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Suicide by cop: l’omicidio indotto dalla vittima

Il termine “Suicide by Cops” si riferisce a quelle situazioni in cui la vittima stessa, volendo morire, istiga l'agente di polizia a commettere il reato.

Di Giada Costantini

Pubblicato il 04 Mag. 2015

Il termine “Suicide by Cops” (SBC) si riferisce ad una modalità di comportamento suicida iscrivibile all’ interno di una più ampia categoria che in letteratura viene denominata “Omicidio indotto dalla vittima” (Victim Precipitated Homicide): quelle situazioni in cui è la vittima stessa che istiga il soggetto a commettere il reato.

Il fenomeno del suicidio da poliziotto (SBC) è stato a lungo scritto nelle riviste di polizia e delle scienze forensi (Jenet e Segal, 1985): questa espressione fa riferimento a un metodo di suicidio in cui un individuo agisce deliberatamente in modo minaccioso con l’obiettivo di provocare una risposta letale da un funzionario di polizia (o da un altro individuo legittimamente armato), che viene indotto a porre fine alla vita della vittima per salvaguardare la propria o altrui incolumità da quest’ultima minacciata: la presa di ostaggi, la violenza domestica e la violenza sul posto di lavoro sono riconosciute come le situazioni più comunemente utilizzate per provocare o attirare gli agenti di polizia (Geller e Scott, 1992).

I soggetti che scelgono tale modalità suicida, intendono generalmente porre fine alla propria vita per le stesse motivazioni che caratterizzano i suicidi commessi con metodi più convenzionali. La differenza sostanziale consiste nel fatto che nel SBC, e più in generale nell’ omicidio indotto dalla vittima, l’individuo, per realizzare il suo fine, cerca di coinvolgere attivamente altre persone.

Ci sono due grandi categorie di SBC. La prima è il caso in cui qualcuno, dopo aver commesso un reato, viene inseguito dalla polizia e decide che preferisce morire piuttosto che essere arrestato: queste persone possono provocare gli agenti di polizia spinti dalla convinzione che una vita trascorsa in carcere non è degna di essere vissuta. Il secondo caso fa riferimento a persone che stanno già contemplando il suicidio: questi individui possono commettere un crimine con il preciso intento di provocare una risposta delle forze dell’ordine.

Anche se le caratteristiche individuali di un soggetto SBC sono determinate da personalità ed esperienze di vita uniche, la ricerca ha identificato alcune particolarità comuni di questi individui (Feuer, 1998; Kennedy, Homant, e Hupp, 1998; Lord, 2000; Perrou, e Farrell, 2004; Wilson, Davis, Bloom, Batten, e Kamara, 1998). Il tipico soggetto SBC è un uomo bianco con un’età media di 20 anni. Nella maggior parte dei casi ha già avuto un precedente contatto con la legge ma generalmente per reati minori, e questo potrebbe avergli dato una certa familiarità del modo in cui la polizia opera e delle loro reazioni a eventi critici.

Oltre all’abuso di sostanze (droghe, farmaci e alcol), il soggetto da SBC ha sofferto di altri problemi psicologici: i disturbi più comuni associati a tale condotta sono quello schizofrenico e il disturbo bipolare; in almeno uno dei casi documentati dagli studi presi in considerazione, è presente un tentato SBC a seguito di un trauma cranico (Bresler, Scalora, Elbogen, e Moore, 2003). L’episodio critico è comunemente accelerato dalla rottura di alcune importanti relazioni connesse con la sua autostima o il sostegno sociale (come per esempio una crisi famigliare o di lavoro) che induce sentimenti di disperazione, rabbia e angoscia. Naturalmente, a presenza di più episodi critici aumentano la vulnerabilità del soggetto e la probabilità di SBC.

La maggior parte di ciò che conosciamo sulle motivazioni delle diverse forme di suicidio proviene dallo studio di persone che hanno pensato al suicidio e poi cambiato idea, o sono state persuase a non farlo, o da persone che hanno effettivamente tentato il suicidio ma sono sopravvissute. Mohandie e Meloy (2000) hanno delineato una serie di motivazioni SBC che possono essere applicate a più tipi di suicidio, come sentimenti di disperazione, di rabbia, e / o di vendetta. Per tali soggetti, pare che non c’è via d’uscita alla loro disperazione e l’unica soluzione sembra quella di porre fine alla loro vita. Tuttavia, ciò che può essere unico nei casi SBC, è il modo in cui questi sentimenti sono agiti.

Sono diversi gli studi che si sono soffermati sulle motivazioni sottostanti i casi specifici di SBC. In alcuni individui la presenza di forti convinzioni religiose può precludere loro la possibilità di suicidarsi da soli: per questi soggetti risulta pertanto accettabile dal punto di vista religioso, che un altro ponga fine alla loro vita (Pinizzotto et al., 2005). Per altri, il SBC è un tentativo di evitare lo stigma sociale associato al suicidio: in tali casi il “morire per mano della polizia” rappresenterebbe una copertura del proprio intento suicida. Altre volte è la ricerca di una morte “da intrepidi” e/ o “sensazionale” (Van Zandt, 1993). In altri casi, le vittime vogliono assicurarsi una morte certa e, scegliendo un agente di polizia, sono convinti di poter conseguire tale obiettivo considerando il fatto che questi possiede un’arma da fuoco ed è addestrato ad utilizzarla (Hafenback e Nasiripour, 2005; Miller, 2005). Inoltre, l’agente di polizia potrebbe rappresentare una sorta di “coscienza sociale” che permetterebbe di porre fine, in modo definitivo, ad eventuali sensi di colpa provati dal soggetto. (Hutson et al., 1998).

