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La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario

Psicoterapia: il resoconto del primo seminario sulla Disciplina Interiore del Terapeuta raccontato dai punti di vista dell'insegnante e degli allievi. %%page%%

Di Giampaolo Salvatore

Pubblicato il 03 Ago. 2015

Resoconto del I Seminario sulla Disciplina Interiore del Terapeuta

di Giampaolo Salvatore
con
Anna Maria Barbarulo, Valeria De Liso, Elisa Langone, Nicoletta Manfredi, Raffaella Marciano, Antonella Pallotta, Mariagrazia Proto, Anna Sateriale, Marianna Serio, Laura Vitagliano

 

Aveva una struttura mentale particolare,
non attribuiva molta importanza alla
propria persona: non era, ai suoi occhi,
quella creatura rara e insostituibile che
ogni uomo vede quando pensa a se stesso.

Irène Némirovsky

 

I PARTE

Il rendez vous

Spacco il secondo. Di solito sono vittima della mia urgenza di essere puntuale. Ha qualcosa a che vedere col timore di essere rimproverato. Stavolta ci si mette anche una certa tensione. Ho chiaro in testa cosa vorrei realizzare con questo primo esperimento, ma non so assolutamente se sarò capace di realizzarlo. Però immagino, un po’ infantilmente, che il punto di partenza per iniziare a realizzarlo sia rispettare il programma. La tabella di marcia del primo seminario intensivo sulla disciplina interiore del terapeuta. Che tra l’altro non suona mica male.

Dieci giovani psicoterapeute. Appuntamento alle otto del mattino. Arrivano cariche di aspettative, impazienza, curiosità e speranza. Qualcuna di loro arriva lottando contro una specie di attrito col suolo. L’inerzia frenante dell’incognita. Che fa stridere un po’ l’asfalto ma non intacca la voglia di essere lì. Nella mente di tutte il viaggio è iniziato parecchio prima della partenza:

AM: Vari interrogativi affollano la mia mente “ma la disciplina interiore del terapeuta implica autocontrollo?”… “e lo può ottenere qualsiasi persona con qualsiasi temperamento di base??”… “riuscirò a far tacere e a ridimensionare le mie emozioni vivaci e incalzanti??”…. “qual’è la giusta misura tra il sentirsi intensi sul piano emotivo e l’autocontrollo?”…quale sarà la giusta via di mezzo e come si fa a mantenerla stabile come fa lui? Un giorno l’ho paragonato a Spock, il vulcaniano di Star Trek, e da allora questo soprannome gli è rimasto. Nelle supervisioni individuali e di gruppo spesso lo stesso suggerimento “metti tra parentesi te stessa” altrimenti perdi di vista il paziente; COME SE FOSSE FACILE! E noi spesso in coro… “Spock ma come si fa praticamente?” Ed ecco il seminario esperenziale. Ha deciso di farci vedere praticamente il suo percorso, di farci vedere come lui ha imparato a mettersi tra parentesi, ad osservare la sua mente e il suo corpo senza giudicarsi severamente e a regolare le emozioni e le azioni improduttive! Potrò trasformare il mio bisogno di “verità assoluta” in una “verità pragmatica” e smettere di intellettualizzare. Due giorni intensivi in un’oasi del WWF: dormiremo insieme, mangeremo insieme ….che atmosfera da GRANDE FRATELLO! Mi sento già una delle protagoniste di una nuova serie televisiva “l’ISOLA DEI TERAPEUTI”. Come si comporta un gruppo di psicoterapeuti messi insieme per due giorni a disciplinarsi? Come allenano questa difficile funzione della mente per poi aiutare al meglio i loro clienti?

 

R: Sabato mattina ore 7.30, la partenza tanto attesa. Direzione Senerchia! Molti sono i pensieri, le aspettative “Chissà se riuscirò a dimostrare che sono brava nel mio lavoro… chissà cosa penseranno di me…. Chissà…” Arriviamo a destinazione, con un po’ di ritardo sulla tabella di marcia. Tanti sono i nuovi sorrisi… l’imbarazzo cresce e la paura di essere giudicata resta, però la voglia di apprendere è tanta!

 

AN: Non volevo partecipare al Seminario! E probabilmente non lo avrei fatto se non mi fossi sentita costretta dagli eventi … eh già, perché questa è una costante per me …. i timori di fare brutta figura, di non essere all’altezza, di essere giudicata male, di sbagliare e di perdere quell’aura di perfezione a cui tenacemente sono stata aggrappata per anni, di non riuscire ad integrarmi eguagliano e spesso superano di gran lunga il desiderio di affrontare le situazioni che mi piacciono.

 

V: Sono in auto da sola, e penso, penso.. chissà cosa ci aspetta, chissà chi ci sarà, se riuscirò a lasciarmi andare come vorrei o sarò la solita evitante che prima di lasciar trasparire aspetti di sé ha bisogno di tempo tempo tempo.. Presentazioni, saluti, baci, quanta gente.. già mi sento piccola, e che cavolo!

 

E: Arrivano Giampaolo (G.) e le altre. Imbarazzo misto a sorpresa. Il momento dei saluti. Quanto odio quei baci, quelle mani. Non so mai come comportarmi. Mi sento sempre un’impedita. Come quando sono in fila da altre parti, tipo in chiesa, seguo la massa e copio i loro atteggiamenti.

 

Senerchia. Borgo medievale che, Wikipedia insegna, esiste dal IX secolo. Cultura contadina con la schiena deformata dalla lotta quotidiana contro la devastazione della dignità; l’ultima volta, dal terremoto dell’80. Senerchia nuova è stata ricostruita accanto a quella vecchia, la città fantasma in cui si avventura qualche gatto con problemi di appartenenza. Hanno deciso che le generazioni future avrebbero dovuto avere sempre a portata di sguardo le macerie, lo sgomento, per capire cosa significhi uscirne vivi.

Le cime del Boschetiello e del Croce. Le conosco bene. Le guardavo da bambino quando giocavamo al pallone nella piazza vecchia. I portieri hanno tempo per guardare le montagne. Ora lascio che quelle cime rivolgano uno sguardo di sfuggita, distratto, all’operosità un po’ da formiche che scandisce l’ambientamento del gruppo nella villa. La concitazione per stabilire prima possibile le condizioni minime di familiarità, e sottrarre più alimento possibile a quell’angoscia serale che molti di noi provano quando sono lontani da casa, in mezzo a parziali sconosciuti (come se poi gli sconosciuti potessero esserlo parzialmente).

