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Il sè vulnerabile nella paranoia

La paranoia è una forma di pensiero dominata da sfiducia e sospetto nei confronti degli altri e il sé dei paranoici appare vulnerabile e assoggettato.

Di Giampaolo Salvatore

Pubblicato il 15 Giu. 2015

Il termine paranoia si riferisce a una forma di pensiero dominata dalla sfiducia o sospetto intenso, irrazionale ma persistente nei confronti delle persone e da una corrispondente tendenza a interpretare le azioni degli altri come volutamente minacciose o degradanti.

Il protagonista de L’Enfer di Claude Chabrol, convinto dell’intenzione della moglie di ingannarlo, umiliarlo, tradirlo, fino ad ucciderla. Un (mio) paziente, che una sera mi chiamò per informarmi di aver trovato un metodo infallibile – girare per casa con una pentola in testa – per contrastare i piani degli extraterrestri decisi ad ucciderlo mediante una progressiva sottrazione dei ricordi.
Cosa hanno in comune?

A parte mio cugino, che ha risposto hanno il complesso di persecuzione, la maggior parte delle persone a cui l’ho chiesto, pur non essendo psichiatri o psicologi, ha risposto sono paranoici.

Il termine paranoia si riferisce a una forma di pensiero dominata dalla sfiducia o sospetto intenso, irrazionale ma persistente nei confronti delle persone e da una corrispondente tendenza a interpretare le azioni degli altri come volutamente minacciose o degradanti. Poiché le persone paranoidi generalmente si aspettano che gli altri siano malevoli o minacciosi, esse sono guardinghe, reticenti e sempre vigili, costantemente alla ricerca di indizi di slealtà nel prossimo. Queste aspettative vengono facilmente confermate: l’ipersensibilità dei paranoidi trasforma le piccole mancanze di riguardo in insulti gravi e anche gli avvenimenti innocui sono erroneamente interpretati come nocivi o vendicativi. Viziosamente, le aspettative di tradimento e di ostilità spesso hanno l’effetto di provocare reazioni del genere negli altri, confermando e giustificando così il sospetto e l’ostilità iniziale del paranoico.

Nel 1903 Freud lesse le memorie di D.P. Schreber, intitolate “Memorie di un malato di nervi”, e questa lettura lo portò a teorizzare che alla base del pensiero paranoide dovesse trovarsi un’omosessualità latente. Secondo Freud le persone possono sviluppare uno stato paranoico nei confronti delle cose che non riescono a tollerare, come la percezione della propria omosessualità, di sentimenti di inferiorità e di amore/odio inaccettabili; oltre a ciò, il delirio offrirebbe anche al soggetto un sistema di sicurezza e sfogo che permette all’Io di sentirsi a proprio agio allorchè ci si trova da soli in mezzo ad altri individui.

Se l’eredità concettuale freudiana sulla paranoia viene accolta nel senso più lato appena descritto, è possibile districarsi dalla diatriba sull’effettività di un nesso stretto, letterale, tra paranoia e omosessualità. Plausibilmente, non sarebbe tanto l’omosessualità in sé a costituire un substrato della paranoia, quanto come essa viene costruita dal sistema di significato del paziente. Al termine della sua terapia, un mio paziente giunse a comprendere quanto i suoi desideri omosessuali fossero motivo di vergogna e substrato di una percezione di sé come inferiore fisicamente, soccombente, rispetto agli altri uomini. Questo è un esempio di ciò che definisco sé vulnerabile.

L’esperienza clinica, associata a una rilettura della psicopatologia classica, consentono di ipotizzare che nei pazienti affetti dalle diverse forme di paranoia vi sia una rappresentazione basica di sè come ontologicamente vulnerabile; un elemento che la schizofrenia paranoide sembra avere in comune con il disturbo delirante a contenuto persecutorio e con il disturbo paranoide di personalità (Salvatore et al., 2005, 2007, 2008; Popolo et al., 2012). Questo sè ontologicamente vulnerabile può consistere nell’esperienza di sè come incapace, nell’interazione con gli altri, di mantenere l’integrità dei confini personali e un senso di sè come differenziato dagli altri (Lysaker & Lysaker, 2008). I confini del sè sarebbero quindi molto rigidi, e ogni violazione percepita di essi viene immediatamente percepita a livello soggettivo come una minaccia all’integrità del sè.

Per comprendere meglio la vulnerabilità del paziente paranoide può essere utile confrontarla con la percezione di sè fragile che caratterizza i soggetti con disturbi d’ansia (Buss, 1980; Fenigstein et al., 1975). Anche il paziente con delirio persecutorio sperimenta stati di ansia, ma la debolezza del sè del paziente ansioso è sensibilmente differente dalla vulnerabilità del paziente paranoide. Nel primo caso, il sè si sente vittima di un evento catastrofico imminente e impossibile da fronteggiare. Nel secondo caso, il sè si percepisce incapace di fronteggiare le aggressioni da parte degli altri individui. In altre parole, il sè non teme eventi catastrofici, nè sente di non poterli fronteggiare; sono gli altri a costituire una potenziale minaccia.

