Religione: Il seguente articolo propone una rilettura di tipo psicoanalitico della relazione tra psicopatologia individuale e l’esperienza religiosa di tipo autoritario e integralista. Quanto possono essere labili i confini tra sofferenza, psicologia e la conversione religiosa in senso integralista? Questa eventuale relazione, e concomitante spiegazione, potrebbe aiutarci a capire nei tempi correnti i fenomeni di deriva integralista?
Direzionando una riflessione di tipo clinico, che ha come punto di partenza le dinamiche individuali in un contesto sociale e culturale, rileggeremo secondo la teoria e clinica analitica la natura e gli effetti di una trascendenza e religiosità di tipo coercitivo ed autoritario.
Religione: Contemporaneità e conversioni
Il diciannovesimo secolo è stato il secolo del crollo, frantumazione e dissipazione degli imperi nazionali e continentali. Il ventesimo secolo è stato caratterizzato dall’emersione e scontro tra ideologie e del loro parziale ridimensionamento. Questo ventunesimo secolo, pare, ha come fenomeno – e forse come inevitabile evolutivo – una ridefinizione relativistica e irreversibile di ciò che le religioni sono e del loro rapporto con l’individuo, nonché le società e gli stati nazionali (Hood, R.W., Spilka, B.,Hunsberger B., & Gorsuch R., 2001).
La contemporaneità ci accade attorno, attraverso i mezzi di informazione e riverbera, ci accade dentro, mostrandoci un livello di orrore e violenza, di ostracismo e separazione tra gli uomini, ove il comune denominatore pare essere, quasi invariabilmente all’inizio o alla fine, il tema religioso.
La filosofia, la sociologia, la psicologia sociale e la psicopatologia moderna si sono ampiamente occupate di questo tema e di quanti a esso ne abbiano un nesso relativo.
Ne esce un quadro trasversale, ricco di considerazioni che, in questa sede, si attengono alla psicologia ed alla psicologia clinica con quanto è riferibile ed identificabile per una comprensione scevra da giudizi o condizionamenti.
Uno, fra tutti, centrale è proprio il concetto di Conversione, di coinvolgimento personale verso una religione e della trasformazione che comporta, che è il primo concetto e fenomeno psicologico che andiamo ad indagare.
Per conversione religiosa intendiamo un cambiamento, spesso radicale, nella percezione della propria persona e degli altri individui, nell’attribuzione di significato/i agli elementi e agli accadimenti del mondo nonché propriamente della visione del mondo in senso irrazionale riferito a una entità onnipotente e onniscente. In una definizione ulteriormente funzionale è: la trasformazione rapida e talvolta radicale di una persona avendo convinzioni, pensieri e sentimenti di tipo sovrannaturale, con un netto cambiamento d’interessi e di abitudini.
Nel corso e decorso di disturbi psichici, o fasi episodiche critiche a essi correlate, non è affatto raro rilevare temi religiosi e la casistica clinica abbonda, ad esempio circa i sensi di colpa di un soggetto depresso portato a confrontarsi in modo molto più intenso del solito con il problema della colpa e della pena in senso strettamente religioso. Ancora: nel corso di forme acute di schizofrenia la radicale trasformazione della percezione abituale della realtà circostante induce a sospettare, dietro alla realtà percepita, l’esistenza di una dimensione nascosta sovrannaturale, di un disegno o logica sovrumana, di una dimensione spesso definita “trascendente”. In queste casistiche il paziente cerca di spiegare la sua rinnovata e rivelata percezione (patologica) della realtà con teorie filosofiche o argomentazioni religiose, spesso confuse e mal espresse e, ovviamente, non chiaramente comprese da altri.
Questa “trasformazione”, ascesa, rivelazione al “trascendente” è quasi sempre espressa in un momento preciso di “illuminazione” ove il divino – a seconda del pattern culturale del soggetto – si svela e/o rivela in un messaggio che è duplice: riguarda il percipiente e riguarda anche tutti gli altri suoi simili, il mondo intero, spesso con una spinta fattuale ad agire in modo nuovo e diverso.
Hans J. Weitbrecht (1948) sottolinea come ogni persona sia certamente in un continuo processo di evoluzione come anche implicitamente in crisi, con un mutamento di volta in volta corrispondente alla personalità del soggetto, indi per cui anche la cosiddetta “trasformazione psichica” in seguito a una conversione non può essere considerata di per sé come totalmente patologica, ma – e questo più ci interessa – lo è solo ed esclusivamente se coesistono sintomi che corrispondono e avvalorano un determinato disturbo psichico.
