Il corpo nell’era del confronto: un problema di salute pubblica
Cristian Di Gesto, Caterina Grano, Amanda Nerini, Elena Fornaini, Chiara Rollero, Daniela Caso, Anna Rosa Donizzetti, Camilla Matera
Viviamo in una società che ci invita costantemente a osservare e valutare il nostro corpo. Sui social media, nei programmi televisivi, nelle pubblicità e nelle interazioni quotidiane, il corpo è spesso trattato come un oggetto da perfezionare, esibire e controllare. Questo approccio non è senza conseguenze: una crescente mole di studi mostra che l’insoddisfazione corporea è associata a disturbi dell’alimentazione, bassa autostima, ansia sociale, depressione e isolamento (Bornioli et al., 2021).
Il confronto sociale, amplificato dalla presenza pervasiva dei social network, può alimentare un ciclo continuo di paragoni rispetto al corpo e auto-svalutazione. Le immagini idealizzate e ritoccate digitalmente contribuiscono a costruire standard estetici irraggiungibili, che possono spingere molte persone, soprattutto giovani donne, a vivere con senso di insoddisfazione verso il proprio aspetto (es., Di Gesto et al., 2023). Tuttavia, la ricerca psicologica suggerisce che esiste un’alternativa: adottare un atteggiamento più compassionevole nei confronti di se stessi e del proprio corpo.
Dalla body positivity alla body compassion
Il movimento della body positivity ha promosso l’accettazione del corpo in tutte le sue forme, opponendosi ai canoni estetici dominanti. Sebbene questo approccio abbia avuto effetti importanti in termini di visibilità e consapevolezza, non sempre è sufficiente per modificare in profondità il modo in cui una persona si relaziona al proprio corpo, specialmente quando interiorizza messaggi svalutanti trasmessi a livello socio-culturale o prova vergogna per la propria apparenza (Penalba-Sánchez et al., 2022).
Per questo motivo, alcuni studiosi propongono il concetto di body compassion, ovvero un atteggiamento compassionevole verso il proprio corpo, che unisce la consapevolezza della sofferenza, la gentilezza verso se stessi e il riconoscimento della comune umanità, ossia la comprensione che la sofferenza, l’imperfezione e le difficoltà fanno parte dell’esperienza umana condivisa, e non rappresentano una condizione isolata o personale (Altaman et al., 2020). La body compassion non implica ignorare i propri limiti o difficoltà, ma guardare al corpo con curiosità, apertura, comprensione e accettazione, anche nei momenti in cui ci sembra non soddisfare determinati standard estetici o funzionali.
Gli studi indicano che enfatizzare la compassion verso il proprio corpo favorisce il passaggio da una modalità di giudizio e confronto con gli ideali imposti dalla società a un atteggiamento più positivo. Tuttavia, è solo di recente che si è iniziato a esplorare il modo sistematico il ruolo della compassion, intesa come un’abilità che implica il riconoscimento della propria sofferenza, unitamente al desiderio di alleviarla (Gilbert et al., 2017).
Le radici della compassion: un concetto antico e universale
Il concetto di compassion ha origini antiche, ed è radicato in molte tradizioni spirituali, morali e filosofiche. Nel cristianesimo, la compassion si riflette in racconti di sacrificio, altruismo e cura dell’altro, come nella parabola del buon samaritano. Nella tradizione buddhista, il concetto di Bodhichitta esprime il desiderio profondo che tutti gli esseri senzienti – compreso se stessi – siano liberi dalla sofferenza e dalle sue cause.
Oggi sappiamo che la compassion è un sistema emotivo e motivazionale complesso che coinvolge l’attenzione, l’empatia, la motivazione e la capacità di agire. Secondo Jinpa (2015), si tratta di un processo multidimensionale che implica la consapevolezza della sofferenza, la preoccupazione empatica, il desiderio di alleviarla e la prontezza ad agire. Strauss et al. (2016) includono anche il riconoscimento dell’universalità della sofferenza umana e la capacità di tollerare le emozioni spiacevoli associate alla sofferenza altrui.
