Anche quest’anno i temi clinici hanno riguardato principalmente la cura e il trattamento di Disturbi Dissociativi, con particolare attenzione ai fattori prognostici e alla comorbilità di questi con molte altre sindromi e disturbi di personalità.
Di ritorno dal corso ci si sente come ogni anno ricchi di riflessioni, professionali e umane, e parte di un movimento dalle radici profonde che sta tentando la sua “piccola rivoluzione” nel panorama culturale attuale legato al trauma. Su questo tema persistono infatti ancora oggi e in tutto il mondo sentimenti molto ambivalenti, tra rifiuto, conflitto, morbosità, ma anche innegabile curiosità, fascinazione e interesse. Negli ultimi anni il trauma sta tornando indubbiamente al centro della scena clinica e dei protocolli di cura, ma la strada della sua accettazione e centralità appare ancora lunga e complessa.
Anche quest’anno i temi clinici hanno riguardato principalmente la cura e il trattamento di Disturbi Dissociativi, con particolare attenzione ai fattori prognostici e alla comorbilità di questi con molte altre sindromi e disturbi di personalità.
La cornice teorica è sempre quella della Dissociazione Strutturale, ormai discussa e raccontata in molti contributi precedenti sul tema, e Khaty Steele, una delle teoriche di questo modello, ci ha guidato nel profondo della sua applicazione clinica.
Un aspetto importante che segue la fase diagnostica, molto ben approfondita durante la passata edizione con Suzette Boon, è proprio la definizione della prognosi e degli elementi da valutare per concordare obiettivi possibili di un trattamento e prevederne gli esiti. L’incapacità di realizzare alcuni aspetti di sé resta una caratteristica principale negli esiti clinici di situazioni traumatiche, insieme alla presenza di una discontinuità nella coscienza di sé e della propria storia. Tutto questo si traduce in sintomi di “non-realizzazione” che possono riguardare aspetti cognitivi, affettivi, comportamentali e corporei, che trovano diverse manifestazioni all’interno della terapia e che vanno tutte indagate e affrontate sin dalle primissime fasi.
I primi aspetti prognostici sono legati a capacità metacognitive di base del paziente: capacità di condividere pensieri e sentimenti propri, tollerare e regolare emozioni, poter riflettere sui propri stati interni e buona motivazione al cambiamento. Nella capacità di riconoscere e tollerare emozioni è molto importante per una buona prognosi la capacità di godere pienamente di emozioni ed esperienze positive, spesso compromessa in storie di traumatizzazione precoce e/o ripetuta nel tempo. Altri aspetti prognostici specifici legati all’esperienza interna di “frammentazione” e non-integrazione sono: la presenza o meno di compassione e affetto verso alcune parti di sé (parti aggressive, parti bambine, parti vittime, parti felici), l’investimento della persona nel tentare di tenere queste parti divise, perché percepite come pericolose, disgustose, da proteggere, da evitare o da eliminare, e ancora la compatibilità o meno di alcuni obiettivi terapeutici rispetto alle esigenze delle diverse parti.
Nell’approfondire questi aspetti il principio fondamentale da tenere sempre vivo nel lavoro è che le parti funzionano come un sistema complesso, in cui ognuna ha un ruolo determinante e specifico nel mantenimento dello status quo interno: prima di lavorare con le parti è necessario dunque non solo scoprire la loro esistenza, ma soprattutto individuare il perché della loro permanenza nel sistema. Una struttura dissociativa è un sistema rigido e finalizzato a mantenere a suo modo un equilibrio interno sufficiente a sopravvivere, dunque ogni cambiamento può essere percepito come molto pericoloso, intollerabile, inutile.
Ultimi ma non meno importanti fattori prognostici sono infine le previsioni negative legate alla possibilità di un cambiamento attraverso la terapia. Resta indispensabile anche su questo aspetto un lavoro di condivisione profonda che muova sempre all’interno della Finestra di Tolleranza Emotiva del paziente e della sua capacità di sperimentare cosa funziona e cosa non funziona all’interno del suo sistema. Lavorare con le parti all’interno di questa cornice teorica spesso non vuol dire lavorare subito sul trauma, ma vuol dire – come per molti altri modelli di trattamento – occuparsi innanzitutto delle condizioni correlate (ES: attacchi di panico, depressione, disturbo ossessivo-compulsivo, somatizzazioni,…) comprendendone l’esordio, i fattori scatenanti e i trigger attuali che le riattivano.
In presenza di un disturbo dissociativo di media o grave entità si possono trattare i sintomi in comorbilità con tutti i trattamenti di prima linea che attualmente esistono in letteratura (CBT, DBT, Psicoeducazione), tranne i programmi comportamentali di esposizione diretta, che potrebbero invece peggiorare la sintomatologia dissociativa. Pur non lavorando direttamente sul trauma è utile tuttavia anche in queste prime fasi di lavoro sui sintomi attuali, iniziare ad indagare il sistema interno e verificare se alcuni dei sintomi in comorbilità siano una manifestazione esterna di una struttura interna. Un esempio concreto: un comportamento compulsivo (controllare sempre che tutte le porte abbiano fatto due giri di chiave) di un paziente adulto con DOC e una storia di abuso, potrebbe essere riconducibile alla riattualizzazione di un comportamento legato al trauma vissuto nel passato (evitare che qualcuno entri nella sua stanza di notte e che abusi di lui), che era funzionale allora, ma che perde di senso nel presente, restando solo sintomo, cioè un comportamento inadeguato e non più funzionale.
In questo caso lavorare sul trauma può essere efficace nell’eliminare la necessità di quel comportamento, mentre una esposizione progressiva allo stimolo temuto può alimentare sentimenti di terrore e impotenza della parte traumatizzata e peggiorare i sintomi dissociativi. Diverso sarebbe lavorare su un disturbo ossessivo-compulsivo che non presenti questa storia traumatica e questa eziologia del sintomo.
In conclusione secondo Khaty Steele i principi del trattamento su pazienti dissociativi dovrebbero essere:
– utilizzare il livello di funzionamento nella vita quotidiana come indicatore del progresso;
– chiarificare sempre quello che il paziente vuole dire, verificando il significato interno delle sue parole;
– fissare confini saldi e mantenerli dentro una cornice chiara a noi e al paziente;
– restare focalizzati sul processo in corso;
– non allearsi solo o troppo con alcune parti a scapito di altre;
– non assecondare i bisogni disfunzionali di accudimento delle parti bambine che chiedono dipendenza;
– riparare ai propri errori se ci si scopre in un comportamento difensivo;
– lavorare CON le resistenze del paziente e non contro di esse;
– fare attenzione alla trance-condivisa, che può portare terapeuta e paziente in stati di non-realizzazione comuni.
La Steele ci ricorda con grande umiltà che non ci sono terapie e soluzioni perfette, ma che per lavorare sull’integrazione in psicoterapia bisogna restare presenti e consapevoli del processo in corso, capaci di viverlo ed osservarlo contemporaneamente, capaci di restare aperti a tutto quello che succede senza giudizio, né urgenza di cambiamento.
Non esiste una strada, la strada si fa camminando!
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