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Woody Allen, Io e Annie (1977) & il percorso psicoanalitico

Allen proietta il suo inconscio nelle pellicole, crea protagonisti che hanno le caratteristiche delle sue fobie, nevrosi e paure e ne descrive le debolezze.

Di Manuela Agostini

Pubblicato il 17 Apr. 2015

Aggiornato il 24 Apr. 2015 13:19

 

Allen proietta il suo inconscio, crea protagonisti che hanno le caratteristiche delle sue fobie, delle sue nevrosi, delle sue paure. Ci chiarifica il quadro psicologico del personaggio, ci descrive perfettamente le sue debolezze e facendo così sembra già che in qualche modo se ne sia disfatto se non per il solo fatto di averlo mostrato.

Woody Allen, il nuovo “Charlot”, della seconda metà del ventesimo secolo, che carica, descrive e deride la sua contemporaneità con una chiave tutta nuova. Omino goffo, balbuziente, nevrotico, depresso, angosciato dirige e scrive film con l’idea di non arrendersi al semplice intrattenimento. Film intelligenti, che fanno riflettere, con dialoghi pieni di verve, opere d’arte, insomma, ma che arrivano a tutti. 

In analisi dal 1959, i suoi film hanno la peculiare caratteristica di toccare diverse delle tematiche Freudiane (sesso, indipendanza affettiva, madre) ma quando nel 1977 esce “Io e Annie” (Annie Hall) che si aggiudica 4 Premi Oscar nel 1978: miglior film, miglior regista, migliore sceneggiatura originale e migliore attrice protagonista, Allen realizza un vero e proprio percorso psicoanalitico.

Allen proietta il suo inconscio, crea protagonisti che hanno le carattersitiche delle sue fobie, delle sue nevrosi, delle sue paure. Ci chiarifica il quadro psicologico del personaggio, ci descrive perfettamente le sue debolezze e facendo così sembra già che in qualche modo se ne sia disfatto se non per il solo fatto di averlo mostrato. Guarda se stesso, guarda il mondo, cerca di analizzare l’origine dei mali, l’evoluzione della società, nevrosi proprie solo di questo secolo e solo di una parte, quella più industrializzata, quella evoluta, del mondo. Rompendo la quarta parete ci fa sentire parte del suo punto di vista, ci coinvolge, sembra quasi voler condividere e chi più chi meno pensa “ Ehy si, è proprio cosi,” sono io, siamo noi, e Allen partendo da se stesso e passando attraverso la sua “macchietta” ci colpisce in pieno, con toni sarcastici dice ciò che pensa e seppur facendoci sorridere ci lascia l’amaro dello schiacciante peso della realtà insensata, analizza il mondo e si autoanalizza, fuori dalla sfera della coscienza indaga il suo inconscio, ci prova costantemente partendo da “io e Annie” fino ai giorni d’oggi.

Alvy (Allen) con sguardo alla macchina inizia un monologo:

[blockquote style=”1″]“C’è una vecchia storiella: due vecchiette sono ricoverate nel solito pensionato per anziani e una di loro dice: “Ragazza mia, il mangiare qui dentro fa veramente pena” e l’altra “Sì, è uno schifo; ma poi che porzioni piccole!”. Beh, essenzialmente è così che io guardo alla vita: piena di solitudine, di miseria, di sofferenza, di infelicità e disgraziatamente dura troppo poco. E c’è un’altra battuta che è importante per me: è quella che di solito viene attribuita a Groucho Marx, ma credo dovuta in origine al genio di Freud e che è in relazione con l’inconscio; ecco, dice così, parafrasando: “Io non vorrei mai appartenere a nessun club che contasse tra i suoi membri uno come me”. E’ la battuta chiave della mia vita di adulto in relazione alle mie relazioni con le donne. Sapete… ultimamente i pensieri più strani attraversano la mia mente, perché sono sui 40 e penso di attraversare una crisi o che so, chi lo sa. Io… io… non mi preoccupa invecchiare, non sono di quei tipi, sapete… Lo so: quassù mi si apre una piazzetta, ma peggio di questo, per ora, non mi è successo. Io, anzi, credo che migliorerò invecchiando. Ecco, sapete, credo che sarò il tipo virilmente calvo, sapete, come dire: l’esatto contrario dell’argentato distinto, per esempio, ecco. E se no nessuno dei due. Divento uno di quelli che si perdono i filini di bava dalla bocca, vagano per i mercatini con la borsa della spesa sbraitando contro il socialismo. Annie e io abbiamo rotto e io ancora non riesco a farmene una ragione. Io… io continuo a studiare i cocci del nostro rapporto nella mia mente e a esaminare la mia vita cercando di capire da dove è partita la crepa. Ecco… un anno fa eravamo innamorati, sapete, io so… E’ strano, non sono il tipo tetro, non sono il tipo deprimente. Io… io… io… sono stato un bimbo ragionevolmente felice, credo. Sono cresciuto a Brooklyn, durante la seconda guerra mondiale.” si presenta cosi.[/blockquote]