Nodale è indagare il confine, sovente mobile e sfumato, tra fede, superstizione e idee deliranti; i criteri diagnostici validati, e in uso ai giorni nostri per le malattie mentali, sono estremamente specifici onde evitare errori clinici o abusi professionali.
La letteratura critica di ambito epistemologico e clinico alla religione (Eugen Drewermann, 1992/1995), sembra essere di aiuto nel leggere correttamente i fenomeni in essere: permette di osservare, valutare e definire l’esperienza religiosa in quei casi ove estremizzi i suoi principi e dettami e porti ad una deriva autoritaria e all’ integralismo. Il richiamo a categorie e a criteri diagnostici terapeutici e psichiatrici, riconosciuti internazionalmente, fornisce un valido aiuto medico-clinico e sociale per comprendere forme di estremismo e integralismo agite violentemente da parte di soggetti che, in questo caso e solamente in questo, possono essere considerati affetti da una patologia mentale che mima – nella forma e nei contenuti – il contatto con il “trascendente” (E. Fromm, 1987; Hans Jörg Weitbrecht, 1948; Mortimer Ostow, 1983).
Riportiamo di seguito, per dare una iniziale cornice clinica, i termini di differenziazione del DSM-IV che sono proprie di questa alterata esperienza di fede ed osservanza religiosa ovvero: il delirio e il contenuto/linguaggio schizofreniforme.
A) la condivisione contenutistica: nel glossario dei termini tecnici, dopo aver definito il delirio come falsa credenza, viene precisata un’importante condizione perché si possa parlare di delirio, ossia: [blockquote style=”1″]la convinzione non è di quelle ordinariamente accettate dagli altri membri della cultura o sub-cultura della persona (N.B. non è un articolo di fede religiosa)[/blockquote] (American Psychiatric Association, 2010).
B) L’alterità esperenziale: nel capitolo dedicato alla schizofrenia viene specificato quanto segue: [blockquote style=”1″]idee che possono sembrare deliranti in una cultura (N.d.A stregoneria e arti magiche) possono essere considerate comuni in un’altra. In certe culture, le allucinazioni visive o uditive con un contenuto religioso possono rappresentare una parte normale dell’esperienza religiosa (es.: vedere la Vergine Maria o udire la voce di Dio o percepire specifici profumi riferiti alla divinità) [/blockquote](American Psychiatric Association, 2010).
Questi due elementi – il delirio e il processo schizofreniforme – sono riferiti a fenomeni di alterazione del funzionamento psichico e di «allargamento della coscienza» individuale e ne specificano una modificazione evidente dell’equilibrio psichico (Eugen Drewermann, 1992/1995) da una funzione autonoma endogena ad una possibile confluenza e coincidenza di idee e sentimenti con altri fenomeni esogeni; fenomeni che interessano più la psicologia dei gruppi ma nel senso patologico del termine. Ovverosia tutte quelle forme di religiosità definibili come gruppi fideistici chiusi, sette, culti della personalità che necessitano/attribuiscono un grande valore a fenomeni conversione radicale, di catarsi ed identificazione in riti e rivelazione di tipo avventistico o apocalittico, quali:
– visioni;
– simboli;
– accadimenti interpretati come segni;
– fenomeni psicosomatici;
– glossolalia;
– percezione e/o riferimento di messaggi (alla persona direttamente o indirizzati al gruppo).
L’apporto della psicanalisi
La valenza della psicanalisi, nell’attuale interpretazione e critica alla religione, si è rivelata col tempo di fondamentale importanza nel dare elementi di comprensione e nello stabilire confini – etici, antropologici e clinici – a quanto concerne la religione e le sue manifestazioni. Questo non perché i suoi rappresentanti (gli psicanalisti e i terapeuti ad orientamento analitico) siano strutturalmente e ideologicamente aggressivi verso la chiesa, o i monoteismi, i politeismi o i culti, ma piuttosto perché l’esperienza della terapia psicoanalitica, tesa a rendere possibile una vita quanto più possibile consapevole e sana, conferma ogni giorno quelle tesi filosofiche – oggi integrate in un sistema clinico operante – che già furono di Spinoza, Feuerbach, Freud stesso e Nietzsche (E. Fromm, 1961/1987) ovvero: la religione può rappresentare una forma di distorsione e alienazione della coscienza, un allontanamento radicale dal Principio di Realtà, uno stato patologico culturalmente e socialmente accettato, incoraggiato, in alcune antropologie (A. Godin, 1993; M. Aletti, 1994).
In psicoanalisi la coscienza morale, il Super-Io, di ogni individuo si formerebbe nella prima infanzia, nelle condizioni di vulnerabilità, bisogno, soggezione, dipendenza e paura nei confronti della diade genitoriale, identificate in due figure riferibili a un principio paterno (legislativo, punitivo) e in uno materno (accudente, nutritivo).
