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La bella e la bestia: Arte e Neuroscienze – Recensione

Lumer e Zeki in "La bella e la bestia: arte e neuroscienze" offrono una rilettura dell’arte contemporanea alla luce delle conoscenze del sistema nervoso.

Di Valentina Davi

Pubblicato il 09 Gen. 2014

Aggiornato il 30 Gen. 2014 12:04

 

Recensione

La bella e la bestia: arte e neuroscienze

di L. Lumer e S. Zeki

(2011)

Ed. Laterza

 

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La bella e la bestia: arte e neuroscienzeLudovica Lumer, neurobiologa e filosofa, pioniera assieme a Semir Zeki nel campo della Neuroestetica, nel suo libro “La bella e la bestia: arte e neuroscienze” offre un’interessante rilettura dell’arte contemporanea alla luce delle attuali conoscenze del sistema nervoso; l’arte contemporanea infatti, proprio per le sue caratteristiche, esplora e rileva le nostre capacità percettive.

Quanti di voi hanno pensato “Questi scarabocchi li so fare pure io!” davanti ad un quadro di J. Pollock? Quanti si sono mostrati scettici di fronte ad una tela tagliata di Fontana? Quanti durante una mostra di arte contemporanea hanno trascorso almeno cinque minuti ad osservare perplessi un termosifone?

Una volta le opere d’arte erano qualcosa di definito nello spazio e nel tempo (un quadro nella sua cornice, una scultura a tutto tondo). A partire dall’arte moderna si è invece assistito alla nascita di opere costituite da stimoli sempre più ambigui, fino ad arrivare a forme che oggi comprendono installazioni, video, performance…

Cosa accade nel nostro cervello di fronte a questo tipo di opere? Ludovica Lumer, neurobiologa e filosofa, pioniera assieme a Semir Zeki nel campo della Neuroestetica, nel suo libro “La bella e la bestia: arte e neuroscienze” offre un’interessante rilettura dell’arte contemporanea alla luce delle attuali conoscenze del sistema nervoso; l’arte contemporanea infatti, proprio per le sue caratteristiche, esplora e rileva le nostre capacità percettive.

La Lumer osserva che il nostro cervello, attraverso il processo di astrazione (capacità di formare un concetto generale partendo dal particolare), è in grado di cogliere delle costanti che ci permettono di mantenere coerente la percezione; per esempio, riconosciamo un oggetto per quello che è nonostante questo sia visto sotto condizioni di illuminazione o da prospettive e distanze differenti.

Di fronte, però, a stimoli ambigui a cui possono essere attribuiti differenti significati di pari validità, il nostro cervello si trova costretto ad accettare entrambe le possibili interpretazioni, seppur in momenti diversi e mai contemporaneamente; esempio famoso è il cubo di Necker in cui la nostra percezione oscilla tra un cubo visto da sopra e uno visto da sotto:

 Cubo di Necker

 

L’arte contemporanea, con l’ambiguità dei suoi stimoli, ingaggia il cervello dell’osservatore in questa continua sfida. Si pensi al ready-made di Marcel Duchamp “Fontana”: un orinatoio acquista un nuovo significato sotto il nuovo titolo e il nuovo punto di vista; l’osservatore oscilla tra la concettualizzazione di un oggetto quotidiano e un nuovo modo di pensare quell’oggetto.

Chi osserva, quindi, contribuisce alla creazione dell’opera che prende vita nell’attimo in cui lo sguardo dell’osservatore si posa su di essa. L’arte diventa così un prodotto del nostro cervello, esperienza nel qui ed ora. 

Ed ecco che di fronte ad un quadro di Pollock noi non vediamo uno scarabocchio, ma percepiamo il mondo emotivo che l’artista ha voluto esprimere non attraverso la forma, bensì attraverso il movimento; e grazie ai neuroni specchio attiviamo tramite simulazione il programma motorio che corrisponde al gesto evocato nel tratto, empatizzando così con l’artista.

Se l’arte è attribuzione di significato, allora diventa anche mezzo per acquisire conoscenza del mondo, delle relazioni interpersonali (emblematiche le performance artistiche di automutilazione di Marina Abramovic, in bilico tra vita e morte, che spingono il pubblico ad intervenire per porvi fine) e del proprio corpo (quando è il corpo stesso a diventare oggetto artistico).

E proprio a tal proposito, la Lumer ha tenuto per il secondo anno consecutivo un’interessante lectio magistralis in occasione di DermArt, convegno di dermatologia tra arte e scienza, giunto nel 2013 alla sua 5° edizione. Durante il suo intervento, intitolato “Se pergamena fosse la mia pelle”, la neurobiologa ha illustrato il fil rouge tra cervello visivo, arte e cute che diventa mezzo artistico e di conoscenza attraverso le forme che le malattie dermatologiche disegnano, attraverso i segni di traumi e di danni provocati, ed in quanto superficie pittorica su cui si eseguono camouflage e tatuaggi.

La Lumer con i suoi libri e le sue ricerche s’inserisce così all’interno del vivace dibattito tra scienza e arte, due campi che all’apparenza appaiono distinti ed incompatibili, ma che nella Neuroestetica hanno trovato un punto di contatto: “L’arte – una delle più elevate espressioni della complessità umana e delle più raffinate modalità di rappresentare sensazioni ed emozioni – ci fornisce una testimonianza preziosa sul funzionamento del cervello e in ultima istanza dell’uomo” (Zeki, 2007; 2010).

 

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Valentina Davi
Valentina Davi

Coordinatrice di redazione di State of Mind

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