Il sè si sente soggiogato socialmente (si veda Gilbert [2005] per la rilevanza del rango sociale come fattore di sofferenza psicologica). Il soggetto si sente vulnerabile rispetto all’altro, che è rappresentato come dominante o motivato a escludere, sottomettere, umiliare il sè. La condizione più temuta per il sè è quella di subordinazione e inferiorità rispetto all’altro. In uno dei nostri pazienti il delirio persecutorio fu innescato dall’incontro sul posto di lavoro di un gruppo di nuovi colleghi che egli percepiva implicitamente come più forti e più virili di lui (Salvatore et al., 2005). Questo paziente andò incontro a un miglioramento clinico quando la terapia lo aiutò a divenire consapevole del suo senso di vulnerabilità personale e inferiorità fisica.

Questo aspetto può essere ancor meglio compreso se si riprendono alcuni studi classici della psicopatologia della paranoia. Per esempio Janet (1889) considerava l’assetto costituzionale dell’ individuo paranoide come una manifestazione della psicastenia: un sentimento basico di incompletezza della propria persona. Bleuler (1906) pur accordando maggior rilevanza alle reazioni agli eventi di vita rispetto ai fattori costituzionali nell’ insorgenza dei sintomi, ipotizzava che il soggetto paranoide tentasse di tener lontana dalla coscienza la rappresentazione insopportabile della propria insufficienza.

Kretschmer (1918) introdusse il termine di ‘psicosi sensitiva’: quando gli eventi mostrano al soggetto la propria insufficienza sul piano morale, la reazione del soggetto è di rivalsa, con un’esaltazione delle proprie qualità morali a fronte della malevolenza del mondo. Lacan (1932) considerava la paranoia come parte di una più generale economia della personalità, in cui il delirio rappresenterebbe una risposta comprensibile a fronte della sconfitta e della percezione intima di non possedere risorse sufficienti per affrontare le difficoltà del mondo.

A questo proposito, sorprende che il tema dello squilibrio di potere e della sottomissione sia stato indagato dalla letteratura in relazione con le allucinazioni uditive, e solo da poco in relazione con il delirio persecutorio (Freeman & Garety, 2004; Freeman, 2007; Freeman et al., 2005; Gilbert et al., 2005). I soggetti con paranoia possono ricercare una posizione di elevato rango sociale con l’idea che il potere che ne conseguirà potrà consentire loro di controllare il pericolo proveniente dagli altri, una strategia che si rivela per lo più fallimentare, in quanto ottenere un elevato potere sociale non riduce la percezione persecutoria. Questo perchè la rappresentazione basica di sè come vulnerabile è troppo pervasiva e radicata per essere corretta dalla condizione mondana di potere e controllo.

Ipotizzo che il sé vulnerabile costituisca una rappresentazione implicita, non necessariamente oggetto di riflessione cosciente da parte del soggetto. Quando l’esperienza di sé come vulnerabile ha un accesso parziale alla coscienza, il delirio funziona come una sorta di processo attribuzionale distorto in cui la vulnerabilità di fondo viene considerata come il risultato della minaccia esterna. Questa errata attribuzione, tra l’altro, innesca la rabbia e l’ipervigilanza al fine di proteggere i confini del sé.

A conferma di questo assunto stanno i risultati di alcuni studi che suggeriscono che dietro il comportamento aggressivo e vendicativo del paranoico contro il ‘persecutore’ vi siano sentimenti di vulnerabilità e inferiorità (Millon, 1999). Green e colleghi (2006a, 2006b) hanno riscontrato in un gruppo di 70 soggetti con delirio persecutorio che la percezione di minaccia si associava significativamente con sentimenti di inferiorità personale.

E’ ipotizzabile che il delirio persecutorio non solo consenta di dare spiegazione alla vulnerabilità del sè e di porvi così un parziale rimedio (e.g., sconfiggere il nemico o fuggire), ma, una volta attivato, possa anche perpetuare l’esperienza di vulnerabilità. Il delirio potrebbe per esempio facilitare una cristallizzazione della rappresentazione di sè come vulnerabile e dell’altro come dominante, alimentando un arousal negativo, e il richiamo di immagini mentali, memorie episodiche ed emozioni negative. Ciò condurrebbe a sua volta a un rinforzo della rappresentazione della minaccia esterna, con una ulteriore riduzione del margine di confutabilità del delirio.

Secondo Freeman e colleghi (Freeman et al., 2002, 2008) questo senso di vulnerabilità è correlato con fattori di ordine traumatico. Alcune ricerche hanno mostrato tassi elevati di occorrenza di episodi traumatici tra i pazienti con diagnosi di psicosi; così come è accertata la correlazione tra esperienze anomale assimilabili ai sintomi positivi di psicosi ed esperienze traumatiche nella popolazione generale (Butler et al., 1996; Ensink, 1992; Liotti & Gumley, 2008; Morrison et al., 2003). In questo contesto alcuni autori (Bale et al., 2010; Gumley & Schwannauer, 2006) suggeriscono che esperienze negative nel corso dell’evoluzione, in particolare con le figure di attaccamento, caratterizzate per esempio da abuso, negligenza, o rifiuto, possono impedire nel soggetto in crescita lo sviluppo di un’esperienza basica di sicurezza capace di proteggerlo dalla sensazione di vulnerabilità.

Ciò contribuirebbe alla costruzione interna di una rappresentazione del mondo sociale come malevolo e pericoloso. Il senso di vulnerabilità può però essere connesso con una serie dei altri fattori, come lo stigma, l’esperienza di sintomi psicotici floridi, e di una profonda compromissione delle funzioni cognitive necessarie per costruire una percezione di sè come agente attivo nel mondo (Lysaker & Lysaker, 2008; Stanghellini, 2001).

 

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