Dal punto di vista evoluzionistico, la compassion può essere vista come un comportamento adattivo, strettamente legato alla cura parentale e alla cooperazione tra individui. Studi su diverse specie mostrano che il prendersi cura degli altri migliora la sopravvivenza e il benessere collettivo. Nella specie umana, l’evoluzione ha favorito lo sviluppo di competenze sociali complesse, che permettono di rilevare la sofferenza e rispondere in modo efficace, trasformando la semplice preoccupazione in un’azione compassionevole.
I tre flussi della compassion: da chi a chi?
Secondo la concettualizzazione di Paul Gilbert e colleghi (2017), la compassion può fluire in tre direzioni fondamentali, ciascuna con effetti distinti e interconnessi.
Il primo flusso è la self-compassion, ovvero la capacità di essere gentili e comprensivi verso se stessi, accettandosi nei momenti di difficoltà. Le persone con un buon livello di self-compassion riescono a riconoscere la propria sofferenza senza giudicarla, ad accettare i propri limiti e a rispondere al disagio con strategie di supporto invece che con autocritica o evitamento. Questa abilità è particolarmente rilevante quando si parla di immagine corporea: numerosi studi hanno mostrato che la self-compassion protegge dal perfezionismo corporeo, dalla vergogna e dai pensieri disfunzionali legati all’aspetto fisico (Tylka & Huellemann, 2023).
Il secondo flusso è la compassion for others, cioè la tendenza ad accorgersi della sofferenza altrui e a desiderare sinceramente di alleviarla. Le persone con alti livelli di compassion verso gli altri mostrano maggiore empatia, disponibilità ad aiutare e atteggiamenti meno giudicanti. Questa dimensione sembra avere risvolti promettenti anche nel contesto dell’immagine corporea: chi è compassionevole verso gli altri tende ad avere relazioni interpersonali più solide e supportanti, il che può mitigare l’effetto negativo del confronto sociale e dei messaggi svalutanti sul corpo altrui (Ferreira et al., 2019).
Il terzo flusso è la compassion from others, ovvero la capacità – e disponibilità – di ricevere compassione dagli altri. Sentirsi accolti e supportati quando si sperimenta vergogna o disagio rispetto al proprio corpo è un fattore di protezione cruciale. Tuttavia, molte persone possono sviluppare paure verso questo flusso: temono di essere giudicate, rifiutate o di apparire deboli nel ricevere cura, ostacolando l’accesso a reti di supporto sociale, contribuendo così all’isolamento e al mantenimento della sofferenza.
Questi tre flussi si influenzano reciprocamente: chi non riesce a ricevere compassion tende anche a non offrirla e ad essere duro con se stesso; chi coltiva la self-compassion, invece, è spesso più aperto e disponibile verso gli altri (Gilbert et al., 2017). Comprendere e sviluppare queste direzioni della compassion può rappresentare un passo fondamentale nella promozione del benessere psicologico e di un’immagine corporea più sana.
Dall’immagine corporea alla salute
L’immagine corporea non è solo una questione estetica, ma ha profonde implicazioni per la salute fisica e psicologica. Uno dei fenomeni più diffusi legati alla percezione del corpo è il crescente interesse per la chirurgia estetica, spesso vista come una soluzione, perseguibile e socialmente accettabile, per raggiungere ideali di bellezza percepiti come irrinunciabili e fonti di valore personale.