In ogni caso, a prescindere dalle motivazione che induce i soggetti a scegliere tale modalità suicida, gli effetti psicologici e legali per gli agenti di polizia coinvolti sono spesso di notevole rilevanza: subito dopo il conflitto, questi possono manifestare una diminuzione del coordinamento motorio con tremori agli arti o addirittura spasmi incontrollabili, distorsioni percettive relative al tempo ed allo spazio, difficoltà nel recupero delle tracce mnemoniche relative all’evento traumatico a volte rivissuto come fosse al rallentatore e con suoni ovattati. A lungo termine, nei casi più gravi, gli effetti psicologici del conflitto possono far sviluppare un disturbo post traumatico da stress. Sugimoto e Oltjenenbruns (citati in Pietrantoni, Prati, e Morelli, 2003) parlano di una reazione di shock psicologico agli stressor traumatici (direttamente legati alla morte) chiamata “angoscia traumatica” che può divenire patologica e irrisolta e scatenare quindi un DSPT cronico. Studi americani (Parent, e Verdun-Jones, 1998; Hutson et al., 1998; Mohandie, Meloy, e Collins, 2009) dimostrerebbero che, nel contesto statunitense, questo fenomeno avrebbe proporzioni non trascurabili con un conseguente impatto psicologico sul poliziotto.

Anche gli inevitabili aspetti legali e mediatici connessi all’evento traumatico contribuiscono a rinforzare il quadro sintomatologico sopra descritto. A proposito, diversi agenti di polizia hanno dichiarato di aver provato un netto miglioramento al termine dell’inchiesta giudiziaria che automaticamente viene svolta a seguito di questi accadimenti.

Tuttavia, individuare le condizioni che accertano un SBC può essere difficile. Di conseguenza, i poliziotti sono oggi addestrati ad esercitare il controllo imparando a riconoscere le caratteristiche che possono aiutarli ad evitare di coinvolgere persone che hanno tentazioni suicide.

Perrou (2006) ha individuato 15 indicatori che possono aiutare gli operatori delle forze di polizia nel riconoscere quelle situazioni operative nelle quali vi è un’elevata probabilità di esser di fronte ad un tentativo di SBC: 1. Il soggetto si è barricato e rifiuta di negoziare; 2. Il soggetto ha appena ucciso qualcuno, e, in particolare, un familiare; 3. L’individuo dichiara di avere una malattia incurabile; 4. Le richieste del soggetto agli agenti di polizia non includono aspetti relativi alla sua liberazione o vie di fuga; 5. Il soggetto ha da poco vissuto o sta vivendo esperienze di vita traumatiche (lutti, divorzio, gravi problemi economici ecc.); 6. Prima di causare l’episodio critico il soggetto ha donato i suoi beni; 7. Il soggetto ha registrato dichiarazioni relative al suo gesto; 8. Il soggetto dichiara le sue intenzioni 9. L’individuo sostiene di aver pensato di pianificare la sua morte; 10. Il soggetto ha espresso un interesse in una morte da “macho”; 11. L’individuo ha espresso un interesse in una “uscita di scena” sensazionale; 12. Il soggetto ha espresso sentimenti di perdita di speranza e di fiducia nell’aiuto altrui; 13.L’individuo formula l’elenco dei suoi desideri ai negoziatori; 14. Il soggetto dichiara di voler essere ucciso; 15. L’individuo stabilisce una “deadline” per essere ucciso.

L’autore sostiene che, in caso di situazioni operative altamente critiche, qualora dovessero esser presenti alcuni di questi indicatori, gli agenti di polizia dovrebbero esser consapevoli della possibilità di avere a che fare con un soggetto che vuole essere ucciso e che per raggiungere tale obiettivo non esiterebbe a fermarsi di fronte a nulla, compresa la possibilità di far fuoco sui poliziotti stessi.

Perrou ha inoltre individuato potenziali indicatori comportamentali comunemente presenti in caso di soggetto con intenzioni suicida: un atteggiamento iper-vigile (scanning), in cui il soggetto controlla con meticolosità l’intero campo visivo; un cambiamento della frequenza respiratoria riscontrato a livello visivo, uditivo o entrambi, e rappresenta spesso l’ultimo atto prima della morte; il “conto alla rovescia”, un conto cadenzato che spesso può aiutare il soggetto con intenzioni suicide a raggiungere la soluzione fatale, in cui il soggetto concentrerebbe la propria attenzione in larga parte sul conteggio precludendo l’elaborazione e/o l’analisi di soluzioni alternative, oltre che distogliere la propria attenzione dai tentativi di farlo desistere dal proprio intento da parte degli agenti intervenuti.

In tali situazioni di crisi, l’identificazione dei sopraelencati comportamenti pre-suicidio e la loro successiva interruzione attraverso opportune modifiche tattiche d’intervento, hanno spesso permesso agli agenti di impedire al soggetto di commettere l’atto fatale e quindi di farlo arrendere.

 

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