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Le complicazioni dell’impresa di vivere: le strategie cognitive che complicano la vita

Le strategie cognitive che portano a complicarsi la vita sono la difficoltà a cambiare, l'elogio del passato e le auto-profezie al negativo. 

Di Vincenzo Amendolagine

Pubblicato il 02 Mar. 2016

Vivere serenamente è per alcuni un’impresa ardua, perché sono abituati a rendere complesse anche le piccolezze della vita quotidiana. Probabilmente l’istinto alla complicazione è generato dall’autodistruttività, ovvero dall’istinto di morte di freudiana memoria. La propensione alla complicazione si cristallizza in uno stile di pensiero, che è responsabile di strategie cognitive ben precise. Fra di esse, sono da menzionare la difficoltà a cambiare, l’elogio del passato, le autoprofezie al negativo.

Pulsioni – istinti, intelletto e strategie cognitive autodistruttive

Che l’uomo sia costituito da due tipi di pulsioni o istinti è un fatto acclarato dalle teorizzazioni freudiane (Freud, 1920). La pulsione o istinto di vita ha la funzione di agevolare l’organizzazione della vita in forme sempre più articolate, ovvero, traslando il significato, è quell’istinto che determina progresso e benessere. La pulsione o istinto di morte è quella che tende a far regredire la vita verso lo stato inorganico. Essa determina nell’essere umano, quando è diretta verso l’esterno, l’aggressività e l’autodistruzione nel momento in cui è indirizzata nei propri confronti.

Che l’istinto determini una modalità di comportamento ricorrente e costante nell’individuo lo suggerisce Jung (1919, pag. 169):
[blockquote style=”1″]Gli istinti sono tipiche modalità di azione e quindi abbiamo a che fare con un istinto in tutti i casi in cui osserviamo modalità di azione e reazioni costanti e ricorrenti con regolarità, indipendentemente dal fatto che i motivi siano o non siano coscienti.[/blockquote]
Solitamente la razionalità dovrebbe essere in grado di governare gli istinti, ma frequentemente questo non avviene come sottolinea Fromm (1973, pag. 267):

[blockquote style=”1″]L’intelletto guida l’uomo a fare le scelte giuste. Ma sappiamo anche quanto sia debole e poco fidato questo strumento, che si lascia influenzare e vincere dalle passioni e dai desideri umani. Il cervello umano non solo è insufficiente come sostituto di un apparato istintuale indebolito, ma complica spaventosamente l’impresa di vivere.[/blockquote]
Le complicazioni dell’impresa di vivere probabilmente sono generate dalle spinte autodistruttive, che in molti esseri umani sono quelle dominanti. Si crea, così, un’ideologia della vita che nella complicazione e nella ricerca del proprio malessere ha il suo fondamento. Le strategie cognitive autodistruttive sono molteplici. Se ne espongono alcune fra le più efficaci.

 

La difficoltà a cambiare

In un mondo che cambia alla velocità della luce, molti di noi difficilmente accettano i cambiamenti. Essi sono vissuti come orpelli insignificanti di cui non bisogna tener conto. Il cambiamento è assimilato ad una mutilazione del proprio sé. Rimanere ancorati rigidamente ad una visione della realtà che non tiene conto dei cambiamenti che in essa avvengono, è un modo per procurarsi malessere (Watzlawick, 1983, pag. 13).

 

L’elogio del passato

Il tempo passato è sempre il luogo dove risiede il benessere. Qualsiasi condizione anche la più aberrante accaduta nel passato viene dimenticata per lasciare il posto ad un piacevole ricordo che, comunque, offusca il presente. L’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza sono età dell’oro rispetto ad un presente opaco e carico di gravose responsabilità. In questa analisi si dimenticano gli affanni dell’infanzia, durante la quale il dover essere regna sovrano, le vicissitudini psicologiche, fisiche ed esistenziali dell’adolescenza, le scelte, i dilemmi e i tortuosi percorsi del pensiero della giovinezza. In pratica, si situa il proprio benessere in luogo temporale dove non ha mai abitato (Watzlawick, op. cit., pag. 17).

 

L’intrigo delle complicazioni

Ci sono degli eventi che accadono e che accendono la nostra fantasia. Ogni cosa che avviene ha un movente che la determina e produce degli effetti, a cui seguono delle conseguenze. Questa sequenza si può analizzare con diverse chiavi di lettura. Esiste la chiave di lettura semplice che legge le cose che succedono in termini lineari e realistici. C’è la chiave di lettura complessa che ci porta ad indagare perché le cose avvengono, che cosa si nasconde dietro di esse, quali sono gli effetti e le conseguenze occulte. Quest’ultimo è un modo estremamente raffinato per celebrare il proprio malessere (Watzlawick, op. cit., pag. 29).

 

Le autoprofezie su se stessi al negativo

Sovente siamo noi a determinare il destino della nostra vita attraverso le autoprofezie al negativo. Avere di sé un’idea negativa equivale, in pratica, ad esserlo. Quante occasioni abbiamo perso semplicemente perché non ritenevamo di essere all’altezza di esse, avendo, in realtà, le risorse per poterle affrontare (Watzlawick, op. cit., pag. 47).

 

La non risolvibilità dei problemi

Solitamente un problema, piccolo o grande, quando si presenta ha necessità di essere risolto. Quelli più grandi hanno bisogno di essere scissi in piccoli problemi facilmente districabili. Nella risoluzione di una situazione problematica esistono delle procedure, ovvero la soluzione passa attraverso il reperimento di strategie finalizzate a questo. Probabilmente non esistono problemi, se non in numero esiguo, che non possono essere risolti. Ci si riferisce, specificatamente, alle problematiche della quotidianità. Di queste strategie di risoluzione delle situazioni problematiche sembra non abbiamo cognizione, visto come prolunghiamo nel tempo alcune di esse. E quando tutto, nostro malgrado, è risolto, creiamo un altro dilemma che ci accompagna per parecchi giorni (Watzlawick, op. cit., pag. 41).

A questo riguardo Watzlawick (op. cit., pag. 44) racconta una storia:
[blockquote style=”1″]Una vecchia zitella che abita in riva al fiume chiama la polizia per avvertirla che, davanti a casa sua, alcuni ragazzi fanno il bagno nudi. L’ispettore manda sul posto uno dei suoi uomini, che ordina ai ragazzacci di andare a nuotare più in là, dove non ci sono più case. Il giorno seguente la donna telefona di nuovo: i ragazzi si vedono ancora. Il poliziotto torna e li fa allontanare di più. Dopo un po’ l’ispettore è nuovamente chiamato dall’indignata signora, che si lamenta: “Dalla finestra della mia soffitta li posso vedere ancora con il cannocchiale!”. A questo punto ci si può chiedere: cosa farebbe la signora se i ragazzi scomparissero finalmente dalla sua visuale? [/blockquote]

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Vincenzo Amendolagine
Vincenzo Amendolagine

Medico, psicoterapeuta psicopedagogista. Insegna come Professore a contratto presso la Facoltà/Scuola di Medicina dell’Università di Bari Aldo Moro.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Freud, S. (1920). Al di là del principio di piacere (trad. A. Durante). Roma: Newton Compton (1988).
  • Jung, C., G. (1919). Istinto e inconscio in La psicologia dell’inconscio (trad. C. Balducci e M. Cucchiarelli). Roma: Newton Compton (1993).
  • Fromm, E. (1973). Anatomia della distruttività umana (trad. S. Stefani). Milano: RCS Libri (2011).
  • Watzlawick (1983). Istruzioni per rendersi infelici (trad. F. Fusaro). Milano: Feltrinelli (1987).
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