Questa istanza morale interiorizzata (il Super-Io) impedirebbe al bambino, come poi all’adolescente e al soggetto successivamente adulto, di espletare i propri istinti, mantenendo inconsce le rappresentazioni mentali corrispondenti a pulsioni, istinti, bisogni collegati a specifiche emozioni e funzionalità corporee definite come “erogene”. Si ha, quindi, la prima seria scissione psichica fra conscio e inconscio, con la formazione di una coscienza già parziale, frammentata, non corrispondente a una psiche integra, totale ed armonica. In altre parole: la nascita del conflitto psichico fra istanze morali (divieti) ed esigenze istintuali (bisogni). Questa fenomenologia intrapsichica costituisce il nucleo originario, fondamentale e fondante, della religione e della nevrosi individuale che ha come meta o origine la tematica “trascendente” o divina (Hood, R.W., Spilka, B., Hunsberger B., & Gorsuch R., 2001).
Notiamo ancora come, per pura logica clinica psicoanalitica, nelle fasi successive dello sviluppo, tale scissione psichica sarebbe potenzialmente aggravata dall’ influenza di altre istanze congruamente orientate, come una scuola o un sistema d’ istruzione strettamente confessionale, uno stato teologicamente influenzato o teocratico e propriamente una istituzione religiosa di matrice integralista (E. Fromm, 1961/1987; A. Godin,1993).
Le teorie di origine psicanalitica attribuiscono, alla fase prima infantile e poi adolescenziale, una importanza nodale nella costruzione di un Io capace di mediare gli elementi di controllo del Super-io e le pulsioni dell’Es. Tale mediazione si esprime, fattualmente, nella distinzione tra gli elementi di realtà – detto Esame di Realtà – e il contenimento dell’angoscia e delle pulsioni auto ed etero distruttive. Più specificatamente in quella che è la fase adolescenziale il giovane evolutivamente ha una naturale spinta ad emanciparsi dai genitori e a porre progressivamente in discussione i valori e i modelli che gli sono stati proposti nel corso dell’ educazione.
Vi è da dire che una qualsiasi psicologia, anche di tipo non psicanalitico, sottolinea la necessità di una maturazione della persona pure nel campo della individualità, dell’ acquisizione di etica e morale personale e ciò a prescindere della fede o da una fede specifica, ma gli psicologi di orientamento psicanalitico sono giustamente focalizzati ed estremamente critici nei confronti di ogni forma di trascendenza.
Secondo le teorie, e le pratiche, di tipo psicanalitico la persona non dovrebbe solo emancipare la propria visione e critica del mondo, in termini di etica e morale, dai genitori ma anche da tutti quei valori recepiti nel corso del proprio sviluppo (Hood, R.W., Spilka, B., Hunsberger B., & Gorsuch R., 2001).
Il termine appropriato di “capacità critica” , qui inteso precisamente come un processo di strutturazione interna ed esame di realtà (Spilka, B., Hunsberger B., & Gorsuch R., 2001 , dovrebbe poter porre in discussione l’acquisito morale presentato dal Super-Io, mediando e costruendo ex-novo nuovi concetti e capacità esperienziali capaci di evitare la scissione psichica prodotta dalla rimozione.
Nello specifico, per quanto riguarda la religione, secondo alcuni autori di approccio psicoanalitico (Hood, R.W., Spilka, B., Hunsberger B., & Gorsuch R., 2001) il giovane dovrebbe riconoscere che i contenuti della religione sono solo proiezioni psichiche che non hanno un correlato reale.
Il rimanere legati ai dogmi concettuali e vincoli morali estremisti, rigidi, in assoluto valevoli per gli adepti ma impositivi anche verso altre forme di credenza o laicità, senza averne posto in discussione realmente le origini, i vantaggi/svantaggi, gli effetti su piccola e vasta scala, secondo alcuni psicoanalisti (E. Fromm, 1961/1987; A. Godin,1993; M. Aletti, 1994) viene interpretato in senso eminentemente patologico, come una mancata emancipazione, come un blocco evolutivo, un arresto dello sviluppo psichico dovuto a connaturati e non elaborati fattori individuali quali insicurezza; senso di inadeguatezza, timore del confronto sociale, solitudine.