A livello globale, il numero di interventi estetici è in costante aumento. Secondo l’International Society of Aesthetic Plastic Surgery (ISAPS, 2018), nel 2016 sono stati eseguiti oltre 23 milioni di interventi, con un incremento del 67% rispetto al 2010. L’Italia si colloca tra i primi sei Paesi al mondo per numero di operazioni, superando anche nazioni con una popolazione molto più numerosa. Gli interventi più richiesti dalle donne riguardano il seno, il viso e la silhouette, mentre i trattamenti non invasivi – come acido ialuronico e botulino – sono in netta crescita. La normalizzazione dei comportamenti finalizzati a migliorare l’aspetto fisico si associa a un aumento dei rischi psicologici e fisici, tra cui sintomi ansiosi e depressivi, episodi psicotici, disturbo post-traumatico da stress, danni neurologici, dolore cronico, necrosi e, nei casi più gravi, la morte (Golinski & Hranchook, 2018). La persistenza di insoddisfazione corporea dopo l’intervento è un esito tutt’altro che raro, soprattutto tra i giovani adulti.
L’interesse per la chirurgia estetica è spesso alimentato dall’interiorizzazione di standard socioculturali di bellezza e risulta frequentemente associato a una scarsa accettazione del proprio corpo e al desiderio di conformarsi agli ideali estetici dominanti. Tuttavia, le persone che sviluppano la capacità di osservare e accogliere con gentilezza il proprio aspetto e riconoscerne il valore funzionale sembrano essere meno inclini a ricorrere a interventi estetici dettati da pressioni sociali (Conboy & Mingoia, 2024).
In questo scenario, la compassion verso se stessi sembra poter essere una risorsa significativa. Alcune ricerche mostrano che, tra le sue componenti, la mindfulness – ovvero la capacità di osservare pensieri ed emozioni in modo equilibrato e non giudicante – è associata a una minore accettazione della chirurgia estetica, sia per motivi interpersonali che sociali (Nerini et al., 2019). La mindfulness può aiutare a ridurre la tendenza a iper-identificarsi con pensieri di inadeguatezza, che spesso portano a percepire il proprio corpo come bisognoso di cambiamenti drastici. L’eccessiva identificazione con i propri contenuti cognitivi ed emotivi, infatti, può generare un rapporto conflittuale con il proprio corpo, alimentando il desiderio di modificarlo per ottenere approvazione o sentirsi all’altezza degli standard.
Promuovere la self-compassion potrebbe quindi essere una strategia efficace per ridurre il ricorso alla chirurgia estetica, anche attraverso il rafforzamento di un’immagine corporea più positiva. Tuttavia, la maggior parte degli studi finora si è concentrata quasi esclusivamente sulla compassion rivolta a se stessi, trascurando il possibile ruolo della compassion ricevuta dagli altri o diretta verso gli altri. Esaminare in che modo questi tre flussi di compassion si associano all’interesse per la chirurgia estetica rappresenta una linea di ricerca ancora poco esplorata, ma particolarmente interessante. Comprendere questi meccanismi potrebbe fornire indicazioni utili per lo sviluppo di programmi preventivi più mirati e culturalmente sensibili, capaci di favorire un rapporto più sano con il proprio corpo.
Promuovere la compassion per la salute pubblica
In un mondo in cui il corpo è spesso motivo di confronto, giudizio e insoddisfazione, la compassion sembra rappresentare una risorsa potente e trasformativa. Coltivare la compassion verso il proprio corpo non significa negare la sofferenza, ma imparare a rispondere ad essa con gentilezza, consapevolezza e impegno verso il benessere.
Promuovere i tre flussi della compassion potrebbe rappresentare una strada promettente non solo per promuovere un’immagine corporea più sana, ma anche per favorire una maggiore resistenza consapevole alle pressioni estetiche e al ricorso alla chirurgia estetica motivata da ragioni meramente socioculturali. Realizzare programmi di educazione alla compassion nelle scuole, nei servizi sanitari e attraverso i media, inclusi i social media, potrebbe costituire un passo cruciale per tutelare la salute mentale e fisica delle nuove generazioni.
Come società, possiamo scegliere di costruire una cultura che non si limiti a tollerare le differenze corporee, ma che coltivi attivamente rispetto, comprensione e cura verso se stessi e verso gli altri.