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Il pregiudizio omofobico come fonte di malessere per gay e lesbiche: cosa dice la scienza?

Da anni, oramai, le scienze psicologiche e sociali indicano il pregiudizio omofobico come una delle cause dell'insorgenza di psicopatologie nelle persone gay e lesbiche.

Di Giuseppe Massaro

Pubblicato il 26 Ott. 2018

Aggiornato il 30 Giu. 2022 18:34

Il termine pregiudizio omofobico mette in luce una presa di posizione rispetto all’orientamento sessuale delle persone, più che una fobia, ovvero un disturbo d’ansia. E’ responsabile, insieme ad altre variabili, dell’insorgenza di sofferenza psicologica nelle persone omosessuali

 

A partire dalle fine degli anni ’60 del XX secolo, il pregiudizio omofobico, l’ atteggiamento di ostilità e di avversione nei confronti degli omosessuali e dell’omosessualità più in generale, diventa oggetto di studio e di ricerca scientifica. In ambito accademico, si è generalmente concordi sul fatto che la storia del termine omofobia abbia avuto inizio a partire dagli anni ’70 del XX secolo. K.T. Smith, che sembrerebbe essere stato il precursore dell’utilizzo di questa parola, in un suo celebre lavoro cercò di identificare i tratti distintivi della personalità cosiddetta omofobica (Smith, 1971). Sarà solo un anno più tardi che George Weinberg cercherà di delineare il costrutto in termini concettuali, definendo l’omofobia come il timore di essere con un omosessuale in un luogo chiuso, e per quello che riguarda gli omosessuali, l’odio verso se stessi (Weinberg, 1972). Nello specifico, Weinberg aveva notato che molti psicoanalisti eterosessuali manifestavano, fuori dal setting clinico, reazioni negative quando si relazionavano a persone omosessuali. Egli discusse questa sua idea con due amici, omosessuali attivisti, i quali la utilizzarono pubblicamente per la prima volta nell’edizione del Maggio 1969 della rivista Screw (cit. in Graglia, 2012).

Pregiudizio omofobico: alla base molta ideologia, non una fobia

Dalla lettura in chiave psicosociale, Weinberg sposta l’attenzione sul problema psicologico-individuale che caratterizza gli atteggiamenti avversivi e ostili verso l’omosessualità, annoverando l’omofobia all’interno del quadro delle “fobie classiche”(cit.in Lingiardi, 2007). Tuttavia, alcuni studi condotti successivamente hanno sottolineato a chiare lettere l’inappropriatezza del termine. Le indagini empiriche, infatti, non hanno confermato la classificazione degli atteggiamenti “anti-gay”, degli eterosessuali, come riferibili a una fobia in senso clinico; il suffisso “fobia”, rimandando implicitamente alla diagnosi psicologica di un tratto clinico individuale, trascura la natura funzionale dell’ideologia eterosessista come fenomeno sociale e politico, e come istituto culturale oppressivo (Herek, 1996). Il termine “omofobia”, infatti, focalizza l’ attenzione esclusivamente sulle cause individuali e irrazionali, trascurando la componente culturale e le radici sociali dell’intolleranza che fa si che l’omofobo, così come il razzista, si rifà ad un sistema codificato di credenze socialmente condivise, che ritiene di dover difendere dalla minaccia di soggetti che considera pericolosi (Lingiardi, 2007); agisce nei confronti di queste persone in base ad un pregiudizio omofobico.

Poiché il termine omofobia rimanda specificamente ad una concezione sociale negativa (Ross e Rosser, 1996), piuttosto che denotare una fobia in senso stretto o la paura degli omosessuali, alcuni autori proposero delle espressioni sostitutive, come “omonegativismo” (Hudson & Ricketts, 1980), “omosessismo” (Hansen, 1982), “eterosessismo” (Herek, 1996), per esprimere una designazione più ampia dell’intero universo di atteggiamenti negativi verso l’omosessualità e le persone omosessuali (dal pregiudizio individuale alla violenza personale -verbale o fisica-, alla discriminazione culturale e istituzionale).