Secondo molti autori (E. Fromm, 1961/1987; A. Godin, 1993) sono proprio queste caratteristiche che porterebbero alcuni giovani, uomini e donne anche in età matura ad aderire a chiese, culti, sette e nuovi movimenti pseudo-religiosi. Incapaci di assumersi responsabilità adulte da adulti, concrete in termini di scelta e quindi di guadagno/perdita, evitano un’ autonomia di pensiero e di vissuto emotivo-esperienziale, cercando rifugio in una sorta di indiscriminatamente accogliente, immenso, utero protettivo, rassicurante, nutriente capace inizialmente di non giudicarli, di “lenirli” nelle non elaborate frustrazioni e giustificante ogni evento ritenuto doloroso o frustrante come “volontà divina” o secondo un “misterioso ed amorevole disegno celeste”. A riguardo è interessante, e specifico, Mortimer Ostow che ha teorizzato l’ esistenza di una cultic personality, ovverosia: [blockquote style=”1″]Il giovane teme la società aperta con i suoi obblighi senza fine e pericoli indefiniti e si sente protetto in un gruppo piccolo e chiuso con la sua disciplina rigida, la spiegazione parziale e totale di un tutto e con ruoli e compiti ben definiti [/blockquote](Mortimer Ostow, 1983).
Il tema, cui si arriva per logica clinica e di esposizione, è nodale e non da poco anzi, si potrebbe dire, sia il tema e fenomeno centrale di ogni storia clinica, di ogni richiesta di aiuto in ambito terapeutico nonché di ogni vita al mondo: l’autosviluppo e l’autonomia.
È necessaria una buona dose di motivazione personale e coraggio per entrare in conflitto con la propria famiglia, con l’implicita mitologia interna familiare e i suoi schemi; per anche solo porre in dubbio i valori fondamentali della società in cui si vive, le sue idiosincrasie e illogicità e per accettare il fatto che – compresi o meno che si sia – è necessario proseguire per il proprio percorso di vita in quanto singoli, unici e irripetibili; col proprio bagaglio di bisogni, idee, sentimenti e timori e che con gli altri, assieme agli altri, sperimentiamo un tratto di percorso esistenziale che parte da noi e comunque torna a noi in quanto esseri senzianti e sentibili.
La dicotomia autonomia/dipendenza è il fattore e correlato diretto di ogni step evolutivo che interessa l’ autosviluppo. Attenzione, perché è da considerare e ponderare come necessaria, e non sarebbe altrimenti, una o più fasi nello sviluppo psichico ove si è, ad un momento, autonomi e in un altro dipendenti ma ciò è accettabile e comprensibile in quella che è una più vasta e lucida considerazione di progressione biologica, fisiologica e psicologica; eventi esperienziali individuali ove la persona, giovane o matura che sia, sperimenta ed esperisce la propria capacità di interazione, comprensione e resistenza al mondo e col mondo, avendo fasi e momenti, peaks mutuando il termine da Maslow.
Piuttosto, e qui si riprende il canapo freudiano, è quando la progressione evolutiva dell’ individuo è totalmente spostata verso una dipendenza, una mimesi intellettiva ed emotiva totalmente aderente un monotema, un sol concetto, un elemento pervasivo e ridondante cui riferire totalmente e inequivocabilmente tutto il proprio tratto esistenziale del momento o passato oppure, proiettivamente, futuro. È il principio del blocco evolutivo, della sosta che diviene radicamento angoscioso e patologico a una unica e univoca lettura della propria realtà personale e del mondo, che ci preme sottolineare.
La fissazione in termini di angoscia, in parole più freudiane se così possiamo dire, o ulteriormente il timore primigenio e primitivo di castrazione o minaccia da parte di Thanatos.
La persona non consapevole, evolutivamente bloccata o inibita, non è autonoma e quindi è per necessità dipendente e questa dipendenza è manifesta – come richiesta di aiuto e compensazione di un gap interno – nei confronti di persone fisiche, di idee, di organizzazioni, di rituali tesi a contenere e spostare l’angoscia.
Questo ci porta a un parallelismo, assai chiaro ai clinici ma non del tutto ovvio se considerato su vasti numeri di individui, che mutua e permette di applicare i meccanismi e categorie della tossicodipendenza a ogni tipo di rapporto di dipendenza a seguito di un blocco evolutivo. Fra il fenomeno della tossicodipendenza e l’adesione incondizionata al pensiero trascendente-religioso esistono somiglianze palesi quanto impressionanti (Jean-Marie Abgrall, 1996). Chi è assoggettato a un credo fideistico, integralista, non può – perché non vuole in quanto non può – più agire liberamente, viene ascritto in una progressiva fagocitazione delle sue caratteristiche e risorse in funzione dell’organizzazione in cui ha confluito, degli altri membri e di chi è a capo di questo (Hood, R.W., Spilka, B.,Hunsberger B., & Gorsuch R., 2001).
