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Il contratto terapeutico

Nelle supervisioni coi colleghi e nella discussione dei casi con gli allievi è abbastanza diffuso un grande errore tra i terapeuti: la mancata formulazione di un contratto terapeutico.

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 23 Apr. 2018

Parlo coi pazienti, supervisiono molti giovani colleghi, discuto casi durante le lezioni. L’esperienza è sempre la stessa, nessuno, davvero nessuno degli allievi o dei giovani colleghi mette in pratica una cosa: la formulazione e il continuo rinnovo del contratto terapeutico.

 

Giancarlo, la terapia va male, il paziente non risponde, non so più che fare. Gli ho spiegato che dovrebbe attivarsi, affrontare il sintomo attivamente, parlare diversamente con la moglie, il marito, il collega, ma niente, non fa niente.

Dopo questo discorso le reazioni del terapeuta sono spesso: scoraggiamento e impotenza, insieme all’idea di essere scarso. Irritazione verso il paziente. Facilmente: oscilla tra le due. E nessuna delle due è particolarmente benefica per il trattamento.

Mi chiedo sempre: il concetto di alleanza terapeutica, merita di essere ignorato così? È così ingiusto che un concetto così bello, utile, commovente nella sua semplicità, resti inosservato? Eppure è così: i terapeuti lo dimenticano.

L’ alleanza terapeutica ha tre componenti. Il bond, il legame. Che traduco come: passare un’ora in questa stanza insieme non è poi così male. E qui i terapeuti spesso ci arrivano. Poi c’è il goal, la meta, l’obiettivo. E qui i terapeuti ci devono arrivare. Il paziente entra in terapia e si definisce, si spera in modo congiunto, paritetico, collaborativo, dove si vorrebbe andare a parare. Varie declinazioni specifiche del concetto di ‘stare meglio’.

E infine casca l’asino. La terza componente. Se la scordano tutti. Eppure dovrebbe definire la terapia cognitiva. Ma se la scordano tutti. Il task, il compito. Lei vuole andare lì, siamo d’accordo, e per farlo sarà necessario che io faccia questo e lei faccia, tra una seduta e l’altra, quello. Ok? Stretta di mano?

La mano, i terapeuti di solito non la stringono. E la pagano cara questa mancata stretta.

Che significa? Che i terapeuti, giovani e meno giovani, esperti e meno esperti, cognitivisti e meno cognitivisti o non pensano proprio che la cura passa attraverso l’esecuzione degli homework, oppure lo sanno – fiuuu, meno male – ma pensano di dovere convincere il paziente a farli.

Una delle cose che trovo meno facili da tollerare nei colleghi è quando vogliono convincere i pazienti di qualcosa: insistono, pressano, spiegano, alzano la voce, rimproverano spesso con grande soddisfazione: ‘Eh, sapessi, ma io gliel’ho detto al paziente, sai? E sì, proprio non vuole capire, ma gliene ho cantate quattro’. Come canzone quasi quasi preferisco Anna Tatangelo.

No. La strada per la cura è un’altra. Il terapeuta crea il legame. Fatto? Definisce la meta. Fatto? E spiega al paziente che per raggiungere la meta bisognerà seguire una certa strada. Se quella strada non la vuole percorrere se ne può provare un’altra. Poi una terza. La quarta di solito non c’è o almeno io, come terapeuta, non la conosco.

Ecco, questo è il momento di formulare il contratto. Il terapeuta non deve spingere il paziente su quella strada, saggia, foriera di futuro e speranza, colma di salute, benessere e felicità. Il terapeuta la deve prefigurare quella strada, disegnarla nell’aria con ipnotici movimenti delle dita, evocarla, tracciarla su carta nel caso. E poi il contratto: ‘Senta, lei se la sente di fare questo viaggio al fine di arrivare a quell’approdo?’.

Il terapeuta bravo, a questo punto, fa una cosa strana. Respira. A lungo, profondamente, quasi un respiro mindful.

Respira. A lungo. E poi. Aspetta.

Il concetto chiave del contratto terapeutico è che il terapeuta aspetta. Spiega al paziente lo spiegabile, definisce il definibile. Ma poi chiede: ‘Questi passi le va di compierli? Se la sente? Ne è convinto?’. Alla fine, fatta la domanda.