L’eterosessismo, come il razzismo e il sessismo istituzionalizzato, penetra nelle tradizioni e nelle istituzioni; è una forma di pregiudizio omofobico che tende a svilupparsi sin dall’infanzia, dal momento che la maggior parte dei bambini cresce in contesti familiari, scolastici e sociali che, nel migliore dei casi, considerano l’omosessualità un argomento di cui non parlare o sul quale fare battute di spirito (Lingiardi, 2007). Lo stesso Herek (1984), afferma a più riprese il concetto secondo cui gli atteggiamenti nei confronti della sessualità e dell’orientamento sessuale vengono appresi durante la vita dell’individuo e sono un costrutto sociale.

In tal senso, la consapevolezza della radicalizzazione di questi atteggiamenti di pregiudizio omofobico nel tessuto storico-sociale, ci permette di identificare e definire, con una certa facilità, la caratterizzazione della società contemporanea per immagini socioculturali, delle comunità LGB, del tutto negative; immagini figlie di un sistema sociale nel quale tende a rafforzarsi in maniera sempre più dilagante una striscia non solo di pregiudizio omofobico ma anche di odio e di disprezzo che sembrerebbe incidere profondamente sulla qualità della vita di lesbiche e omosessuali.

Pregiudizio omofobico e minority stress

In una famosa indagine nazionale condotta negli Stati Uniti nel 1989, il 5% degli uomini gay intervistati e il 10% delle donne lesbiche riferivano di aver subito degli abusi fisici o di essere stati violentati nell’anno precedente a causa della propria omosessualità. Quasi la metà (47%) riferiva di aver vissuto una qualche forma di discriminazione nel corso della vita, come effetto del proprio orientamento sessuale (San Francisco Examiner, 1989).

In un altro famosissimo studio condotto da Ilan Mayer (1995), docente di Scienze Mediche e Sociali alla Columbia University, si cercò di comprendere e descrivere una particolare forma di stress psicologico derivante dall’appartenenza ad un gruppo minoritario e quali effetti psicologici potesse avere su gay e lesbiche; tale fenomeno viene generalmente identificato come minority stress. Il presupposto fondamentale da cui si parte è che gay e lesbiche, come anche altri membri di gruppi minoritari, siano costantemente sottoposti ad una forma cronica di stress, derivante dalla stigmatizzazione sociale che colpisce il proprio gruppo di appartenenza. Secondo Mayer le tre importanti dimensioni che costituiscono il minority stress sono:

  1. il pregiudizio omofobico interiorizzato (omofobia interiorizzata): accettazione, da parte di una persona omosessuale, di tutti i pregiudizi, le etichette, e gli stereotipi negativi, nonché gli atteggiamenti discriminatori nei confronti dell’omosessualità. L’interiorizzazione del pregiudizio, che può avvenire in maniera più o meno consapevole, porta a vivere in modo conflittuale il proprio orientamento sessuale sino al punto da rinnegarlo o nutrire sentimenti negativi nei confronti degli altri omosessuali.
  2. Lo stigma percepito: quanto maggiore è la percezione del rifiuto sociale, tanto maggiori saranno la sensibilità all’ambiente, il livello di vigilanza relativo alla paura di emarginazione, discriminazione e violenza (Allport 1954; cit. in Mayer, 1995) e il ricorso a strategie di coping inadeguate. Lo stress vissuto da una persona con così alti livelli di vigilanza porta ad una esperienza generale di paura e ad interazioni diffidenti e sfiduciate con la cultura dominante, oltre ad un senso di disarmonia e alienazione con la società in generale.
  3. Le esperienze vissute di discriminazione e violenza: secondo Garnets, Herek e Levy (1990) le principali fonti di minority stress sono il rigetto da parte della società, la discriminazione e le violenze -verbali o fisiche- che gay e lesbiche esperiscono a causa dello stigma che connota il loro status minoritario di appartenenza (cit in Mayer; 1995). A prescindere da ogni forma di classificazione teorica, un esempio concreto risulterebbe di certo più chiaro ed esplicativo: un’ esperienza di discriminazione acuta è quella di una ragazza che, dopo aver superato in modo brillante un colloquio di lavoro, ottiene una posizione professionale che le viene in seguito revocata, quando emerge che è lesbica. Ovviamente appartiene a questa dimensione del minority stress anche ogni forma di violenza esplicita, subita in quanto gay, lesbica, bisessuale, transessuale o queer (Lingiardi, 2007).