MONOLOGO INIZIALE:

Il protagonista del film che lasciatosi con Annie (Keaton) da un anno, racconta l’evoluzione del loro rapporto, la felicità, il deterioramento e la fine. Analizza quali delle sue problematiche psicologiche, nate nell’infanzia (nevrosi, depressione…) possa aver influito di più su questa bella storia e con un impeccabile capacità dell’utilizzo del mezzo, tra split-screen, piani sequenza e flashback parte come in un percorso psicanalitico l’analisi del suo personaggio, ricorda la scuola e cerca di giustificare con il suo “io” adulto il suo precoce pensiero alle donne chiarendo di non aver evidentemente avuto un periodo di “latenza” come anche il vecchio Freud suggerisce nella descrizione delle fasi dello sviluppo psicosessuale. Ha una depressione legata “a qualcosa che ha letto” come chiarifica la madre allo psicanalista che vede il bambino immotivato per via del fatto che “l’universo si sta dilatando” suggerendogli che essendo una cosa che accadrà fra milioni di anni, ora “bisogna godersela” ma il personaggio va dritto verso un percorso che man mano porta alla totale perdita di capacità di piacere, come il titolo pensato in un primo momento, “anedonia” avrebbe definito.

Con l’incontro con Annie la storia prende un tono classico narrativo, quando i due si lasciano si interrompe la linearità narrativa e si torna sull’autoriflessivo, il tutto condito da una linguistica che descrive perfettamente la società contemporanea, che nasce a metà secolo e appartiene al luogo comune oggi. Il classico viene abbandonato, la visione dell’ uomo e della donna non sono più legati a stereotipi.

L’errore di Alvy è stato quello di iniziarla alla cultura, più l’emancipazione di Annie aumentava più il loro amore diminuiva. Per Allen più si è provvisti di una solida personalità e cultura più le relazioni amorose sono a rischio, si è più soggetti a nevrosi e insoddisfazione continua.
La costante ricerca di successo e autorealizzazione a discapito di una relazione felice? Per chi si trova in questa morsa, quando ad un certo punto si hanno bisogno di nuovi stimoli e l’euforia iniziale scema drasticamente, una relazione monotona e standardizzata è realmente ciò di cui si ha bisogno? E’ davvero questo che non ci rende felici? Bisognerebbe solo aggiustare un po’ il tiro ma è sempre più facile a dirsi che a farsi. In una scena in cui s’interroga sull’amore, non si capacita di come questo possa essere finito, una signora gli suggerisce bruscamente che “l’amore svanisce” comincia così a fare domande in questione sull’argomento, poi vede una coppia apparentemente felice:

[blockquote style=”1″]Alvy: Ecco, voi voi, sembrate una coppia molto felice, e lo siete?

Coppia di passaggio: Si! Alvy: E questo a cosa lo attribuite?

Ragazza della coppia: Oh io sono superficiale e vuota e non ho mai un’idea e… non ho niente di interessante da dire.

Ragazzo della coppia: Io lo stesso.

Alvy: Ah, ho capito avete unito le vostre intelligenze così da due almeno uno…[/blockquote]

L’AMORE SVANISCE:

Solo così si può essere felici? Ed è realmente vera questa felicità? Nella scena finale si vede Alvy osservare due attori recitare in commedia la sua storia con Annie ma gli attribuisce un finale alternativo dove Annie rimane con lui. Chiarifica il suo pensiero guardando in camera e dicendo

[blockquote style=”1″]”che volete era la mia prima commedia e sapete come si cerchi di arrivare alla perfezione almeno nell’arte perché è talmente difficile nella vita” [/blockquote]

chiudendo con un ottimo risultato la sua prima vera seduta.

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Manuela Agostini
Manuela Agostini

Dott.ssa in Psicologia della salute clinica e di comunità

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