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Rape Culture

La rape culture - o cultura dello stupro - affonda le sue radici in una società di natura patriarcale con un sistema di giustizia penale fallocentrico

La “cultura dello stupro” – dall’inglese rape culture – costituisce un retroterra culturale, ampiamente condiviso, in base al quale la violenza è percepita come sexy e la sessualità come violenta, per cui si abbraccia l’idea che l’uomo sia strutturalmente un predatore e la donna una preda sessuale (Buchwald et al. 1993: v).

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La rape culture affonda le sue radici in una società di natura patriarcale con un sistema di giustizia penale fallocentrico, sia a livello professionale che criminale, nel quale la credibilità della donna che denuncia viene continuamente messa in dubbio, a favore di una revittimizzazione – o vittimizzazione secondaria – della stessa.

Origine del termine

L’origine del termine è incerta. La prima definizione viene comunemente attribuita al premiato documentario Rape Culture, realizzato da Margaret Lazarus nel 1975, che esamina la relazione tra le fantasie sessuali statunitensi e la rappresentazione dello stupro nei film, nella musica e in altre forme d’intrattenimento.

In quegli stessi anni anni, è la giornalista Susan Brownmiller, a darne una definizione, nel libro Against our will: Men, women and rape (1975), sostenendo che lo stupro ha la funzione di “mantenere tutte le donne in un costante stato di intimidazione” (1975, p. 209).

Più tardi, nel 1993, Pamela Fletcher, Emilie Buchwald e Martha Roth diedero una definizione più estesa di “cultura dello stupro”, nel libro Transforming a Rape Culture:

«Un complesso di credenze che incoraggia l’aggressività sessuale maschile e sostiene la violenza contro le donne […] e che normalizza il terrorismo fisico ed emotivo contro le donne.”

Alla luce di questa spaventosa minaccia di stupro, costantemente in sospeso sulle loro teste, le donne hanno paura di avventurarsi fuori la sera, di viaggiare da sole, di bere alcolici, di partecipare alle feste.

L’espressione “cultura dello stupro” è in realtà molto ampia perché fa riferimento a “un continuum di violenza minacciata che spazia dai commenti sessuali alle molestie fisiche fino allo stupro stesso” (Buchwald, Fletcher, and Roth, 1993). Infatti, si manifesta e concretizza mediante l’adozione quotidiana di un lessico misogino, attraverso l’oggettivazione sessuale dei corpi femminili, operata dai media, e grazie a un massiccio processo di normalizzazione della violenza.

Rape culture: dati allarmanti

Nel mondo, la violenza contro le donne interessa 1 donna su 3. Similmente, i dati Istat descrivono una situazione preoccupante: in Italia, una donna su tre afferma di aver subito violenza fisica o sessuale nel corso della vita (il 31,5%), in particolare il 20,2% ha subìto violenza fisica, il 21% violenza sessuale, e il 5,4% le forme più gravi di violenza sessuale, come lo stupro e il tentato stupro. Se gli sconosciuti, nella maggior parte dei casi, sono autori di molestie sessuali, le forme più gravi di violenza sono perpetrate da partner (62,7%), amici (9,4%), e parenti (3,6%).

Rape culture e victim blaming

La rape culture appare intrinsecamente collegata al fenomeno del victim blaming, in quanto costituisce il suo retroterra socioculturale. Nei casi di violenza sessuale, la donna che sporge denuncia è spesso costretta ad abbandonare i legittimi panni di vittima per rivestire il ruolo di oggetto d’indagine per l’abbigliamento indossato in quel momento, la strada percorsa, l’orario d’uscita, il numero di partner sessuali avuti nella vita, tutti interrogativi volti a trasferire su di lei la responsabilità di quel che le è accaduto. Nella maggior parte dei casi, coloro che incolpano la vittima non dicono esplicitamente “voleva essere violentata ed è stata colpa sua”, piuttosto fanno commenti del tipo “beh, la sua gonna era piuttosto corta …” o “Stava bevendo un sacco …”, affermazioni che, pur non attribuendo esplicitamente la responsabilità alla vittima, sottintendono che se la sia, in qualche modo, cercata (Thacker, 2017). Si realizza così un processo di vittimizzazione secondaria, sia all’interno del sistema giudiziario che tende a contestare le vittime di stupro, sia all’interno della cornice mediatica, che veicola rappresentazioni irrealistiche dello stupratore e della ipotetica vittima.