La relazione tra autoritarismo sociale e religioso
Una visione clinicamente e culturalmente critica delle religioni, e dei differenti tipi di culti, può essere ulteriormente approfondita con alcune considerazioni, appunto cliniche e culturali, espresse da E. Fromm (1987), in particolare la sua capitale distinzione fra religioni di tipo autoritario e umanistiche.
Tale distinguo non è specifico di un solo volume o argomento trattato da Fromm, piuttosto parliamo di una sintesi concettuale e di definizioni che lo stesso ha operato in un’ arco quasi trentennale di osservazioni e conclusioni circa il rapporto tra individuo e religioni. Tale distinguo ha indubbiamente elementi chiari per lo specialista della salute mentale e il civilista come anche per l’antropologo laico, ma si perviene ad una zona indefinitamente grigia di assenza chiara di confini.
Le religioni autoritarie, così come è ripreso e definito nell’Oxford Dictionary proprio dagli studi di Fromm (Oxford Dictionary Press and Editions, 2015) sono un costrutto di idee, permessi e divieti che una volta riconosciuti e accettati da parte dell’uomo lo dispongono a essere strumento di un potere superiore, invisibile o non chiaramente manifesto, da cui dipende il suo destino, quello delle persone a lui care come di tutta l’umanità e che ha diritto a essere obbedito, riverito e adorato e ciò direttamente o tramite coloro che ne amministrano il culto e l’ interpretazione.
L’elemento che più ci interessa in quanto clinici, ovvero la delega di responsabilità e capacità personali a questo potere superiore: l’elemento essenziale, assoluto, nelle religioni autoritarie è il volontario – o indotto – abbandono della propria persona a un potere ritenuto trascendente.
In questo tipo di religioni e culti la virtù somma, capitale, cardinale è l’obbedienza ai ritenuti testi sacri, ai ministri di questo eventuale culto e l’aderenza pressoché indubbia al corpus intero delle sue determinanti culturali e trascendenti.
Di contro, ma non potrebbe essere certamente differentemente, il peccato – e quindi crimine socialmente riconosciuto dal gruppo in tutti i suoi gradi – o anche vizio morale capitale è la disubbidienza (E. Fromm, 1987; Hans Jörg Weitbrecht, 1948; Mortimer Ostow, 1983). La specifica che ne deriva logicamente è quanto segue: ciò che è peccato è crimine sociale e ciò che è crimine sociale è anche peccato. La sfumatura, pericolosa e tremenda, è che quanto è civile coincide con il teologico e il teologico determina le categorie dell’infrazione alle norme civili, da cui autoritarismo e totalitarismo.
Consideriamo ora invece l’aspetto delle religioni da Fromm definite come umanistiche.
Le religioni così definite da Fromm come umanistiche sono fedi, credenze e culti che fanno perno sull’uomo e sulle sue intrinseche possibilità. Nodale e profondo in questo tipo di religione è l’esperienza personale, intima, non comunicabile in termini chiari e definiti di una individuale quanto collettiva unità con un Tutto che è origine, motore e termine di qualsiasi cosa, passata presente e futura, non importa cosa o chi sia.
La ricerca, di queste altre forme di religiosità è eminentemente individuale ed evolutiva, è acquisire una forma di forza e consapevolezza; l’obiettivo, manifesto, che non è inteso come punto di arrivo ma stato, condizione interiore più o meno permanente, è la capacità di autorealizzarsi in consapevolezza e libertà, non quella di annullarsi e obbedire.
Un distinguo importante circa l’elemento della fede.
Per fede, in una definizione agevole, in questo caso si intende la convinzione sicura e certa basata sulla comprensione chiara ed autentica delle proprie esperienze di creatura che pensa, opera e sente. Di contro (ed è bene sottolinearlo onde avere una visione completa ed imparziale del termine) l’elemento di fede così come proposto dalle religioni e dai culti autoritari è invece un assoluto e cieco assenso a certe proposizioni – etiche, morali, pratiche e trascendenti – da una fonte ritenuta infinitamente autorevole, implicitamente saggia e benevola, assoluta.
Il clima dominante, circa l’uomo e il divino, nella religione umanistica e quella autoritaria, è assai differente quindi e ciò come concreto portato di vita quotidiana ed esperienziale, è così riassumibile:
Religione autoritaria
– esperienza più collettiva che personale
– presenza di settarismo e parzialità sociale quanto culturale
– la ricerca e il dubbio sono ammessi entro i termini e confini di quella specifica teologia e dialettica
– ortodossia e diffidenza verso ciò che è nuovo e/o diverso
– bene e male sono categorie assolute, con assenza di margini relativi individuali senza sfumature personali
– persistenza di dolore e colpa: della sofferenza ed espiazione di colpe.