Tinì, la proprietaria, si fa aspettare dieci minuti tondi (secondo me apposta, per mascherare a modo suo l’ansia prestazionale che prova). Si è sempre fatta chiamare Tinì (per i più anglofoni, Tiny o Tinj), ma in realtà si chiama Concetta. Un altro pezzo della mia connessione storica con Senerchia, oltre alla mia breve carriera di portiere. Mi ha visto crescere nonostante io abbia pochi anni meno di lei.

Siamo sempre noi che decidiamo chi ci vede crescere, per poi dire in sua presenza, a qualcuno da cui vogliamo farci conoscere un po’, “mi ha visto crescere” (Spesso qualcuno dice di noi a qualcun altro “l’ho visto crescere” e a noi dà fastidio perché non lo abbiamo deciso noi). Comunque, Tinì. I suoi cinquantun’anni non l’hanno privata di quella capacità che ha da quando ne aveva quindici: la simulazione autoironica della vezzosità. Efficacissima per mettere da subito a proprio agio le persone. Per disinnescare sul nascere qualsiasi predisposizione dell’altro (soprattutto, dell’altra) all’agonismo. Mi sfotto – e mi ci diverto – dicendo che siamo in ritardo di ventitré minuti e quattordici secondi sul programma.

 

L’introduzione

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 1

Ho quattro cose da trasmettere al gruppo prima di iniziare:

a) che la disciplina interna non è come il dialogo socratico, una tecnica che si può applicare quando serve; quando un paziente difficile lo rende necessario (che so, perché ci fa saltare i nervi, sentire incapaci, impotenti, privi di valore, non amabili, ecc.); al contrario, solo se è un assetto interno costantemente coltivato dal terapeuta attraverso un percorso personale funzionerà quando serve col paziente difficile;

b) che quello che cercheremo di fare insieme funzionerà solo se compiremo insieme una virata radicale dalla dimensione del giudizio su noi stessi e sugli altri a quella dell’accettazione equanime di sé e dell’altro e della condivisione; per cui da questo momento in poi sarà tutto concesso; qualsiasi manifestazione emotiva (piangere, ridere, andarsene, arrabbiarsi con me, arrabbiarsi e basta, fare la pipì in pubblico, ecc.);

c) che non sono lì per insegnare; insegnare implicherebbe, almeno idealmente, che chi insegna fosse giunto alla fine del percorso che si accinge a insegnare; piuttosto sono lì per mostrare la strada che io seguo quotidianamente per tentare di funzionare meglio con i pazienti; poi loro sceglieranno se fa al caso loro e se approfondire;

d) che seguire una strada del genere significa sapersi guardare continuamente allo specchio e ammettere con umiltà quando da quella strada ci si allontana, per poi, se possibile, riprenderla.

La via più diretta verso questo quadruplice scopo è essere il primo a mettersi in gioco:

 

 

R: Tavolo, lavagna improvvisata, introduzione teorica… e a un tratto, inaspettatamente avviene una condivisione importante, carica di emozioni forti e di aperture profonde, la sua forza è tale da sgretolare una parte del mio muro di pregiudizio. Inizio a stare a mio agio, anche se ancora avverto molta confusione dentro di me…

 

AM:Silenzio, attenzione condivisa su un caso clinico complesso di Spock: i suoi interventi sono chiari e mirati ma il paziente chiuso nella sua sfida a demolirlo non li coglie; lo conosco e so quanto è bravo a tollerare anche pazienti cosi ostili, ma questa volta la mia attenzione è rapita da un colpo di scena inatteso: cambia la prosodia della sua voce, non ha più il solito tono rassicurante e di apertura all’altro, alza il tono e il volume della voce in un confronto dialettico e critico…non sono abituata a vedere Spock arrabbiato…..per un momento mi disoriento….lo sta cacciando fuori dallo studio?…si lo ha cacciato, non lo vuole piu vedere! Respiro, sono stupita e commossa! Bravo Spock, mi sei piaciuto!…..la distanza emotiva che spesso avvertivo si riduce…lo sento più vicino, mi sento più in sintonia con lui! Subito dopo, mentre spiega e parla anche di se e della fase di vita in cui ha visto quel paziente, mi diventa molto chiaro cosa significa conoscere le proprie aree di vulnerabilità, gli stati contingenti del terapeuta, lo scenario interiore e l’agire le azioni improduttive! Tutto molto più chiaro! Osservo gli altri, mi rivedo nei loro sguardi, sento in maniera molto forte che siamo di nuovo accomunati dalla stessa emozione di stupore e affetto per lui! Si è strutturata la coesione del gruppo, anche se non ci conosciamo bene, abbiamo tutti noi qualcosa in comune con lui; è il nostro comune denominatore e ci riconosciamo in lui e tra noi. Questo rispecchiamento mi piace, mi perdo e mi ritrovo nello sguardo e nelle parole degli altri, è una bella sensazione, è come se nessuno dicesse qualcosa che sento “fuori posto”, avverto una strana libertà di espressione e di movimento.

 

AN: La premessa di G….”dobbiamo fare esercizio di sospensione del giudizio”! Il primo a mettersi in gioco è proprio lui quando ci fa ascoltare la registrazione di una seduta con un suo paziente durante la quale si mostra ben diverso dal terapeuta perfettamente disciplinato e imperturbabile che siamo abituate a conoscere. Lo stupore è generale. Non riesco immediatamente a sospendere il mio giudizio. Nella mia testa si affollano domande sul motivo per cui si sia arrabbiato tanto e sul perché non sia riuscito a controllarsi… A molte delle mie riflessioni danno voce i miei compagni e le motivazioni più profonde vengono espresse. Ciò che mi colpisce, tuttavia, è il clima sereno con cui G. si sottopone al fuoco di domande. Sembrano essersi scambiati i ruoli, non so più chi è il supervisore e chi il supervisionato. Non vedo in lui la paura di mostrarsi inefficace, vulnerabile o infallibile come terapeuta e come persona (come accade spesso a me e a molte delle mie colleghe) e ciò mi rassicura perché mi offre un esempio di come essere “bravi” non sia sinonimo di essere “perfetti”. E poi lo sento davvero vicino, come noi….un amico che può capire come ci sentiamo quando sbagliamo e preda delle stesse violente onde emotive.

 

MG: “Osservare se stessi, spostandosi coscientemente dal giudizio alla condivisione”. Di supervisioni di gruppo ne ho fatte tante, ma per la prima volta sento dentro di me un clima interno favorevole per prendere le distanze dall’assetto giudicante. È il momento della famosa registrazione. È lui il primo a mettersi a nudo, mostrando anche la sua di vulnerabilità. Vedo lui e sento che nei giorni a venire potrò fare lo stesso e superare un mio limite…per un istante mi sento più serena, tranquilla in quel luogo.

