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L’inconscio – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Quando un modello del funzionamento mentale include l’ inconscio riesce a spiegare qualsiasi comportamento, tutto e l’incontrario di tutto

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 03 Mag. 2016

L’inconscio è il trascendente dentro di noi. Fa parte di noi ma è diverso, talvolta opposto, sconfinato e mai del tutto esplorato. L’inconscio moltiplica le nostre potenzialità perché  è tutto quello che non siamo in realtà, tutto quello che avremo potuto essere e non siamo stati.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

 

Inconscio e transcendenza

Uno dei concetti portanti della psicoanalisi è l’inconscio cui si deve, credo, gran parte del successo del medico viennese e dei suoi seguaci. Uno dei libri più straordinari che ho letto sulla psicoanalisi è appunto ‘La scoperta dell’inconscio‘ di Ellemberger, due volumi di Boringhieri che si divorano come un giallo.  Il sottosuolo, come lo chiamava un mio paziente, affascina ed incuriosisce perché è avvolto nel mistero e fa l’effetto di quelle trasmissioni che proliferano su tutti i canali promettendo rivelazioni ai confini della conoscenza(‘Mistero‘ di Roberto Giacobbo ne è il prototipo).

Questo interesse verso l’ignoto non è figlio della curiosità scientifica, di cui infatti non adotta il metodo, ma piuttosto il figlio orfano di Dio. Con la morte di quest’ultimo per mano dell’illuminismo (perlomeno in gran parte del mondo occidentale) e il fallimento storico delle grandi ideologie totalitarie del ‘900 il bisogno di trascendenza e di assoluto è rimasto senza fissa dimora, ma non i problemi cui cercava di rispondere.

Possibile che siamo destinati ad essere consapevoli di morire e veder morire i nostri cuccioli attraversando una vita senza senso? Chi può averci giocato uno scherzo simile? Che sia Dio, il progetto intelligente o il caso evoluzionistico è un vissuto cui pochi sembrano rassegnarsi. Allora che fare? Le molteplici soluzioni private sono state nella linea del fanatismo religioso per piccole sette o per particolari aspetti dell’esistenza (il fisico, la salute, la bellezza, il vigore fisico, l’alimentazione, lo sport o la stessa cultura) ma solo parzialmente soddisfacenti quando non ridicole.

Tornando al nostro tema, penso che l’inconscio abbia successo perché è il trascendente dentro di noi. Fa parte di noi ma è diverso, talvolta opposto, sconfinato e mai del tutto esplorato. L’inconscio moltiplica le nostre potenzialità perché  è tutto quello che non siamo in realtà, tutto quello che avremo potuto essere e non siamo stati.

 

 

L’inconscio nel lavoro clinico

Nel lavoro clinico, poi, l’inconscio è una vera e propria benedizione: tutto ciò che non è altrimenti spiegabile dal modello di funzionamento della mente è attribuito a lui e basta alla fine includere l’inconscio stesso nel modello che questo diventa omniesplicativo. Quando un modello del funzionamento mentale include l’inconscio riesce a spiegare qualsiasi comportamento, tutto e l’incontrario di tutto. Si raggiunge quella che Mario Rossi Monti chiama la conoscenza totale e che, però, nella tradizione psicopatologica assume il nome di delirio.

La conoscenza totale è esperienza affascinante e seduttiva al punto che Adamo ed Eva ci si giocarono un posto invidiabile. Nei momenti di smarrimento e confusione sia personali (pubertà, adolescenza, invecchiamento o drastiche fasi di passaggio della vita: lutti, fallimenti, disastri) che collettivi (crisi economiche, guerre, ecc) la sua attrattiva diventa irresistibile. Fu esattamente ciò che successe a me quando a 16 anni incontrai i meravigliosi libri di Freud. Amore a prima vista per una teoria che spiegava la sofferenza mentale ma anche l’organizzazione sociale, le grandi opere d’arte, la religione, le dimenticanze e i motti di spirito. Nulla restava fuori, tutto era una magnifica conferma. Furono necessari altri dieci anni, un overdose quasi mortale di psicoanalisi e l’incontro con i libri di Popper per  capire che una teoria che tutto spiega e non esclude nulla, non predice niente e tanto valeva rimanere attaccati alla fede.