Il ruolo dei media

Le modalità di cui si servono i media per ritrarre lo stupro sono spesso inadeguate, infondate e di parte (Mukhopadhyay, 2008). Infatti, si tende a raffigurare gli stupratori come bestie impazzite, sessualmente frustrate, che saltano fuori di notte, nascosti dietro ai cespugli, per attaccare donne indifese, una descrizione che inquadra lo stupro quale crimine commesso soltanto da uomini “malati”. Non a caso a livello cinematografico e letterario l’aggressione sessuale è spesso descritta come uno stupro compiuto da uno sconosciuto, nonostante il 73% delle aggressioni sia in realtà commesso da qualcuno che la vittima conosce, come il partner o un amico (Filipovic, 2008, p. 21).

Ciò risulta piuttosto dannoso perché informa l’opinione pubblica su chi sarebbe o meno in grado di commettere una violenza sessuale e insinua una credenza tanto sbagliata quanto culturalmente pericolosa ossia che l’uomo della porta accanto, magari marito e padre, che non agisce mediante queste losche modalità, non potrebbe mai violentare qualcuno (Taslitz, 1999).

I media tendono a ritrarre in modo fuorviante anche le vittime di violenza sessuale, di solito descritte come “bugiarde, ipersessuali ed egoiste” (Taslitz, 1999), e colpevoli di quanto accaduto, in quanto accusate di aver “provocato”, in qualche modo, l’abuso con i propri comportamenti, definiti dai media “carini” e “civettuoli”. Si costruisce, così, una pericolosa cornice di vittimizzazione mediatica, all’interno della quale vengono forniti consigli alle donne su come evitare lo stupro mediante l’adozione di una serie di “regole comportamentali” – come uscire sempre in gruppo, non essere mai sole la notte e non lasciare mai il proprio drink incustodito  – che implicano una responsabilità personale delle donne, vittime di violenza, sprovvedute e incoscienti, in quanto non sufficientemente preparate a scongiurare una possibile aggressione sessuale.

La copertura mediatica di casi di stupro reali non solo mette in discussione ciò che le donne hanno fatto o meno per provocare quell’aggressione sessuale (Mukhopadhyay, 2008), ma propone una netta distinzione tra “brave” ragazze e “cattive” ragazze, una dicotomia di genere che offre agli uomini il beneficio del dubbio nella corte dell’opinione pubblica (Humphries, 2009): le “brave ragazze” sono quelle pudiche, non sessualmente promiscue, che non erano ubriache al momento dell’aggressione e che hanno seguito tutte le “regole” per evitare di essere violentate; al contrario, le “cattive ragazze” sono quelle che hanno violato una o più delle linee guida per “scongiurare le aggressioni sessuali” che la cultura dello stupro ha stabilito per loro.

È bene sottolineare, invece, che lo stupro costituisce un crimine violento, inscrivibile all’interno di una cornice patriarcale dove regna l’egemonia maschile che facilita l’uso di comportamenti violenti contro le donne, un atto commesso allo scopo di esercitare il proprio potere maschile e imporre il controllo sull’altra persona, non motivato dalla ricerca del mero piacere sessuale (Benedict, 1993, p.104).

In conclusione, il victim blaming, così diffuso nei media, sembrerebbe sostenere fortemente l’affermarsi di una rape culture, grazie all’insidiosa capacità che i mezzi comunicativi hanno di raggiungere e influenzare un numero enorme di persone, ma al contempo è la cultura dello stupro a costituire il terreno fertile per il diffondersi di atteggiamenti colpevolizzanti verso le vittime di violenza.