 

N: Il passaggio dal giudizio all’accettazione. G. da subito ci mostra la sua vulnerabilità… una seduta audioregistrata in cui trova spazio la parte umana del terapeuta…sento il suo dolore. Mi risuona la mia voce interna “ti prego fermati!”… Accettare la sofferenza emotiva diventa l’unica per l’autodisciplina … forse per la prima volta nella mia vita ho sentito che la rabbia è davvero l’espressione del dolore …

 

E: …la sua spiegazione sul valore di sé e sull’amabilità come dimensioni fondamentali che il terapeuta sente spesso messe in pericolo mi rispecchia appieno. Io lo vivo in modo costante da sempre. È il momento della sua registrazione. Che paura quando lui grida rivolto al paziente. Quando G. gli dice che il giorno prima era morta sua madre mi sento triste. Penso subito “anche G. ha perso sua madre come me”. Il mio pensiero va a lei, a quanto è difficile far finta che tutto vada bene, al male che in vita le ho procurato, al mio immenso senso di colpa…A un certo punto interviene Tiny. Penso “che c’entra questa donna con noi? Perché si intromette”. Poi mi fermo e dico attenta al giudizio, aspetta. In realtà questa donna fa delle uscite inaspettate, ma non è inopportuna, solo schietta, dice quello che vuole nel momento in cui lo sente. Che scoperta! Sarebbe bello parlare senza cercare di anticipare l’effetto che potrebbero fare le proprie parole sugli altri.

 

A: G. è il primo ad esporsi…non immaginavo una rabbia così intensa… Mi parte l’accudimento e penso a quanto sia stronzo il paziente….poi mi distacco dal giudizio sul paziente, d’altronde mette in atto il suo funzionamento, e vedo la sofferenza di G. e come quanto anche lui sia umano…come anche lui nei momenti difficili può sbagliare, ma resta pur sempre una “guida” ….per un attimo provo il mio dolore di qualche tempo fa e mi viene in mente il giorno in cui ero devastata e scelgo comunque di vedere pazienti….m’interrogo sul perché avessi scelto di vederli…sulla mia necessità a volte di far la “super donna”, quella che non si può far perturbare dal suo dolore, anche se le casca il mondo addosso, per non apparire fragile e debole, …che si corazza nel suo dolore ed esternamente appare fredda e distaccata…G. ha sbagliato, lo riconosce ed utilizza questo errore come materiale didattico….mi si apre un mondo….il clima di gruppo diviene sempre più vivo.

 

V: Non poteva esserci premessa migliore.. ora ho il permesso di essere così come sono (o almeno lo credo). Grazie. È quello di cui ho bisogno, sento un’energia che mi dà il permesso, un’energia proveniente da G. e da tutte loro. Penso che pur non conoscendoci abbiamo già tante cose in comune; il percorso di studi, gli anni di specializzazione, la scoperta graduale di noi stesse, i primi dubbi sulla professione, il bisogno di rivolgerci a una guida; e poi siamo qui, tutte a Senerchia, in questo luogo immerso nel verde, tutte con la voglia di scoprire cosa questo seminario ci regalerà; tutte attente, desiderose di imparare, capire, riuscire.

 

CONTINUA

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II PARTE

Tai chi chuan

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 2

Ricordate la premessa (si veda I parte)? Non sono qui per dispensare soluzioni universali, ma solo per mostrare loro i miei metodi per affinare la disciplina interna; li indosseranno, valuteranno come li sentono addosso, e poi sceglieranno).

Ho sperimentato che per affinare la disciplina interna la mente deve essere aiutata a ricordare il potere che il corpo ha su di lei. Anzi, per dirla alla Damasio, il cervello deve essere aiutato a ricordare il potere che su di lui ha il resto del corpo. Quanto chi kung e tai chi siano potenti per questo processo l’ho già descritto in questa sede (si veda il post “Arti marziali e benessere psicologico; I e II parte”). Ho descritto anche come la scienza occidentale riporti risultati sperimentali sempre più stringenti sul loro potere terapeutico e preventivo.

 

Insegno loro le basi essenziali della respirazione taoista, o diaframmatica inversa. Faccio loro sperimentare cosa significhi pacificare la mente attraverso questa potentissima forma di respirazione; spostare la mente dalle sue stanze abituali, spesso stagnanti nell’odore di chiuso, all’addome, il punto da cui il respiro nasce, muore, rinasce; far scaturire dalle alterne, lente fasi del respiro, ogni movimento; essere in costante, impercettibile movimento anche quando apparentemente fermi, e fermi, centrati, radicati, anche nel movimento più rapido ed esplosivo.

Non pretendo che imparino in due giorni, ma che osservino, così che nella loro mente simulante si riattivi una connessione posseduta ma andata in disuso. Col tempo potrebbero comprendere che si può provare a essere centrati, fluidi, potenti, essenziali come nel tai chi anche al cospetto del paziente.

 

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 4

AM: Aiuto, il corpoooo? Questo sconosciuto che spesso trascuro e ignoro! E’ il momento del TAI CHI che ci aiuterà a imparare la respirazione al meglio, strumento essenziale per gestire l’intensità degli stati emotivi! Tutti noi osserviamo Spock affascinati: esegue una serie di movimenti lenti e circolari che sembrano una danza silenziosa ma in realtà mimano la lotta con un opponente immaginario. I movimenti sono coordinati con la respirazione. Ci chiede di ripeterli con lui, è paziente e incoraggiante; é difficile, ma ci impegniamo al meglio, ogni tanto ci guardiamo divertiti e interrompiamo il movimento con chiassose risate…è rilassante non giudicarsi e guardarsi con benevola ironia.

 

N: è il momento del Tai chi… un cerchio disegnato dal gruppo nel verde… i movimenti di G., lenti ed estremamente coordinati… mi arrabbio come sempre con me stessa quando non ci riesco…poi la respirazione… La dolcezza del corpo in pace con la propria mente… è un’apertura tra il mondo e te stesso…. fra te e l’altro… non penso per una volta… mi piace…

 

R: Il corpo come mezzo per accarezzare la propria anima, il corpo come strumento per disciplinarsi. Ecco, movimenti strani, apparentemente non naturali… Tai Chi… boh! da subito l’ho vissuto come una cosa totalmente lontana da me, essere goffo, impacciata nei movimenti, non elastica…davanti ai miei occhi solo i miei limiti! E succede di nuovo, si crea un clima di condivisione ed accettazione… la pratica, l’esempio diretto mi guidano verso il modo giusto di vivere il mio corpo… per la prima volta mi sono esercitata insieme ai miei stessi limiti… e ad un tratto quelli che sembravano insormontabili sono spariti… non sarò Bruce Lee, ma nemmeno Gamba di Legno!

