Articolo pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 13/09/2015
Di fronte alla quotidiana apocalisse di annunci catastrofici, sciagure, guerre, migrazioni, inondazioni e altri disastri, ci si chiede se questa cronaca riuscirà a elevarsi a storia, se riusciremo a imparare qualcosa da tutto questo.
L’occidente è stato spesso e fin troppo fiero di una delle sue scoperte: la storia. La capacità di dare un senso al racconto del proprio passato e la capacità di raccontarlo con precisione, uscendo dalla leggenda. Da Erodoto e Tucidide in poi ce la siamo raccontata così: noi conserviamo una memoria e da questa memoria impariamo chi siamo e cosa vogliamo essere. E impariamo anche a non ripetere gli errori del passato. Historia magistra vitae, come scriveva Cicerone nel De Oratore.
Questa passione per le storie e per la storia come insegnamento e fonte di senso si è mantenuta nel medioevo e in età moderna. Dai secoli bui ci sono arrivate le cronache di Paolo Diacono, di Gregorio di Tours, di Rodolfo il Glabro. L’illumiminismo rinnova la storia come insegnamento, il romanticismo riscopre la storia come memoria della propria identità. Conoscere se stessi e il racconto di se stessi ci dà una direzione, ci ammaestra e concede una consolazione alla nostra confusione quotidiana.
La psicologia ha ereditato questo culto della storia come tesoro da conservare e ricordare, trasformandolo in analisi della storia personale. Non solo la psicoanalisi volge la sua attenzione al passato degli individui, ma anche le psicoterapie cognitive oggi dominanti hanno una corrente narrativa ed esistenziale. La corrente narrativa in psicoterapia incoraggia il paziente alla conoscenza di sé attraverso il racconto della propria storia. La forma narrativa consente a chi la elabora di divenire spettatore del proprio intreccio, e questo genera un aumento di risorse emotive e cognitive fruibili per ristrutturare i significati (Lenzi e Bercelli, 2010).
Le cose, però, non sono così semplici. Fin dall’inizio qualcuno notò che non è così vero che il senso della storia sia solo occidentale. Platone in persona scrisse di un viaggio di Solone in Egitto e della sua meraviglia davanti ai due millenni di cronache dettagliate che quel paese vantava già allora, seicento anni prima della nascita di Cristo. Solone capì che i greci erano come fanciulli che conoscevano del loro passato solo miti e leggende, mentre gli archivisti egizi avevano registrato con precisione le date di nascita, di insediamento e di morte di faraoni che avevano regnato duemila anni prima.
Non solo occidente, dunque. E nemmeno solo storia come insegnamento e progresso oltre gli errori del passato. Accanto a questa visione si affermò una nozione più pessimistica di storia ciclica come eterno ritorno dell’uguale nella quale gli uomini tendono a ripetere eternamente gli stessi errori. Troviamo il ritorno dell’uguale nel greco Polibio e nell’arabo Ibn Khaldūn. La loro storia è raccontata presupponendo una naturale tendenza delle generazioni sedentarizzate, eredi dei conquistatori e fondatori di imperi, a indebolirsi trascinate in una progressiva e inesorabile decadenza dovuta al benessere e al modo di vita urbano.
Questa visione ha il suo corrispettivo in psicologia nella concezione dei cicli interpersonali. I cicli sono “il modo in cui la relazione con l’altro attiva circuiti che rinforzano la patologia a causa dei segnali- in prevalenza non verbali, automatici ed emozionali- che i pazienti scambiano con i loro partner in interazione” (Safran e Segal; 1990). Si tratta di strategie che il soggetto mette in atto per evitare di vivere stati emotivi dolorosi in ogni sua relazione personale significativa.
Naturalmente in psicoterapia questa nozione assume un valore progressivo. Attraverso la conoscenza dei propri cicli di relazione con l’altro l’individuo può comprenderli e, quando necessario, liberarsene e apprendere nuovi modi di entrare in contatto con l’altro.
La concezione ciclica invece non ha nulla di progressivo in storia e in filosofia. Anzi, le concezioni cicliche sono pessimiste. Pessimista era Polibio, che riteneva che il ciclo dei regimi politici andasse sempre degradandosi in ogni forma: le monarchie decadono in tirannidi, le aristocrazie involvono in oligarchie, la democrazia avvizzisce e diventa oclocrazia, dominio della massa demagogizzata.
Non vi è nulla da imparare per Polibio e per Ibn Khaldūn. Non possiamo fare altro che assistere a questo nostro affannarsi come criceti in una ruota che gira e che ci tiene prigionieri del nostro movimento illusorio che da nessuna parte ci porta.
Anche qui vi è un corrispettivo psicologico: lo stato mentale di decentramento, ovvero la capacità di guardare alle proprie esperienze interne (pensieri, sensazioni, emozioni) come a eventi transitori che non richiedono una reazione e non come dati di realtà (Mancini e Perdighe, 2012). Vi sono intere terapie fondate sulla promozione di questi stati di accettazione e decentramento. Il cuore di questi interventi non è più la modificazione dei contenuti mentali, ma il cambiamento di atteggiamento verso questi contenuti.
Si va verso una visione disincantata, in cui la storia nulla ci insegna e si apprende solo che non si apprende nulla. Naturalmente anche in questo caso la visione delle cose può diventare più complessa e si spera che proprio questo atteggiamento di accettazione meno impegnato nel proseguimento di un progresso obbligato e fuggente sfoci in un impegno diverso, un prendere atto, un atto di consapevolezza, un vedere e constatare le cose e gli eventi per come si presentano nel momento, e non come vorremmo che fossero.
BIBLIOGRAFIA:
- Lenzi, S., e Bercelli, F. (2010). Parlar di sé con un esperto dei Sé. L’elaborazione delle narrative personali: strategie avanzate di terapia cognitiva. Eclipsi, Firenze.
- Mancini F., Perdighe C., (2012). Perché si soffre? Il ruolo della non accettazione nella genesi e nel mantenimento della sofferenza emotiva. Cognitivismo Clinico, 9, 95-115.
- Safran, J. e Segal, V.Z. (1993) Il processo interpersonale nella terapia cognitiva. Milano, Feltrinelli.