I risultati della ricerca ricerca di Mayer, condotta su un campione di 741 soggetti omosessuali, hanno rivelato che:

  • ciascuna delle tre componenti del minority stress predicono significativamente la manifestazione di cinque problematiche -o variabili dipendenti- di natura psicologica (depressione, senso di colpa, problematiche sessuali, pensieri/tentativi suicidari, approcci distorti e iper emotivi all’ AIDS), quando queste sono considerate simultaneamente (effetto di interazione);
  • lo stigma percepito e le esperienze vissute di discriminazione risultano associate significativamente a tutte le variabili dipendenti fatta eccezione per i problemi sessuali; in particolar modo è stato visto che esse hanno a che vedere principalmente con la qualità delle relazioni tra uomini omosessuali.

In sostanza, lo studio ha confermato l’ipotesi secondo cui l’omofobia interiorizzata, lo stigma percepito e il pregiudizio omofobico (esperienze vissute di discriminazione), risultano significativamente associate ad un generale malessere psicologico degli omosessuali, e smentiscono l’ipotesi alternativa secondo la quale gli effetti delle tre dimensioni del minority stress, sulla salute psicologica degli omosessuali, siano indiretti (cioè mediati dal minore o maggiore grado di identificazione dell’individuo con la comunità gay).

Pregiudizio omofobico e variabili legate alla salute psicosociale della comunità LGB: il contributo delle scienze psicologiche

Trattando più specificamente il tema del suicidio in relazione all’omosessualità e all’omofobia, Remafedi at al.(1998) condussero una ricerca con l’intento di trovare un’associazione o una correlazione fra orientamento bisessuale/omosessuale e rischio di suicidio. Lo studio fu condotto su un campione di 366 adolescenti (184 dichiaratisi bisessuali e 182 dichiaratisi omosessuali). Le analisi di regressione hanno rivelato che un orientamento bisessuale / omosessuale nei maschi risultava significativamente associato alle intenzioni suicidarie e al tentativo di suicidio, ma non all’ ideazione suicidaria. È stato inoltre visto che nelle donne, l’orientamento sessuale e l’ etnia non sono significativamente associate con alcuna dimensione suicidaria.

In una ricerca di Jay P. Paul et.al (2002), condotta attraverso intervista telefonica, su un campione di 2881 omosessuali in quattro diverse città statunitensi (Chicago, San Francisco, New York e Los Angeles), è emerso che il 21% del soggetti aveva ideato almeno una volta nella propria vita un piano suicidario; il 12% ha dichiarato di aver tentato il suicidio (inoltre la meta’ dei soggetti di questo 12% ha dichiarato tentativi multipli). Gran parte di coloro che hanno dichiarato il tentato suicidio hanno affermato che il primo tentativo ha avuto luogo prima dei 25 anni di età. Un aumento di pianificazione e tentativi suicidari è stato, inoltre, rilevato fra i soggetti omosessuali con minore grado di istruzione, basso reddito annuo e assenza di lavoro a tempo pieno. Infine è stata riscontrata una maggiore probabilità di pianificazione suicidaria fra i soggetti omosessuali con HIV, ma un numero di tentativi di suicidio che variava di poco rispetto alla restante parte del campione. Lo studio, dunque, ha rilevato un alto rischio di tentativi suicidari nel campione di omosessuali preso ad esame.

Una ricerca condotta da Hatzenbuehler et al. (2010) ha dimostrato che per le persone LGB, vivere negli Stati che hanno approvato leggi discriminatorie e in cui è diffuso il pregiudizio omofobico (come gli emendamenti che bandiscono il matrimonio fra partner dello stesso sesso), costituisce un fattore di rischio per la morbilità psichiatrica. In particolar modo, è stato rilevato che in questi Stati risulta quanto mai evidente un significativo incremento dei disturbi dell’umore (aumento del 36,6%), del disturbo d’ansia generalizzato (aumento del 248,2%), dei disordini da dipendenza per abuso di sostanze alcoliche (aumento del 41,9%) ed un aumento generale della comorbilità psichiatrica pari al 36,3%.