 

A: “Forse è meglio mi metta dietro”…. “Sono troppo alta, coprirò la visuale e tutti saranno concentrati sui miei movimenti goffi”….pian piano scopro questa nuova disciplina e penso riuscirò mai ad imparare qualcosa? In fondo ho visto da spettatrice diversi allenamenti di arti marziali, ma non mi sono mai reputata capace di eseguire quei movimenti…Comincio a muovermi, mi sento un po’ impacciata…mi lascio guidare dal respiro, ma gli arti sono del tutto privi di coordinazione…smetto di giudicarmi e continuo a provare…poi provo a lavorare con L. La vedo molto concentrata, la seguo…ma ad un certo punto non sono più attenta alla prestazione, ma al piacere di condividere l’esercizio con lei…

 

E: Mosse strane. Io non so fare niente. Di fianco ho MG., la vedo più brava di me. Glielo dico e lei mi confessa che in realtà non fa molta attività fisica. Qualcosa cambia. L’atmosfera muta. I movimenti sono strani per me e non li ho mai fatti. Non mi sento più giudicata. Anzi rido insieme agli altri per gli sforzi che facciamo tutti. Negli esercizi in coppia io sono con R. Quante risate… Sono imbranata, ma non mi pesa esserlo.

 

MG: Durante l’esecuzione vengo ipnotizzata dai movimenti precisi e calmi che un corpo umano è in grado di eseguire, trasmettono pace anche in chi semplicemente osserva. Mi impegno per quanto mi è possibile, di tanto in tanto mi distraggo, incrocio qualche sguardo e rido per poi ritornare concentrata.

 

M: L’armonia. I corpi leggeri ed armonici si muovono nello spazio. I corpi si muovono con il tai chi. I piedi, le gambe, le mani, il bacino, l’anca spostano delicatamente l’aria e generano energia. Non importa il saper fare, fai. Osservo il mio corpo, la fatica che ne deriva e i miei limiti. Siamo noi, siamo tra noi.

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 3

 

Supervisione I

Emmanuele Carrère è uno scrittore francese che ci tiene molto a dichiarare sempre “da dove parla”, “da dove scrive”. E si tratta sempre di luoghi interni. Di fasi storiche del sé. I suoi romanzi si richiamano continuamente l’uno con l’altro, come per mantenere attivo un sottotesto autobiografico che prescinde dalla trama narrativa contingente. Il risultato è che se leggi tutti i suoi romanzi capisci che attraverso la scrittura questo autore ha cercato di capire chi è nonostante i suoi molteplici radicali cambiamenti nel tempo; e nonostante lui sia uno scrittore geniale e noi no, ti fa sentire nella stessa barca con lui rispetto alla frustrazione che può derivare da questa ricerca. In un paio dei suoi romanzi Carrere cita un sutra buddhista che fa capire essere stato importante per la sua maturazione:

“Chi crede di essere superiore, inferiore, o uguale a un altro essere umano, non capisce la realtà”.

Non so se qualcuno di loro abbia mai letto questa frase, ma mentre sediamo attorno al tavolo si comportano come se ne comprendessero il significato. Ci sentiamo indubbiamente ‘nella stessa barca’, liberata della zavorra del giudizio percepito, dalla credenza cancerosa (spesso non errata) che si insinua negli interstizi dei rapporti umani: ‘il mio errore, e l’infelicità che ne consegue, renderà sottilmente felice l’altro’:

 

AM: Propongo il mio caso; non è la prima volta che parlo di questo paziente, è un caso complesso che Spock mi ha spinto ad accettare: dice che impariamo a disciplinarci meglio accettando la sfida a risolvere i casi che ci spaventano. La psicosi l’avevo studiata bene dai libri ma gestirla nello spazio di terapia è tutt’altra cosa. Spock aveva ragione, alla fine mi sono molto legata a questo paziente che mi mette cosi a dura prova sull’efficacia terapeutica. Evidenzio un momento di stallo, in cui provo dispiacere rispetto ad una regressione del mio paziente e mi chiedo ‘perché non mi tiene presente nella sua mente quando si sente spaventato’…..e qui, all’improvviso, si introduce nella mia mente una scena di me piccola che si sente sola e non vista….cerco di reprimerla, ma ritorna..Spock mi aiuta ad esprimerla. Mi imbarazzo, ma questa volta cerco di abitare questa sensazione e di superarla. Lei entra, gli altri l’accolgono in maniera cordiale, io la osservo con benevola ironia, non sorrido per distanziare il dolore ma per accoglierlo senza drammi. Incrocio lo sguardo di An. e A., che mi guardano con tenerezza, e il loro sguardo mi incoraggia a non vergognarmi della mia parte vulnerabile. Cercherò di preoccuparmi meno di essere nella mente del mio paziente e di trovare un modo per farlo sentire meno compreso, cosi come sarò più benevola e comprensiva rispetto alla mia parte vulnerabile e alla mia storia. Le osserverò in maniera indulgente e la metterò tra parentesi! Poi tocca a M. Anche lei presenta una caso tosto e un momento terapeutico durissimo: il paziente in seduta non parla, lunghi silenzi in seduta, M. cerca argomenti condivisi, ma niente! Che angoscia, come la capisco! ….mi sembra che abbia gestito al meglio quel silenzio insopportabile ma Spock incalza anche con lei….e anche M. ci presenta la sua parte vulnerabile. Wow, due psicoterapeute dal temperamento diverso, due pazienti diversi, due momenti terapeutici diversi, ma lo stesso processo mentale. Tutto più chiaro Spock!….piano piano i miei quesiti cominciano a trovare la loro risposta.

 

M: Semplicemente mi sento parte del gruppo. Parlo del paziente ma in realtà parlo di me. Sento silenzio dentro e fuori di me, nessun giudizio. Non c’è spazio per il giudizio.

 

MG: Tutti intorno al tavolo, Am. inizia a descrivere il suo paziente. G. la porta al nucleo personale. Il desiderio di essere importante per il suo paziente; più in profondità, la paura di non essere importante per l’altro. Mi fa tenerezza perchè leggo il bisogno di affetto che è anche il mio.