Per questo fuggii dal mondo psicoanalitico per rifugiarmi nel razionalismo cognitivista in ciò assecondando le difese e le rigidità con cui ho imparato a cavarmela in questa vita. Ora, a distanza di tanti anni, si riscopre a partire da una impostazione rigorosamente scientifica ( Pankepp, Porges, Van dei Kolt) l’importanza di quel mondo sottocorticale che volevo ignorare e, orrore, persino del corpo che con le sue memorie implicite ha ragioni che la ragione non conosce.

Nuove tecniche di provata efficacia ( EMDR, Mindfullness) assediano noi fanatici del disputing e della ristrutturazione cognitiva da cui tutto a cascata ci piacerebbe seguisse. Più è presente la minaccia più ci si irrigidisce nelle proprie posizioni. Mi fa sorridere quando durante i corsi, nella foga del discorso, a me o a qualche collega scappa la parola inconscio o controtrasfert e subito verrebbe da scusarsi aggiungendo ‘con rispetto parlando‘ come facevano i nonni citando parti del corpo o funzioni dello stesso normalmente non esibite.

 

 

L’importanza di rivalutare il concetto di inconscio

Credo che sia utile una rivalutazione del concetto di inconscio a partire da una sua ridefinizione. Attenzione! Non è che in ambito cognitivista non ci sia stata una riflessione in merito, ma ritengo si possa fare di più e di meglio ed a questo questo ciottolo invita, perché è certo che abbiamo degli stati mentali evidentissimi agli altri che talvolta guidano il nostro comportamento di cui però non siamo consapevoli.

Da un lato si è riconosciuto che esistono una serie di memorie procedurali dove è registrato come si fanno le cose e che utilizziamo senza rendercene conto. Ma fin qui è un ovvietà che tutta una serie di processi, o la maggior parte, della nostra mente avvengano senza che ce ne accorgiamo e prendiamo atto solo del risultato finale.

Dall’altro c’è quello che Freud chiamava il preconscio, ovvero contenuti  potenzialmente accessibili sui quali non è momentaneamente posta l’attenzione ma che, senza grande sforzo possiamo focalizzare. Si tratta più o meno del dialogo interno di Ellis e dei pensieri automatici di Beck. Niente di sconvolgente da mettere in discussione  il modello della consapevolezza pervasiva.

Manca all’appello delle truppe freudiane l’inconscio rimosso il cui famoso ritorno ho sempre vageggiato  come un assedio  da parte degli zombies stile ‘The walking dead‘. Credevo che l’inconscio rimosso fosse più o meno quegli aspetti di me stesso (pensieri, desideri, emozioni) che non mi piacciono molto e tendo a non esibire e persino a nascondere a me stesso.

Però mi viene in mente un obiezione: ma se sono inconsci come faccio a dire che non mi piacciono e misconoscerli? Diciamo che so benissimo di averli ma non mi piace averli sempre davanti focalizzandoci l’attenzione (ad esempio quegli eventi esistenziali di cui non andate fieri o vi fanno proprio vergognare, li tenete in disparte ma sono accessibilissimi). Il  problema della necessita di consapevolezza valutativa sui contenuti che saranno rimossi è  presente pure per gli psicoanalisti e sfuma il concetto stesso di inconscio rimosso che appare una caratteristica mutevole nel tempo. Come se: prima si conosce e poi si rimuove, mentre in terapia si fa il percorso inverso e il rimosso torna ad essere consapevole. Ma se lo scopo della terapia è rendere conscio l’inconscio, una terapia che fosse davvero conclusa genererebbe un uomo senza più l’inconscio? Quell’uomo cognitivista tutto corteccia, razionalità e consapevolezza cui aspiro?

