THE SHAPE OF THINGS – Recensione.
The Shape of Things, pièce teatrale dell’americano Neil LaBute rivisitata anche dal grande schermo, è un percorso di esplorazione sottile attraverso gli snodi della relazione manipolatoria.
Quando Adam, timido nerd che lavora come guardia in un museo, incontra Evelyn, affascinante studentessa d’arte alle prese con un tentativo di atto vandalico ai danni di una delle statue esposte, prende avvio un gioco a due che fin dal principio si delinea come inesorabile trasformazione del ragazzo, suggerita e condotta da Evelyn con una sequenza di interventi pianificati.
Perdere peso, modificare radicalmente il look, esercitarsi ad atteggiamenti più disinvolti diventano per Adam le tappe di un cammino che lo avvicina alla ragazza allontanandolo però in modo irreparabile dalla coppia di amici più cari, in procinto di sposarsi, che prima sembrano divertiti dalla metamorfosi ma ben presto si sentono disorientati di fronte a ciò che non riconoscono più come autentico. In un intreccio di tradimenti, rivelazioni, ribaltamenti di fronte, i quattro protagonisti si confrontano sulla differenza tra essere e apparire, sulla superficialità dei valori contemporanei, sulla possibilità di definire arte le espressioni creative del nostro tempo e con esse i messaggi spirituali ma più spesso materiali che il genere umano si adopera a veicolare con ogni mezzo a disposizione.
Evelyn è interessata unicamente al raggiungimento di un’estetica da esibire, da trattare come arte simbolica priva in realtà di un contenuto fruibile nella condivisione, e la coppia che viene a formarsi tra lei e Adam è il risultato di una manipolazione che individua i bisogni del ragazzo cogliendone la dimensione passiva, irrazionale, viscerale.
Adam chiede implicitamente di essere convertito a ciò che mancandogli lo fa sentire intimamente frustrato, e l’assenza di un’adeguata consapevolezza lo conduce a consegnare le proprie debolezze ad Evelyn, validandone le azioni.
Il cambiamento di forma, di stato, dalla coppia che non si scambia nulla di vero alla coesistenza di due individualità ognuna indifferente a se stessa e agli altri, è presto dato, raddoppiando nei termini quando anche la coppia di amici viene trascinata in un declivio dove le funzioni si frammischiano ai bisogni del momento, ai moti impulsivi mai afferrati pienamente.
The Shape of Things compone una visione disillusa delle relazioni e mette a nudo i processi anaffettivi con cui si instaura la manipolazione. Evelyn non concede valore all’identità di Adam, ne plasma una versione innaturale su cui proietta le proprie istanze narcisistiche, nella completa assenza di ogni riferimento empatico.
La dinamica sviluppa una progressione che appare inevitabile al protagonista e allo spettatore, certi entrambi che ciò che seguirà sarà la fisiologica e insieme amorfa decostruzione dei tratti iniziali. La forma delle cose può diventare assenza di forma, quando i significati si svuotano di categorie interiori plausibili e rispecchiano solo l’incapacità di strutturare una sostanza, un sentimento che accolga l’altro da sè non cedendo all’appetito di annullarlo.
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