Religione umanistica
– esperienza individuale
– incomunicabilità completa di tale esperienza
– assenza di parzialità settaria
– ricerca e dubbio sono non solo ammessi ma ampiamente incoraggiati
– apertura e disposizione al nuovo e/o diverso
– bene e male sono categorie gruppali e sociali relative, con margini relativamente ampi di sfumature personali
– gioia e piacere: edonismo, attitudini positive che riparano il dolore e spiegano sensi di colpa.
A questo punto vediamo come e quanto il carattere eminentemente autoritario di una religione sia in relazione con il livello evolutivo di una cultura e società; ciò come a dire che una religione o culto autoritario diviene, o promuove/giustifica una società anch’essa autoritaria o quanto meno fondata su principi autoritari, assolutisti e verticistici (Hood, R.W., Spilka, B.,Hunsberger B., & Gorsuch R., 2001).
Per estensione, e completamento, possiamo dagli elementi esposti precedentemente estrapolare e porre in chiaro quei fattori che invece identificano, specificano ed orientano circa una religione e contesti sociali di tipo spirituale/trascendente non autoritari, di accoglienza e promozione della persona umana a tutti i livelli (Hood, R.W., Spilka, B.,Hunsberger B., & Gorsuch R., 2001):
– benessere sociale e redistribuzione ampia delle ricchezze;
– rapporto diritti/doveri individuali e gruppali eguali per ogni componente della società e di assoluta reciprocità;
– separazione amministrativa, legislativa, culturale tra stato e religioni da cui il laicismo;
– uguaglianza uomo-donna;
– uguaglianza innanzi il patto sociale e legislativo di tutti gli individui a prescindere dal ceto e dalla cultura;
– libertà di associazione e di dibattito sui temi sociali, culturali e religiosi;
– egualitarismo;
– istruzione laica e libera, proposta e promossa per entrambi i sessi senza distinzione ed incoraggiata sino al massimo grado d’istruzione;
– promozione e sostegno del lavoro nonché promozione e sostegno delle arti liberali nonché dell’otium inteso come tempo personale e privato.
Cui seguono, a livello di vita e partecipazione sociale, questi ulteriori punti:
– critica di forme ortodosse e verticistiche di educazione: vengono screditate come autoritarie e come focolaio di separatività, potenziale violenza, svantaggio sociale;
– obiezione circa l’aspetto politico-sociale delle religioni intese, invece, come fatto privato di opinione personale e necessità individuale.
Una società e una cultura che non corrispondano a questi elementi nodali sono una società e cultura sintoniche a una religione autoritaria o, il suo invariante inverso, che una religione autoritaria è il prodotto esatto e netto di una particolare struttura sociale di tipo autoritario, e ciò a tutti i livelli dell’esperienza umana ovvero nella propria individualità di persona, nella famiglia, nelle associazioni tra individui, nella società.
Vi è quindi un determinismo gruppale, culturale e sociale ove società e cultura autoritaria ammettono e abbisognano, di una religione anch’essa autoritaria e dai caratteri eminentemente verticistici e di settarismo, di separatività, di implicita potenziale ed ammessa violenza e non importa se di tipo concettuale, verbale o reale.
La proiezione individuale di una carenza primaria circa la propria persona, il gap evolutivo del singolo rispetto la massa, si dirigono inarrestabili verso quegli ambiti che compensano, rassicurano ma vincolano. Nella società, nella cultura, nella organizzazione sociale autoritaria e totalitaria ritroviamo quegli elementi tipici delle stesse religioni autoritarie, una replica in forma apparentemente aconfessionale e laica, ove è almeno formalmente utilizzato il termine laico, di una matrice verticistica, dogmatica e vincolante.
I termini che caratterizzano queste organizzazioni sociali-culturali autoritarie sono:
– Monismo. Assenza di pluralismo, in altri termini, o dogmatismo, cioè governo totale ed unico, con conseguente occupazione pervasiva delle strutture dello Stato da parte di una ristretta cerchia di individui e ingerenza continua nel privato di ogni individuo.
– Ideologizzazione. Presenza di un’ideologia/cultura articolata e precisamente definita, finalizzata alla legittimazione dell’autoritarismo ed alla sua preservazione, ciò in quanto stabilito unico prospetto per il singolo, il suo nucleo privato, le organizzazioni, la società, oltre che alla mobilitazione ritualistica delle masse in sostegno di tale ideologia o cultura.
– Mobilitazione. Attivazione continua e pervasiva in attività dirette alla manifesta quiescenza verso l’autoritarismo e creazione di strutture congrue l’ideologia e la cultura ed organizzazione di tutte le possibili che vi sono destinate e subordinate.