Aspetta. Bravi, quello.

Adesso la terapia entra in uno stato di sospensione, un’attesa infinita dell’istante successivo. Il momento prima del calcio di rigore, dopo che il calciatore ha piazzato la palla sul dischetto, prima di tirare. Il pubblico trattiene il fiato. Il terapeuta trattiene il fiato.

Trattiene il fiato significa disciplina interiore, ovvero il terapeuta regola le sue tendenze a preoccuparsi, irritarsi, agire per essere efficace.

La terapia esce dallo stato di sospensione quando e solo quando il paziente dice: ‘Sì, lo voglio’. Ok, non è proprio come il matrimonio, ma il concetto è simile, se non dici sì a voce alta non risulti sposato.

I terapeuti saltano a piè pari tutta questa fase di attesa e di ascolto del sì definitivo del paziente. E quindi penano di fronte a pazienti passivi, confusi, oppositivi, sfidanti. Invece la soluzione è semplice: si tratta di scrivere e riscrivere continuamente il contratto.

Attenzione: il contratto non è quella cosa che si scrive, magari firmata col sangue, all’inizio del trattamento. Esattamente allo stesso modo dell’ alleanza, che va continuamente riparata dopo che si è rotta, il contratto va continuamente aggiornato dopo essere stato scritto e firmato. La terapia si evolve, cambiano le mete, cambiano i compiti e quindi si ridefinisce l’accordo.

Una mia giovane collega mi porta in supervisione un caso di una donna che entra in terapia con sintomi d’ansia. I sintomi in un certo grado migliorano con un insieme di affrontamento delle situazioni temute e tecniche per la riduzione del rimuginio. Lo scenario diventa quello di un problema interpersonale. La donna descrive il marito come distante, strafottente, verbalmente aggressivo e sprezzante. Ha due figlie piccole di cui fatica a occuparsi. Vorrebbe separarsi ma ha timore che se lo facesse sarebbe solo per dare ragione alla madre che pressa affinché lei lasci un uomo tanto orribile. Allo stesso tempo se non lo lascia si sente infelice. È in uno stato di paralisi, di scontentezza cronica. La terapeuta cerca di ricostruire gli schemi interpersonali maladattivi e con un po’ di fatica ci riesce. Lo scopo desiderato è quello di autonomia/esplorazione. Se si muove nella direzione di un desiderio proprio descrive l’altro come critico, sprezzante, punitivo e che l’abbandona. A quel punto risponde sentendosi inetta, incapace o abbandonata. Si attiva l’attaccamento e si sottomette per evitare l’abbandono. Ritorna a quel punto infelice e desiderosa di autonomia. Non esce dal circolo vizioso di mantenimento.

Passano alcuni mesi e la paziente non fa nessun passo. La terapeuta si dibatte, si preoccupa, si irrita, si accusa: “Perché la paziente non si muove, dove sto sbagliando? Però mi fa pure incazzare”.

Le dico: “Hai chiesto alla paziente qual è l’assetto desiderato? E soprattutto, come parte dei vostri accordi, quali azioni è disposta a fare per raggiungerlo”. “No”. “Prova”.

Lo fa. Glielo chiede. La paziente risponde. La terapeuta è sorpresa dalla risposta che ascolta: “Vede, è come se vivessi in una gabbia dorata. Avere il sostegno economico di mio marito e la presenza di mia madre è comodo e io non so se voglio rinunciare a questa comodità”.

Svelato l’arcano. La terapeuta voleva guarire la paziente, ma la paziente non le stava dando strumenti. Non aveva deciso di volere andare verso la metà.

La terapia è cambiata. La terapeuta si è rasserenata. E ha fatto la domanda più semplice del mondo. Una domanda fatta all’interno di uno stato relazionale di assoluta presenza, non una minaccia, un aut-aut. Sono qui, le resto e le resterò vicino, ma le chiedo: “Benissimo, mi rendo conto che la gabbia dorata può essere confortevole. Lo capisco, l’ho sperimentata anche io. Però se non vuole lasciarla, in terapia cosa possiamo fare? Che strumenti mi dà perché io possa condurla verso il benessere”.

Se i pazienti ascoltano quella domanda iniziano per la prima volta a pensare.

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Giancarlo Dimaggio
Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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