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Essere un buon gruppo? Dipende dal fattore C!

Lo studio dimostra che i gruppi che hanno risultati migliori in un compito, hanno risultati alti anche negli altri, sottendendo la presenza di un fattore C.

Di Chiara Manfredi

Pubblicato il 02 Mar. 2015

Gli autori hanno trovato che i gruppi che tendenzialmente avevano risultati migliori in un compito, avevano risultati migliori anche negli altri, sottendendo una sorta di fattore generale che hanno chiamato “fattore c” e che era in grado di spiegare la prestazione del gruppo comprendendo una grande varietà di caratteristiche.

Siamo tutti parte di qualche forma di gruppo, che sia un team di lavoro, una squadra sportiva o un insieme di persone che condivide il nostro stesso hobby. Facciamo quindi tutti esperienza delle differenze che ci sono nei gruppi, soprattutto quando questi hanno uno scopo che ha a che fare con la produttività. Cosa fa di un gruppo un “buon” gruppo, in termini di esito e di ottimizzazione delle risorse? Domanda di vecchia data per il mondo della psicologia, che ha studiato di volta in volta l’importanza della composizione omogenea piuttosto che eterogenea, di un sistema decisionale condiviso o direttivo, la presenza di un leader carismatico, autorevole, autoritario, e così via.

Recentemente, un gruppo di ricercatori del Massachusetts Institute of Technology (MIT) ha indagato meglio quali sono le caratteristiche relativamente stabili di un gruppo che contribuiscono a renderlo “smart”: intelligente. In due studi del 2010 pubblicati su Science gli autori hanno raccolto dati da 699 soggetti, raggruppati in piccoli gruppi composti da 2/5 membri, a cui veniva chiesto di risolvere diversi tipi di problemi della quotidianità, che andavano dall’analisi logica al brainstorming alla coordinazione, al ragionamento morale, alla pianificazione.

Gli autori hanno trovato che i gruppi che tendenzialmente avevano risultati migliori in un compito, avevano risultati migliori anche negli altri, sottendendo una sorta di fattore generale che hanno chiamato “fattore c” e che era in grado di spiegare la prestazione del gruppo comprendendo una grande varietà di caratteristiche.

La cosa interessante è che questo fattore non aveva nulla a che fare con l’intelligenza dei singoli, con la loro motivazione al compito o con la loro estroversione. Era invece correlato con tre caratteristiche:

  • la sensibilità sociale dei membri del gruppo, valutata con un test che misura la capacità di dedurre stati emotivi complessi a partire dagli occhi delle persone;
  • la distribuzione equa della responsabilità quando si trattava di prendere una decisione, preferendo una discussione di gruppo piuttosto che la delega a un unico leader;
  • la percentuale di donne tra i membri del gruppo: gruppi caratterizzati da più donne avevano una prestazione migliore rispetto ai gruppi caratterizzati da più uomini. In particolare, non era la composizione eterogenea a impattare sulla prestazione (il fatto di avere un egual numero di uomini e donne), ma proprio il numero di donne presenti nel gruppo.

Recentemente, alcuni degli autori hanno voluto replicare gli studi, per valutare quanto i risultati di queste prime due ricerche rimanessero immutati anche in situazioni in cui ai gruppi non veniva richiesto di collaborare faccia a faccia, ma online. Viste le crescenti opportunità (e necessità) che il web sta fornendo, è importante capire quanto la collaborazione a distanza segua regole simili a quello che succede quando siamo tutti nella stessa stanza gruppi vicini. Per fare questo, gli autori hanno chiesto a 34 gruppi di completare un compito di intelligenza collettiva uno davanti all’altro, e a altri 34 di farlo online, senza alcuna possibilità di interagire faccia a faccia. Di nuovo, replicando i primi risultati, è emerso un trend nella produttività dei gruppi, in cui alcuni “funzionavano” meglio in tutte le prove in modo omogeneo.

In più, anche il fattore c è stato confermato: sia nelle interazioni faccia a faccia che in quelle online, i gruppi che funzionavano meglio erano quelli in cui i membri comunicavano molto tra loro, partecipavano in modo equo e avevano buone abilità di lettura delle emozioni altrui.

In particolare, questo terzo studio ha dimostrato come la capacità di leggere in modo corretto le emozioni altrui sia un fattore fondamentale non solo in presenza dell’altro, ma anche quando le interazioni avvengono in remoto: quello che conta sembra non essere tanto la capacità di leggere le emozioni dell’altro per utilizzarle nella singola interazione, quanto possedere una buona Teoria della Mente, una capacità più globale di comprendere e considerare quello che gli altri sentono, pensano e credono, che è mediamente più sviluppata nelle donne.

 

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Chiara Manfredi
Chiara Manfredi

Teaching Instructor presso Sigmund Freud University Milano, Ricercatrice per Studi Cognitivi.

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