 

E: Supervisione. Ascolto quella di Am. Mi ricordo del mio primo paziente, schizofrenico. Poi piano piano mi distacco da questo pensiero, mi concentro su Am. e sulla sua esigenza di essere vista. È molto simile alla mia, la sento vicina. È la volta di M. che con voce tremante esprime la sua difficoltà con il suo paziente. Quando racconta di sé e del suo imbarazzo vedo un pezzetto di me, di tutte le volte che mi sento diversa e mi piacerebbe fare parte del gruppo, la tristezza di essere l’ultima di tre figli che vive all’ombra del principe.

 

A: Ecco comincia il lavoro di supervisione… “Io chi porterò…boh….ascolterò gli altri, sicuramente non parleremo tutti”…è Am. lei a rompere il ghiaccio. …nella sua esposizione ci fa sorridere continuamente….mentre parla ci guarda, come a chiedere di essere sostenuta…la osservo con tenerezza….e mi rendo conto che anche lei ha le sue paure come me….la vedo nelle sue fragilità e la sento sempre più vicina …La parola passa poi a M.…delle volte mi vedo un po’ come lei…ho paura di espormi, di non dire la cosa giusta….poi G. ci chiede un feedback della giornata….ecco il mio turno… “Che dico ora? Quello che sento”…ma ad un certo punto mentre parlo mi trema la voce per il significato che quei contenuti hanno per me, sento un brivido nel corpo, lo riconosco, ma riesco comunque a dire quello che volevo.

 

AN: Il focus è centrato su di noi. La paura di dovermi esporre, di dover lasciare quel posto sicuro costituito dai miei silenzi e dal mio “saper ascoltare” per timore di essere giudicata, derisa o forse semplicemente perché é più semplice mantenere il proprio fragile equilibrio se a parlare sono gli altri. E invece, con mio stupore, mi ritrovo ad ascoltare pezzi della mia storia in ciascuna di loro: nella difficoltà di M. di integrarsi nel gruppo dei coetanei, che mi riporta a tutte le volte che è accaduto a me in passato, o forse ancora oggi, sebbene sia diventata molto brava a dissimulare; nel desiderio di Am di essere pensata dal suo paziente che, anche se per motivi diversi, fa parte del mio vissuto. Rivedo me stessa, le reazioni che ho con i pazienti e provo un sentimento di vergogna e senso di colpa perché spesso anch’io non mi sintonizzo con loro a causa delle reazioni emotive che mi suscita il contatto con i loro stessi sentimenti o atteggiamenti e che mi fa reagire “contro” di loro. Ma, d’altro canto, sono umana, così come le mie colleghe, e mi conforta il pensiero di condividere con loro molte ansie, preoccupazioni e temi di vita.

 

N: Discussione sui casi… il clima è aperto… Am. per prima, poi M. Esprimono le loro difficoltà con due pazienti difficili perché attivano in loro i propri bisogni preesistenti e all’improvviso dentro di me cambia tutto… non solo sento il loro bisogno ma per la prima volta rintraccio il mio … mi sposto sul loro piano provo a rappresentarmi cosa si sarebbe attivato in me con quei pazienti e capisco…mi viene alla mente una scena con una mia paziente… domani ne parlerò… le ringrazio senza di loro non ce l’avrei fatta…

 

Dormiamo pochissimo perchè a cena tiriamo fino a tardi. Tiní ha tenuto banco raccontando aneddoti su senerchiesi illustri, gli stessi che raccontava suo padre, “o’ prufessor'”, mio padre di riserva (anche se il titolare se la cavava benissimo). Ha anche raccontato di me da piccolo. La scalata interna dell’atleta per soppiantare il nerd. Sull’aneddoto della mia prima comunione contornato da quattro damigelle il gruppo tocca l’estasi:

 

AM: E’ sera, siamo tutti un po’ affaticati nel corpo e nella mente…mi piace questa sensazione di fatica…mi fa sentire il momento del pasto un ristoro meritato. Conversiamo in maniera sciolta e fluida e sembriamo tutti stupiti e divertiti dai racconti di Tinj sulla vita di Spock. Ci svela particolari anche intimi della sua giovinezza in maniera naturale e spontanea. Tinj comunica senza filtri, i suoi schemi di pensiero cosi liberi, si incastrano pienamente col tema della giornata. Sospendere il giudizio e lasciar fluire la mente. Osservo Spock e non mi sembra infastidito dai suoi racconti, sembra quasi divertito, avverto che sono uniti da un affetto storico molto solido.

V: Nottata di insight!

 

La domenica mattina, alle 6.30, vedo un gruppo di zombie riacquisire in mezz’ora qualità umane.

Dopo l’allenamento mattutino di tai chi e la colazione mi osservo pensare che il seminario sta andando benissimo. Molti sorrisi pieni. Mi vengono in mente frasi da animatore turistico, tipo ‘ehi ragazzi, sento un’energia positiva (tre punti esclamativi)’ , che però non dico, perchè mi hanno sempre fatto venire i nervi quando le ho sentite dagli animatori turistici che ho subìto nella vita.

Poco dopo succede una cosa. Ricevo una notizia tragica. Realizzo quanto quello che sta succedendo – una combinazione semplicissima: qualcosa va benissimo mentre qualcos’altro malissimo – sia una versione concentrata, iperbolica, quasi caricaturale, della realtà delle cose. Mi viene sbattuta in faccia l’applicazione pratica di uno dei contenuti più nucleari tra quelli che cerco di trasmettere in questo seminario: un successo significativo e il più tragico dei fallimenti sono la stessa cosa; entrambi non ci accadono, accadono e basta. Come se un testimone dicesse: ‘vuoi insegnare roba del genere, ma sai veramente di che parli?’. Andare fino in fondo è l’unico modo per capire se so veramente di che parlo.