Il sistema giudiziario

Gran parte dell’incapacità del sistema giudiziario di gestire efficacemente i casi di stupro risiede nel sospetto della vittima e delle sue motivazioni, sostenuto dall’influenza dei media che diffondono scorrette rappresentazioni dello stupro e alimentano falsi pregiudizi.

Ad esempio, una precedente storia sessuale di qualsiasi tipo genera una forma di riluttanza nel condannare presunti stupratori e qualsiasi prova del consumo di alcol o droghe da parte della vittima porta i giurati a dubitare che si sia verificato uno stupro (Allison e Wrightsman, 1993).

Sulla rivittimizzazione operata dal sistema giudiziario, nel 1998 McLeer scriveva: “Le azioni della polizia, che spesso fanno sentire una donna come una criminale, e i tribunali, dove molte donne riferiscono di sentirsi violate per la seconda volta dal processo legale, così come la difficoltà di procurarsi una condanna, partono dal presupposto che la donna è da biasimare per essere stata violentata” (p.45). È come se la vittima fosse sotto processo per aver accusato l’autore dello stupro, piuttosto che l’autore stesso per aver commesso l’atto di violenza sessuale, nel tentativo continuo di contestare la veridicità della testimonianza della vittima.

Nella maggior parte dei casi, le vittime sono trattate con sufficienza e guardate con diffidenza; i loro racconti e i danni conseguenti alla violenza subita non sono affrontati in modo soddisfacente, in quanto la vittima viene chiamata a testimoniare e successivamente abbandonata (Bensimon, Jaishankar e Ronel, 2008). Difatti, le condanne che gli stupratori ricevono spesso non riflettono la gravità dei loro crimini, ma in molti casi sono il risultato di patteggiamenti che ignorano la sofferenza delle vittime (Bensimon, Jaishankar e Ronel, 2008).

In nome della risoluzione dei loro casi, alcune donne sono anche costrette a sottoporsi forzatamente a valutazioni di salute mentale (Taslitz, 1999), che contribuiscono alla loro rivittimizzazione in quanto spesso non vengono effettuate allo scopo di valutare o trattare il trauma, ma piuttosto come un altro mezzo per analizzare la veridicità della denuncia della vittima (Mazza, 2012); in particolare, quando tali valutazioni sono disposte dal giudice su richiesta dell’aggressore imputato, ciò può far sentire la vittima come se la propria credibilità fosse ulteriormente messa in dubbio (Mazza, 2012). Mazza (2012) aggiunge che “anche quando le vittime cercano volontariamente la consulenza post-stupro da professionisti della salute mentale, se tali persone esprimono dubbi sulla veridicità delle loro storie, le vittime si sentono ‘violate e nuovamente stuprate” (p.765).

Alcuni sostengono che la persecuzione del sistema di giustizia penale nei confronti delle vittime di stupro è necessaria perché le donne spesso mentono sullo stupro (Palmatier, 2013); tuttavia, gli studi dimostrano che soltanto tra il 2 e l’8% delle accuse di stupro sono false (Lisak, Gardinier, Nicksa e Cote, 2010).

Concludiamo citando le parole di Peterson che, in merito alla sua esperienza nell’affrontare il tipico trattamento riservato alle vittime di stupro da parte del sistema giudiziario, scrive: “Quello che è successo in aula è un sottoprodotto della rape culture – quando ciò che accade alle donne è messo da parte, quando “senza ombra di dubbio” non è ancora abbastanza, quando il tuo passato, il modo di vestire, la media dei voti o lo stato di ebbrezza sono usati per giustificare gli atti spregevoli di violenza sessuale inflitti da un altro” (2008).

Post tratto dall’articolo “Rape Culture” di Annamaria Nuzzo

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