– Verticismo. Presenza di un leader o guida cui viene fatto riferimento continuativamente, da cui divengono specifiche norme, divieti, suggerimenti o – in senso quanto più ampio possibile – un modello sia esso materiale che ideale. Da tale leader o guida ne divengono, a discendere, altre figure di leader e responsabili sino al più piccolo gruppo che coordina le attività, le iniziative.
– Autoreferenzialità culturale ed operativa. I limiti, del tutto imprevedibili, all’esercizio del potere da parte del leader o della guida – e dei relativi responsabili allocati a diverso grado nelle gerarchie di sistema – sono a discrezione assoluta e totale di tale leader o guida. I termini di bene o male, in senso etico e morale, di giusto o sbagliato in ambito civile sono determinati, stabiliti, enunciati ed applicati senza nessun altro elemento di dibattito o legittimazione che sia l’autoreferenzialità del sistema stesso.
Tutti i termini sopra esposti sono, in modo impressionante, intercambiabili e sovrapponibili nei due sensi prendendo come attori di tali dinamiche ora la religione autoritaria e ora uno stato o governo anch’esso autoritario.
Il punto di contatto più forte, va però evidenziato ancora e meglio, è il caso in cui queste due realtà coesistano e operino in accordo e mutuo vantaggio, tanto da sovrapporre il principio di peccato (in senso religioso: errore verso la dottrina) con quello di colpa (in senso penale: danno verso la persona e/o la collettività).
Questo punto di contatto è decisivo per chiarire il rapporto di sovrapposizione reciproca tra peccato e delitto, tra teologia autoritaria e governo totalitario; un regime invasivo e autoritario, come una religione integralista e autoritaria limitano allo stesso modo la sfera di autonomia, di scelta, di azione, organizzazione e decisione dei soggetti. Il rapporto tra ordine, teologia/ideologia e libertà è paurosamente sbilanciato verso il primo termine della frase e l’individuo aderente alla religione autoritaria, la persona in termini freudiani assoggettata all’angoscia agìta dal Super-Io ne è preda, vittima come anche inevitabile connivente.
Nelle religioni autoritarie il peccato rappresenta non solo una colpa individuale verso la divinità ma, ulteriormente, è inteso come un male da estirpare perché un autentico atto di arbitrio e quindi attentato al bene comune in senso teologico.
Il parallelismo netto e più evidente è con il paziente che, al solo “poter” pensare un elemento avvertito come dissonante i permessi e percorsi del Super-Io, avverte il panico o l’angoscia (E. Fromm, 1961/1987; A. Godin,1993; M. Aletti, 1994); sperimenta la dissonanza interna come frattura del quotidiano, come fosse follia, come depravazione, come abbruttimento del suo essere in un senso di “deviazione” da uno status quo internamente definito.
Così come nelle religioni autoritarie il peccatore è inteso come elemento canceroso nell’insieme della collettività dei fedeli, all’interno della economia psichica individuale l’idea, l’impulso, la pulsione freudianamente parlando, dissonante rispetto a un’altra, scatena l’effetto punitivo e coercizzante dell’istanza psichica deputata e determinata a regolarlo. La figura, in questo senso, è completa e chiusa, e al funzionamento psichico individuale, sugli assi angosciosi del Super-Io, corrisponde per un verso la religione autoritaria e per l’altro lo stato autoritario, riproducendo su una scala immensamente più grande quella monade però dualistica che è una versione onnipotente e totale del primitivo sistema di figure genitoriali.
Si costruisce, o ricostruisce, dunque un sistema assai primitivo ma inusitatamente potente ove all’inizio e fine di tutto vi è il contenimento dell’angoscia, del senso di morire e del Tanathos.
I termini sopra descritti per il parallelismo tra religione autoritaria/assolutista e stato autoritario/totalitario hanno qui ulteriore spiegazione, se visti come la spettacolare e potente proiezione di un sistema di accudimento e protezione, ora esterno (religione e stato) ma permanentemente riferito ora interno (individuo ed istanze psichiche).
I rituali di passaggio, di accettazione sociale, le cadenze giornaliere e temporali ossessive, di fatto, riconducono a una logica di onnipotente irrealtà, superstiziosa e magica, simile a quella che sottende le pratiche magiche primitive o i processi regressivi di difesa in pazienti affetti da schizofrenia in fase fertile (E. Fromm, 1961/1987; A. Godin,1993; M. Aletti, 1994). Le fobie, gli incubi, le zoofobie frequenti nei bambini, divengono nell’adulto la fobia dell’altro, del diverso, il nemico interno angoscioso proiettato in forma tangibile e da cui ci si deve difendere o farsi difendere e l’elemento di difesa – ciò che può proteggere – è sempre riferito simbolicamente al padre. Religione autoritaria e stato autoritario divengono una rappresentazione totemica, un macchinario pervasivo ed efficiente nel controllo dell’angoscia e dei pericoli del mondo. Tornano, quindi, i temi e bisogni dell’infanzia con la sua vulnerabilità, dell’adolescenza con l’indefinizione fattuale dell’identità, che divengono in età adulta adesione e volontaria offerta di fagocitazione a un “tutto” che ora è divino e ora è umano.