CONTINUA

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III PARTE

La cascata

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 7

Il torrente Acquabianca alza sempre più la voce man mano che ci avviciniamo a quella spaccatura del monte che crea la cascata. Trenta metri di forza pura, inconsapevole di sé. Il gruppo mi segue in silenzio. Hanno paura della cascata. Di quello che immaginano proveranno. Ci sono passato. Freddo, paura, vergogna, panico. Hanno paura di quello che immaginano. Come quando sono davanti a un paziente difficile che li porta a immaginare di non valere o di essere non amabili. Penso di nuovo ‘siamo nella stessa barca’, anche in questo preciso momento. Anche io ho paura. L’unica differenza è che io ho paura che oggi la cascata non mi basterà. Poi osservo questa paura mentre cammino. Arriviamo. Conosco l’effetto che fa a chi la sa ascoltare e guardare. Il dono spiazzante, che non ti aspettavi:

 

E: Scene indimenticabili. Pietre enormi. Il rumore dell’acqua che scorre. Che pace. Tutto è grande. Mi sento piccola. Quello che vedo mi piace. Attraversiamo l’ultimo ponte. Ecco la cascata. Bisogna attraversare un tratto d’acqua breve, ma non è difficile come me lo immaginavo. G. ci mostra come fare. Ci dice di urlare e “tirare fuori tutto”. Lui va per primo e poi resta fermo lì. C’è per ciascuno di noi. Io mi metto dietro a V. Ci sosteniamo l’un l’altra. Sento un’energia dentro. È il mio turno, mi avvicino e mi immergo. Vedo la luce dell’arcobaleno. È bellissima. Urlo anche se è un urlo strozzato. Sento la mano di G. che m’invita a rimanere ancora lì. Resisto un po’. Mi volto e non sono sola. Lui c’è per aiutarmi e ci siete anche voi compagni di avventura. Riprovo di nuovo ad andare. Ora è diverso. Lo faccio per sentire ancora.

 

N: Zainetto in spalla siamo all’ingresso dell’oasi…gli scorci che si presentano ai miei occhi devo racchiuderli in fotografia. Resteranno per sempre con me…quelle rocce immense da cui respiro la brezza dell’aria pura e austera mi sostengono…la fermezza è nella mia mente. Finalmente la cascata tanto attesa. G. si avvicina alla cascata. La sua postura ferma con le braccia bloccate, la guarda con le spalle rivolte a noi. Lì capisco: ‘Cascata aiutami, svuotami’. Lui per primo ci insegna ad avvicinarci… l’urlo per anestetizzare il freddo, la calma per essere un tutt’uno con essa….lo seguo e mi sento forte, viva, libera… dopo di me uno dopo l’altro l’euforia di ognuno sostiene il prossimo, cresce la condivisione … fortissimo il mio abbraccio con Mg. L’esperienza che ci stringe …più unite di prima… io e Mg. riproviamo…questa volta senza paura.

 

MG: Ho le gambe doloranti, ma sono emozionata per la tanto attesa cascata… “se mi fa paura posso anche non farlo, anche questo sarebbe un atto di coraggio”. Cammino lungo la valle, dietro a quell’uomo che a volte vivo come schivo, ma che per me è un gigante buono. Sono un passo dietro di lui, nel silenzio, solo il rumore dei nostri passi e dello scorrere dell’acqua. Vedo lui cosa fa e nel suo urlo mi sento un po’ sollevata. Poi la mia mano viene stretta, sorretta, sostenuta, incoraggiata…io non saprei rifarlo un urlo come il suo, però sotto quella cascata ho urlato il mio dolore e mi sono sentita piacevolmente svuotata e poi compresa, accudita, amata da quella montagna. Infreddolita, ho cercato riparo per poi ritrovarmi in un emozionante abbraccio con N.

 

A: All’Oasi ci si para davanti uno scenario incantevole…osservo il paesaggio, respiro aria di tranquillità, mi sento rilassata…ogni angolo sembra una nuova scoperta…è imponente, decisa …solo ad osservarla diffonde energia…ci spogliamo per preparaci alla nostra esperienza…mi avvicino timorosa, sento freddo…ho paura di non riuscire…sono in fila…osservo il gruppo e l’urlo di ciascuno diventa un po’ il mio…solo quando giunge il mio turno mi accorgo di essere l’ultima…ma c’è già qualcuno pronto a farlo di nuovo…mi dico “dai forza” e vedo la mano di G. tesa verso di me…è proprio il mio turno…mi affido a quella mano e mi lascio andare…è un momento unico, meraviglioso …difficile da mettere in parole…improvvisamente non ho più freddo, sento l’acqua attraversare tutto il mio corpo, come se mi “ripulisse” anche interiormente di tutti quei pensieri e sciocchi timori che attraversavano la mia mente…mi sento svuotata, finalmente libera con una potente sensazione di leggerezza …mi volto verso la mia sinistra e trovo ancora lì quella mano tesa…e poi i volti elettrizzati dei miei compagni di viaggio… sento quanto sia emozionante lasciarsi andare e ritrovare comunque gli stessi punti di riferimento lì ad aspettarmi, a sostenermi ad incitarmi…sento l’energia di quella cascata e mi sento un tutt’uno con essa.

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 5

L: …quando ci siamo uniti tutti con gli occhi chiusi vicino la cascata. Piena di paura serro le palpebre e comincio a respirare, tremo per il freddo che arriva da lei. Sento il suono sferzante dell’acqua che cade violenta e libera goccioline che come cristalli di ghiaccio raggiungono la mia schiena. Mi lascio trasportare dal freddo e dallo spaventoso suono… e improvvisamente il miracolo, non percepisco nè il freddo nè la paura. Tutto è scivolato via e senza timore abbraccio e mi lascio abbracciare dalla cascata.

 

R: Ecco l’acqua scendere ed attraversare il mio corpo, portandosi via un po’ di quella fuliggine che mi opprime il petto. Non c’era freddo, non c’era più nessuno…. Io, il vuoto calmante della mente e l’abbraccio dell’acqua…Esci e ritorni alla realtà, ritrovi la stessa mano che ti ha mostrato la giusta strada guidandoti … e guardi negli occhi dei tuoi compagni di avventura e non c’è più bisogno di parlare…Ora si, mi sento pronta a condividere parte di me… il mio muro del pregiudizio è sparito!

 

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 8

 