Anche Margherita Graglia (2012), psicologa-psicoterapeuta didatta di CIS (Centro Italiano di sessuologia) e FISS (Federazione Italiana di Sessuologia Scientifica), opera una descrizione abbastanza esaustiva degli effetti dell’omofobia sociale sulle persone LGB:

  • L’intrusione di significati pre-costituiti: gli stereotipi sull’identità e sui comportamenti non eterosessuali forniscono delle chiavi di lettura su come si presuppone possa essere i mondo LGB. Come naturale conseguenza, si assiste alla formazione di rappresentazioni sociali (erronee) molto potenti, veicolate dai media e dal linguaggio e che vengono assimilate dagli individui omosessuali in maniera inconsapevole
  • Le invalidazioni e gli ostacoli all’autostima: il pregiudizio influenza l’immagine di sé. Le immagini socioculturali delle identità, dei comportamenti e delle comunità LGB sono perlopiù connotate negativamente. Ne consegue un inevitabile svilimento di tutto ciò che non è “eterosessuale” ed il mancato riconoscimento giuridico delle unioni LGB. Un altro effetto dell’omonegatività, che incide sull’ autostima, è l’ isolamento e l’emarginazione che le persone omosessuali sono costrette a subire in virtù della loro appartenenza ad un gruppo minoritario.
  • La minaccia al senso di sicurezza: la percezione di essere diversi può elicitare la sensazione di non essere al sicuro rispetto alle valutazioni e alle reazioni negative degli altri. La pervasività degli atteggiamenti antiomosessuali determina, di riflesso, la sensazione di essere sottoposti ad una costante minaccia da parte degli altri.
  • L’anticipazione del rifiuto: nelle interazioni quotidiane gay e lesbiche si chiedono spesso quale effetto avrà sugli altri il loro orientamento sessuale. La sensazione e il timore di non essere benvoluti si genera ed è nutrita principalmente dall’assunzione di eterosessualità, dalle rappresentazioni negative dell’omosessualità e dal silenzio sociale.
  • Celare il proprio orientamento sessuale.
  • Il monitoraggio del comportamento: in virtù dello stigma e della discriminazione, le persone LGB tendono a controllare tutti quei comportamenti che potrebbero rappresentare segnali rivelatori del proprio orientamento sessuale. Il controllo, in tal senso, è una modalità di coping che tuttavia contribuisce allo sviluppo e al mantenimento dell’ansia.
  • Lo stress dello svelamento: la maggior parte delle persone gay e lesbiche non è dichiarata in molti campi della propria vita (famiglia, lavoro, amici etc). Lo svelamento non è infatti uno stato discreto ma attraversa tutto l’arco di vita del soggetto. Essendo un evento potenzialmente critico, le persone trascorrono molto tempo chiedendosi se, come, quando e con chi fare coming out: in sostanza, questo fenomeno pone la persona in un costante stato di tensione.

Tendenzialmente, infatti, per un gay o per una lesbica svelare il proprio orientamento sessuale, significherebbe correre il rischio concreto di essere respinti dalla famiglia, di avere problemi con il lavoro, di essere esposti a stigmatizzazione e discriminazione, abusi verbali e atti di violenza anche fisica (D’Augelli, 1998; D’Augelli & Grossman, 2001). Tuttavia, come dimostrato in diversi studi e a riconferma delle intuizioni di Margherita Graglia, dichiarare apertamente il proprio orientamento sessuale può incidere positivamente sul benessere psicologico della persona stessa (Bell & Weinberg, 1978; Malyon, 1982; Zuckerman, 1997).

Alla luce dei contributi scientifici fin qui esaminati, risulta doveroso comprendere e definire in maniera chiara e condivisa, quali siano le responsabilità professionali degli psicologi, di tutti i professionisti della salute e delle istituzioni più in generale, riguardo al dilagante malessere sistemico (biopsicosociale) a cui il pregiudizio omofobico può dare luogo, sia in seno all’ esistenza del singolo che dell’intera comunità LGB.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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