In questo senso è la psicoanalisi che fornisce il proprio contributo nella comprensione culturale, prima, e clinica poi di queste derive autoritarie ed inevitabilmente integraliste; propone un modello epistemologico e filosofico dell’origine della religione – in senso lato -, proseguendo e comprendendo – ove necessario – quel tipo di culto e religione autoritaria nello stato del bambino privo di ogni difesa e che ha fatto derivare i suoi contenuti dai desideri, e dai bisogni dell’infanzia protrattisi intonsi sino alla fase adulta (D. Lukoff, 1992; E. Drewermann, 1995;Hood, R.W., Spilka, B., Hunsberger, B., Gorsuch R. 2001)
La religione autoritaria, integralista, monade senza confini sarebbe, in fin dei conti, la nevrosi ossessiva universale dell’umanità nel suo incedere giorno per giorno verso il progresso. Esattamente come quella nel bambino, essa trae origine dalla percezione interna dell’angoscia individuale ed esistenziale quindi dal complesso edipico, dalla relazione con la figura paterna. Ponendo questo come ragionevole e necessario, è da considerare che l’abbandono della religione di tipo autoritario e integralista – e in altri modi e tempi della religione nel suo senso più ampio – sia un accadimento naturale quanto logico, un luogo forse non evidente della storia umana ma certamente con un prima e un dopo rispetto a questo; un inesorabile e fatale processo di comprensione e crescita delle dinamiche individuali e gruppali, poste e attivate all’ennesima potenza in sistemi più complessi e potenti quali un culto (o religione ed uno stato o nazione) che ora, in questa contemporaneità, ci troviamo a sperimentare e vedere come nodo per ciascuno e processo di sviluppo dell’umanità nel suo insieme.
Tutto questo sopra descritto ed elencato è un portato di tipo culturale, e di riflessione psicologica e sociale, direttamente dal lavoro di E. Fromm, di Freud e di altri psicoanalisti (D. Lukoff, 1992; E. Drewermann, 1995) sulle caratteristiche nodali e funzionali di una conversione patologica a una religione o culto autoritari, integralisti.
Si evince come sia necessario, in termini di comprensione culturale analizzare questo, poiché se tale fenomenologia fosse lasciata in quanto spiegazione alla religione sola, ne avrebbe certamente una qualche distorsione o mitigazione delle cause ed effetti.
L’esigenza, forte, culturale e umana è che nulla si definisca da sé e da sé solamente ma invece, per un principio necessariamente epistemologico sia confrontato e veduto in tutte le sue parti funzionali. Il fenomeno della interdipendenza fra individuo, gruppo, fra famiglia, struttura sociale e il bisogno umano di credere in un “qualcosa”, di potersi confortare e poggiare in un contesto religioso merita la più assoluta attenzione nella contemporaneità.
Le derive integraliste, autoritarie, assolutiste forse non appartengono esclusivamente a una sola religione in quanto tale, con le sue peculiari caratteristiche ora difformi e ora simili ad altre; è forse una possibilità presente oltre un determinato punto ove esame di realtà e dinamica psichica sono scollegate, una tendenza irrazionale e violenta, verso lo stabilire un unico assioma e lettura del mondo e delle sue possibilità, un Assoluto incontenibile nella logica e nei processi psichici che determina, attiva e procede i fatali esiti della contemporaneità. La scissione interna dell’individuo è coagulata con altre altrui scissioni, e crepe strutturali del funzionamento psichico, creando così una monade funzionale i singoli bisogni individuali proiettati – identificati – nell’appartenenza e nella identità estremizzata; e altro non potrebbe poi essere poiché la psicologia dinamica, analitica e le scienze del comportamento ben hanno descritto e specificato i fenomeni di regressione – individuale e gruppalie –.
A conclusione di questo lavoro è allora opportuno chiosare con una semplice, quanto definitiva e forte, espressione di Bettelheim circa “un cuore vigile” cui, è necessario e sufficiente, una mente che lo sia altrettanto al fine di non cadere in un sonno, ove ragionevolezza sopita sarebbe preda di mostri.