AM: Stranamente non ho paura, mi sento unita alla volonta degli altri, è come se non fossi io a decidere ma il gruppo e non posso trasgredire al patto di metterci alla prova, di sperimentare nuove sensazioni, sento che siamo tutti uniti in un vortice di coraggio contagioso e potente. La forza della natura, la forza di Spock, la forza del gruppo. Ce la posso fare, voglio far parte di loro fino in fondo. Inizia lui, la forza del suo corpo si confonde con quella dell’acqua in un urlo acuto e liberatorio che ancora mi sembra di sentire; l’adranalina sale, il coraggio aumenta, è il turno di N. poi Mg, poi M. Mi nutro del loro coraggio, l’adrenalina continua a salire, mi sento forte…vado…mi avvicino….sento la mano di Spock che con delicatezza mi trattiene sotto l’acqua, è fredda, violenta ma incredibilmente piacevole….urlo e cerco nel vuoto il suo sostegno per uscire. Mi sento forte, soddisfatta! Non dimenticherò più quella scena, sarà uno dei miei posti sicuri nella mente e potrò richiamarla ogni volta che avrò paura e starà li a ricordarmi che non sono sola e che ce la posso fare! Tutti abbiamo una strana voglia di farlo ancora, abbiamo gia dimenticato tutti i nostri timori; sono affascinata dal potere di questa unione natura-gruppo alla guida di un uomo coraggioso. Dimentico il mio imbarazzo per il costume e mi stendo al sole tranquilla, quasi incurante degli sguardi altrui, sono troppo concentrata sulle mie sensazioni, sento il fresco del costume ancora bagnato, il sole che mi accarezza il corpo affaticato ma stranamente vigoroso, il silenzio interrotto solo dal rumore della cascata e da qualche voce in sottofondo, l’odore del verde. Spock è dentro e fuori la scena, in dei momenti è con noi sul ponte a lasciarsi scaldare dal sole e in altri è solo su una roccia immersa nel verde in una posizione da osservatore distaccato. Facciamo la foto di gruppo sul ponte. Stupenda. Resterà anche lei nella mia mente come esempio di piena condivisione ed unione per un obiettivo comune.

 

AN: Da principio non riesco a fidarmi….già, perché è sempre una questione di fiducia….che sia un’attività davvero utile alla nostra crescita personale ma anche che non sia pericolosa…ma ad un tratto il mio sguardo incontra quello sorridente di G., che mi comunica sicurezza. In sottofondo le mie compagne urlano a gran voce “Anna Anna Anna…” . Mi incitano come fossi un atleta durante le Olimpiadi, come ho visto fare tante volte alla Tv, e penso “non posso deluderle” anche se ho paura. Le loro voci mi sostengono, prendo la mano di G. e sono sotto la cascata ghiacciata…intorno è solo fragore quasi assordante dell’acqua. Riesco a sentire il mio respiro che sembra rimbombare. Apro gli occhi e mi sorprendo a scorgere un arcobaleno sulla parete…è bellissimo con i suoi colori intensi. Mi lascio avvolgere da quella pace e non sento più il freddo dell’acqua. Mi sembra di non sentire nulla oltre al respiro e mi sento piena, carica, felice.

 

V: Non ci sono più dubbi, non ci sono paranoie, non c’è più nessuno.. ci sono io negli altri e gli altri in me. E tutte fuse con la spettacolare natura che ci circonda. Siamo lì sul ponte, tutte ferme, nella pace e nel relax più assoluto. Il sole ci scalda e ci asciuga, il suono della cascata ci accompagna, la guardiamo e ora è nostra amica, piccola, calda.

 

La disciplina interiore del terapeuta – Resoconto dal primo seminario - 6

 CONTINUA

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IV PARTE

Supervisione II

 

Per l’ultima volta attorno a un tavolo, a parlare di sé attraverso il racconto dei pazienti. Alla cascata è successo qualcosa. Qualcosa ha fatto un click dentro. Avrà bisogno di tempo per essere elaborato, trasformato in concetti da scambiarsi, ma questo non gli impedisce di agire:

 

R: Dopo la cascata sono pronta a buttare fuori ciò che provo… ciò che sento.. finalmente riesco a chiedere aiuto… Lì succede una magia, individui diversi per carattere ed esperienze di vita, si sintonizzano su di me… sulle mie emozioni con estremo tatto e delicatezza… accolgono la parte di me che temo di più, che cerco di nascondere disperatamente, mettono fuori gioco la facciata della donna acida, stakanovista… quella che non ha bisogno di nessuno, per lasciar emergere la mia parte fragile ed estremamente delicata. E proprio come la cascata, ho buttato tutto fuori una piccola parte di quel dolore, di quella rabbia che non mi permetteva di ritrovarmi. Mi ritrovo imbarazzata, ma con la sicurezza di avere tante mani pronte a sorreggermi… una sensazione unica, potente… leggerezza, serenità! La potenza della condivisione incondizionata, dell’accettazione di sé e dell’altro, non c’era più differenza, l’emozione dell’altro diventa un po’ tua.

 

N: Rientriamo…il tempo di pranzare e poi intorno al tavolo a discutere dei casi è il turno di R. Una paziente le ripropone continuamente in terapia la sua devitalizzazione proprio quando lei si sente allo stesso modo… il dolore bloccato, e che ti blocca, perché per esprimerlo hai bisogno che prima qualcuno si occupi del dolore di tua madre. Poi tocca a me. La scena di una mia paziente che si mostra bambina, dipendente, incapace di reagire, mi riporta alla mia infanzia. Due scene, le più dolorose. Capisco la mia rabbia, abbraccio me stessa…per la prima volta mi sento vista per quella che sono e ringrazio tutti per avermi accolta.

 

MG: Da ieri osservo R., non la conosco, ma sembra sofferente, ripete spesso di sentirsi devitalizzata ed ora ne capisco il perchè…parla, si commuove e sulla mia guancia scorre una lacrima. So molto bene cosa prova, quel senso di impotenza che ti logora e ti spegne. Nella mia mente un susseguirsi di immagini di vita vissuta, chiudo gli occhi.

 

E: R. parla della sua devitalizzazione. Fa uscire tutta la sua sofferenza. Cerco di starle accanto. È dolcissima. Mi dispiace troppo che stia male. So che però questo in quel momento le serve per poter stare bene. Poi N. parla del suo caso, ma soprattutto di lei. Dietro a quella facciata da dura esprime la sua fragilità. Anche lei come me ha avuto una mamma depressa. Che dolore…Osservo come G. ci aiuta a riflettere su di noi e centrarci su quello che sentiamo.

 

AN: Basta che R. apra una piccola finestra sulla sua storia perchè in un attimo ci sentiamo tutte figlie della stessa madre malata ma combattiva. Siamo tutte R. e sentiamo tutte il suo dolore farsi largo nei nostri cuori. Dice di vergognarsi di piangere ma io vorrei dirle soltanto “grazie” perché non si può far altro che essere grate ad una persona che ti permette di vedere la sua parte più fragile e sceglie di farsi consolare dal gruppo piuttosto che viversi il dolore in uno sterile isolamento. Come solita fare io del resto, per non dare fastidio, per non essere un peso nelle giornate degli altri o per sembrare più forte di ciò che sono. Come se la forza o la debolezza dipendessero da quanto riusciamo a controllare e dissimulare la nostra sofferenza…Mi rendo conto in quel momento che ho ancora tanta strada da fare a livello personale per accettare e accogliere la mia vulnerabilità. Quella che tutti abbiamo ma che io ho visto sempre come una nemica da sconfiggere e da tenere a debita distanza di sicurezza. R. si è lasciata andare e adesso mi sembra più forte di prima. Anche il racconto di N. mi tocca molto. Mi rivedo nella bambina N. alle prese con i suoi problemi di salute e con la determinazione di chi non vuole arrendersi al destino crudele e beffardo che rischia di minare irrimediabilmente la sua autonomia, nel tentativo di dimostrargli “io sarò più forte” ma soprattutto nel suo desiderio di tranquillizzare i genitori nascondendo le sue paure, le sue difficoltà dietro una facciata di iperefficienza.