Sono del parere che se ne minimizzi la portata a ridurlo a ciò di cui mi vergogno con gli altri e con me stesso e la terapia ad un impietoso confessionale. Mi capita, invece, di recente di vedere altri (più facile) e me stesso (più difficile) agire in modo assolutamente coerente e spiegabile secondo un piano che tuttavia non riconoscono come proprio e non possono farlo perché non è un po’ diverso ma totalmente altro dal loro abituale modo di essere in cui sono le premesse stesse a mutare.

Il fenomeno clinico che più vi somiglia, ma qui non siamo in ambito patologico, è la dissociazione fino all’estremo delle personalità multiple come se convivessero nella stessa persona scopi terminali e piani esistenziali differenti che non comunicano tra loro  e si manifestano  in modo discontinuo. Proprio in quanto reciprocamente escludentisi non generano conflitti. Quando talvolta si presentano insieme il vissuto non è quello di scontro o lotta interna ma, piuttosto di incomprensibilità, di sorpresa. Da un punto di vista speculativo i concetti che più mi richiama sono due.

Il primo quello kelliano di polo sommerso di un costrutto centrale dell’identità. Attenzione, mentre il polo negativo è l’opposto del polo e, per quanto sgradito, è ben costruito nella sua negatività, il polo sommerso è indefinito, misterioso, una sorta di day after senza un preciso skyline. Proprio per essere totalmente ignoto è temuto più di un qualsiasi polo negativo  perché priverebbe la persona di qualsiasi prevedibilità su di sé.

Il secondo è il concetto junghiano di inconscio collettivo e in particolare di Ombra. L’ombra junghiana è intesa in molti sensi. In  modo riduttivo come Ombra personale molto simile all’inconscio rimosso di cui sopra oppure come funzioni e atteggiamenti non sviluppati nell’ottica dialettica dicotomica che risale a tipi psicologici. In modo più ampio e sovrapersonale (collettivo) come archetipo dell’alterità. Provo a tradurlo in un linguaggio per me più chiaro e utilizzabile.

Immaginiamo che potenzialmente l’essere umano sia  il risultato dell’evoluzione della specie e nulla gli sia estraneo. In lui c’è il massimo della potenzialità angelica e demoniaca allo stesso tempo (per considerare solo una delle innumerevoli possibili dicotomie che molti archetipi descrivono). Nel suo diventare persona (appunto etimologicamente maschera) si distacca dall’universale per diventare individuale. Ciò avviene in primo luogo rispetto alla sua famiglia e più in generale rispetto all’essere specie umana indifferenziata.

In questo processo privilegia alcuni modi di essere che lo caratterizzeranno e ne trascura altri. Con i primi si identificherà, saranno consapevolmente perseguiti e pilastri dell’identità. I secondi li condannerà o comunque proverà un naturale rifiuto ostile quando li scorgerà negli altri: forse in questo consiste l’antipatia viscerale. L’uomo nel diventare persona si distacca dalla specie cercando la sua strada unica ed originale. Ma la specie con la sua lunga storia è più saggia del singolo individuo.

Credo che il riattivarsi di tanto in tanto di scopi e piani esistenziali sorprendentemente inconciliabili con il piano dominante sia il modo con cui la saggezza antica della specie riequilibra la parzialità individuale. E’ una sorta di contrappeso che compensa le parzialità. Chissà  se  la sede dell’Io con la sua individualità e i suoi squilibri sia da collocare nei livelli superiori e recenti del cervello come la neo corteccia, mentre  il contrappeso riequilibratore non abbia a che fare con i sistemi arcaici  della base del cervello in quei sette sistemi  affettivi di base che promuovono la sopravvivenza individuale e della specie. Ai giovani il compito di approfondire il tema e indagarlo.

Se così, comunque, quando si manifesta uno di questi sorprendenti piani alternativi va ascoltato come un richiamo ad un maggiore equilibrio e integrato con quello dominante.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

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