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Dalla concettualizzazione del caso al piano educativo per persone con autismo – Report dal Congresso IESCUM

Report dal Congresso presso l'Istituto IESCUM, Parma: Dalla concettualizzazione del caso al piano educativo per persone con autismo. Psicoterapia

Di Ilaria Cosimetti

Pubblicato il 30 Ott. 2014

Aggiornato il 22 Mar. 2018 15:06

Gli specialisti del settore sono tutti concordi nel ritenere la formulazione del caso la premessa essenziale per un buon progetto educativo rivolto anche alla popolazione autistica ma mancano indicazioni precise sul da farsi. Una cosa è chiara: per essere efficace essa deve essere breve, focalizzata sulle variabili di interesse e utile a giudicare il trattamento.

Peter Sturmey è professore di Psicologia presso il Queens College and the Graduate Center della City University of New York (CUNY). Da 30 anni si occupa di ritardi dello sviluppo e ne sono testimonianza un centinaio di pubblicazioni tra manuali e articoli.

In questa giornata di formazione dichiara l’intenzione di trasferirci una serie di informazioni che possano poi tradursi in competenze pratiche da spendere nella nostra attività clinica e indubbiamente mantiene la promessa.

Buona parte del suo intervento si focalizza sulla case formulation (concettualizzazione del caso), che negli ultimi anni sta ricevendo l’attenzione che merita essendo il primo passo verso un piano di intervento veramente individualizzato, a garanzia di un trattamento in cui il metodo, qualunque esso sia, non soffochi l’individuo e l’espressione delle sue esigenze particolari.

Gli specialisti del settore sono infatti tutti concordi nel ritenere la formulazione del caso la premessa essenziale per un buon progetto educativo rivolto anche alla popolazione autistica ma mancano indicazioni precise sul da farsi. Una cosa è chiara: per essere efficace essa deve essere breve, focalizzata sulle variabili di interesse e utile a giudare il trattamento.

Il Prof. Sturmey ci offre la possibilità di sperimentare questo percorso analizzando i nostri casi clinici in una sorta di esercitazione di gruppo. I comportamenti problema vengono messi sotto una lente di ingrandimento e analizzati negli aspetti di rinforzo (sociali e non) che contribuiscono a mantenerli, senza perdere di vista il contesto ambientale in cui si palesano.

Non a caso ci presenta un questionario destinato ad ogni persona coinvolta a vario titolo nella vita del bambino o ragazzo, questo non solo per garantire una visione del problema da più angolature e quindi più accurata ma soprattutto per coinvolgere anche queste figure nel piano educativo del minore.

Da ciò deriva la necessità di implementare nella nostra pratica clinica anche lo staff e parent training, attività obiettivamente ancora molto marginali in Italia. Il professore, che spende molte parole a proposito di questi interventi, li ritiene di importanza cruciale per il buon successo terapeutico perchè non sono solo i bambini autistici ad avere problemi a generalizzare le proprie competenze ma anche i membri dello staff che si occupano di loro così come i vari caregiver.

Anzi, forse è proprio la mancanza di una buona condivisione di prassi di intervento e relazione col minore, a produrre spesso le sue difficoltà di adattamento comportamentale ai vari contesti di vita. In una ricerca di Lafasakis e dello stesso Sturmey è per esempio emerso che indirizzare un trattamento comportamentale ai genitori per migliorare le loro capacità di insegnamento (Discrete Trial Teaching) migliora l’apprendimento dei figli.

Se questo significa uscire dalla logica di una terapia a tavolino che promuove l’osservazione e il trattamento dei soli aspetti problematici dell’autistico a favore di una presa in carico globale che coinvolga famiglia, scuola e anche noi terapisti, non si può che essere d’accordo.

Non resta che darsi da fare affinchè anche in Italia l’ovvio venga messo in pratica.

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