 

V: Ultima supervisione. Non sono pronta ma non mi interessa. Ho la spinta adatta per andare a guardare lì dove non mi piace guardare e questo è un successo. Va bene così, pazienza se non è il mio momento. Ci penso su e questo mi aiuterà. Non andrò via a mani vuote. Quello che le altre mi lasciano è ugualmente prezioso o forse di più.. risulta più semplice guardarmi attraverso le altre piuttosto che guardare direttamente me stessa. Ascolto le loro parole, le difficoltà, le espressioni e tutto diventa più nitido, le vedo così come sono. Grazie.

 

Meditazione

L’ultima pratica prima di salutarci. Molti non si sono mai seduti su uno zafu. Non sanno nemmeno cosa sia. (N, per esempio, ha comprato da Decatholon una specie di mattone grigio sorcio di gomma pressata che chiama “sedile da yoga” e che le anestetizzerà le natiche). Per altri non è una novità. Provengono da scuole di specializzazione in cui parecchie ore sono dedicate alla mindfulness.

Insegno loro le basi essenziali della postura. Li rassicuro sul fatto che in questi quarantacinque minuti è escluso che verranno folgorati dal samadhi. Quindi è importante evitare la perdita di tempo di ricercarlo e sentirsi frustrati nel non trovarlo. Dovranno solo ascoltare il loro respiro e le cose che leggerò.

Uso il metodo di uno dei miei maestri di arti marziali, un monaco zen, che dopo l’allenamento ci faceva sedere in zazen e leggeva alcuni brani tratti dai testi classici. Immobili, senza alcuna fatica, ascoltavamo e respiravamo. Un brano, poi una lunga pausa, poi un altro brano. Nelle nostre posture, diventavamo macigni, ma le parole, quella voce, non incontravano alcuna resistenza. La semplice realtà delle cose entrava nel ventre:

 

 

E: Trovo il mio posto. Ascolto i brani. La mente va. Vedo scene confuse e il pensiero si distrae. Lo riporto alla situazione presente ancorandomi al respiro, ma la mente si distrae. Mi fanno male i muscoli. Perdo la posizione. Voglio concentrarmi. Poi mi rivedo nel brano IO SONO, in quello che parla di abbandonare la centratura su sé. Lo voglio fare nei giorni a venire.

 

 

N: In meditazione non so se riuscirò a star ferma. Ci provo, poi G. mi rassicura. Le sue parole profonde, semplici mi consentono di continuare a rilassarmi e ascolto attraverso i concetti sempre più me stessa, il mio corpo in contatto leggero con la mia mente..

 

MG: Le luci sono soffuse, ognuno sul suo zafu per iniziare la meditazione “le gambe mi fanno male in questa posizione, non mi piace chiudere gli occhi e ho difficoltà a stare ferma”. G. inizia a leggere e io decido di trovare una posizione più comoda. Ha una voce calda e penetrante, i contenuti sono profondi e mi rilassa ascoltarlo.

 

A: la voce rassicurante di G. mi guida verso la calma e il rilassamento…sento dolore alle gambe, aggiusto la posizione e riprendo il piacevole contatto con il mio corpo, abbandonandomi alla serenità.

 

V: Momento meditazione. Ginocchia a pezzi… parole che si insinuano nella mia mente e trovano un posto comodo. Ci stanno benissimo.

 

Commiato

Ci salutiamo un po’ frettolosamente, quasi distrattamente, come se dovessimo rivederci di lì a poco e si attivasse un termostato anti-enfasi. Una specie di imbarazzo nel leggere, ciascuno nel viso dell’altro, per non più di una frazione di secondo, quanto sia, per quanto necessario, piuttosto innaturale salutarsi. Penso: ‘ho regalato loro un’esperienza nuova, forse l’inizio di un importante cambiamento interno…’; poi si aggiunge un altro strato di pensiero: ‘…hanno fatto lo stesso con me’.

 

N: Il momento dei saluti. La prima cosa che penso è che é come se avessimo prima di questo momento condiviso altro, come se ci fossimo già conosciuti …poi penso che c’è bisogno di proseguire…ognuno di noi sente che dovremmo riunirci presto, ritornare qui.

E: Ci mettiamo in macchina e parliamo delle cose che ci porteremo di questa esperienza. Per me saranno la certezza che le cose non sono difficili come credo, il mondo è più importante della mia sola esistenza e soprattutto il mio essere stata bambina non può influenzare continuamente il mio essere adulta. I propositi per il futuro sono pensare meno prima di parlare, fare e dire le cose solo perché ho voglia di farlo e portare meno l’attenzione a me e più al mondo. Senerchia è stata un’occasione per scoprire che si è al mondo non per forza per produrre qualcosa ma solo per stare.

R: Avere un modello non vuol dire solo avere un contenitore con tante caselle dove inserire le persone…. Avere un modello vuol dire interiorizzarne i significati, abbracciare uno stile di vita, abolire il giudizio e promuovere la condivisione genuina di tutte le parti di sé, anche quelle poco piacevoli. Dove la differenza tra te e l’altro non esiste.

MG: Siamo in macchina, guardo dal finestrino Senerchia, sto ferma, sono calma e serena.

L: Le osservo, senza giudizio, per quello che oggettivamente sono: la celata delicatezza di A., la forte tenerezza di An., la calma determinazione di M., la dolce energia di N., il silenzio birbante di Mg, la solare inquietudine di R., la delicata profondità di V., la silenziosa cura di E., lo spaventato affetto di Am. La felice tristezza di L.
Sarà questa la disciplina interiore? Lasciarci guidare dalle cose che ci spaventano senza evitarle? Osservare ciò che ci circonda senza giudicare, arricchendoci del nostro guardare l’altro mentre guardiamo noi stessi? Si dice che all’essere umano fa paura ciò che non conosce. Noi a Senerchia abbiamo convissuto con ciò che non conoscevamo.

 

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