricordi di eventi occorsi tra i 3 e i 5 anni debbano essere presi in considerazione con estrema cautela e come quelli precedenti ai 3 anni non dovrebbero essere considerati validi senza altre evidenze esterne indipendenti.