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Il cibo, una conoscenza resiliente. Anche nell’Alzheimer, è una categoria cognitiva che “resiste”

Uno studio SISSA dimostra che la conoscenza sul cibo tende a preservarsi anche in gravi sindromi come l'Alzheimer, più di altre categorie di stimoli.

Di Redazione

Pubblicato il 16 Dic. 2016

Una ricerca SISSA, pubblicata all’interno di un numero speciale della rivista Brain and Cognition tutta dedicata alle neuroscienze cognitive del cibo, analizza i deficit lessicali-semantici della categoria cibo in pazienti affetti da malattie neurodegenerative, come l’Alzheimer.

 

Lo studio dimostra che la conoscenza sul cibo tende a preservarsi anche in queste gravi sindromi, più di altre categorie di stimoli. Si mostra inoltre, e anche questa è una novità, che le calorie percepite di un cibo influenzano la capacità di recuperarne il nome: più calorico è l’alimento più la conoscenza viene preservata.

Raffaella Rumiati, professoressa della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, prima autrice del lavoro ed esperta di categorizzazione semantica del cibo, ha anche curato (con Giuseppe di Pellegrino, Università di Bologna) l’intera special issue della rivista, scrivendo anche un commentario introduttivo al numero.

Sarà forse perché è cosi cruciale per la nostra sopravvivenza, ma la conoscenza lessicale e semantica collegata al cibo viene – relativamente – preservata anche in quelle malattie che portano a un calo generalizzato della memoria e delle facoltà cognitive, come l’Alzheimer e l’afasia primaria progressiva.

A osservare questo fenomeno sono stati Raffaella Rumiati e il suo team alla SISSA (in collaborazione con Caterina Silveri del Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma), che ha verificato le prestazioni cognitive di due gruppi di pazienti e di un gruppo di controllo composto da persone sane in compiti che riguardavano la comprensione e il riconoscimento visivo del cibo.

Non dovrebbe sorprendere che, anche in un calo cognitivo generalizzato, il cibo tenda in qualche modo a resistere meglio – commenta Rumiati – Non è difficile intuire come la pressione evolutiva possa aver spinto verso una maggior robustezza dei processi cognitivi legati al pronto riconoscimento di uno stimolo che forse è il più importante per la sopravvivenza.

Un altro dato generale a supporto di questa supremazia del cibo emerso nella ricerca è che in tutti tre i gruppi, pazienti e controllo, il cibo viene processato meglio del “non-cibo”.

Inoltre – aggiunge Rumiati – sappiamo dalla letteratura che i nomi degli alimenti più calorici sono quelli che vengono acquisiti per primi nel corso della vita.

Rumiati e colleghi hanno anche scoperto un altro particolare interessante: l’apporto calorico, di ogni cibo, così come è percepito dai soggetti è proporzionale a quanto viene risparmiato il ricordo del cibo stesso: più ci sembra calorico, meglio viene preservato.

Anche questo fenomeno potrebbe essere strettamente collegato a quanto detto prima: più il cibo è nutriente, più è importante riconoscerlo.

 

Un numero speciale

Il lavoro di Rumiati e colleghi nasce dalla necessità di ampliare le conoscenze su questo argomento:

Sembra strano eppure gli studi cognitivi sul cibo non sono molti, e solo negli ultimi anni questo argomento sta attirando maggiore attenzione da parte della comunità scientifica.

Questo numero speciale della rivista Brain and Cognition serve quindi anche a dare maggiore vigore a questo campo di studi.

Insieme a Giuseppe Di Pellegrino, dell’Università di Bologna, abbiamo curato il numero speciale e abbiamo anche scritto, su richiesta della rivista, un articolo introduttivo che fa il punto della situazione. Credo che nei prossimi anni questo ambito di ricerca diventerà via via sempre più importante – conclude Rumiati.

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