Un po’ di autoinganno ogni tanto non fa male, diventa invece un problema quando si tende a raccontarsela un po’ troppo frequentemente.
La situazione a casa è talmente pesante che sono costretto a bere
Mi maltratta spesso, per il forte sentimento che prova per me…
Ero un grande talento, se avessi incontrato altri allenatori avrei sicuramente fatto carriera
Sono a dieta, però oggi è stata una brutta giornata quindi mi merito un dolcetto
Quante volte capita di raccontarsela? Se ricordate “La volpe e l’uva” di Esopo vi è chiaro di cosa sto parlando. Nella famosa favola è un animale a raccontarsela, ma il messaggio era ovviamente diretto a tutti noi. Esopo era consapevole che gli esseri umani sono particolarmente abili ad auto-ingannarsi, raccontare a sé stessi versioni poco verosimili della realtà, se non talvolta palesemente false.
Ma a cosa serve raccontarsela? L’autore che si è occupato maggiormente di studiare il tema dell’autoinganno è lo psicologo evoluzionista Robert Trivers, il quale ha cercato di comprendere quale utilità possa avere tale capacità cognitiva per gli esseri umani. Secondo Trivers, le funzioni dell’autoinganno sono molteplici: il diniego dell’inganno stesso, impersonificare un personaggio pubblico che appaia altruista, produrre racconti interni non obiettivi del comportamento messo in atto e false narrazioni storiche che nascondano le vere intenzioni. L’autoinganno nega una parte di sé non facilmente accettabile, da celare agli altri ma in primis a sé stessi.
L’avvocato interiore
Per comprendere l’utilità dell’autoinganno dobbiamo prima considerare la funzione del pensiero cosciente. Secondo i più recenti studi delle scienze cognitive, la mente cosciente assomiglia a un osservatore a posteriori, un improvvisatore di senso, più che a un agente; ciò significa che molto spesso i nostri pensieri arrivano in un secondo momento a spiegare qualcosa che è già avvenuto, più che rappresentare il motore dell’azione.
La mente non fa altro che interpretare, giustificare, conferire senso al nostro comportamento, esattamente come fa per il comportamento altrui […]. Il compito della mente improvvisatrice è rendere pensieri e comportamenti il più coerenti possibili, rimanere nel “personaggio” meglio che riusciamo. Per far ciò, il nostro cervello, in ogni momento, non fa che sforzarsi di pensare e agire in maniera tale da allinearsi ai nostri pensieri e alle nostre azioni precedenti. (Chater, 2021).
Similmente, Barret (2017) spiega che le nostre emozioni sono il risultato di sensazioni derivanti dal sistema interocettivo –l’affect, a valenza positiva o negativa e ad arousal alto o basso– interpretate poi a livello conscio: secondo la metafora utilizzata dall’autrice, l’affect è seduto al posto di guida mentre la razionalità è un passeggero chiacchierone. Il pensiero razionale quindi conferisce un significato emotivo a quanto già accaduto nel nostro corpo.
La mente inconscia (qui il termine non ha a che fare con la psicoanalisi, ma con la gerarchia dei processi neurali) è in anticipo rispetto alla mente cosciente nella presa di decisioni, la coscienza arriva soltanto successivamente nel corso del processo. In qualche modo, è come se la mente cosciente fungesse da avvocato interiore, che può commentare, giustificare, razionalizzare o bandire dalla consapevolezza i nostri comportamenti, intenzioni e talvolta gli stessi pensieri. Una suggestiva metafora dello psicologo morale Jonathan Haidt (2013) ci aiuta a comprendere questo punto:
Il cervello è un’entità duale, rappresentabile come un elefante e il suo portatore. L’elefante è la parte istintiva, mentre il portatore quella razionale. […] Il portatore è bravo a trovare scuse/giustificazioni/razionalizzazioni per ciò che l’elefante ha già fatto o vuole fare. Non importa se queste motivazioni siano fondate o meno. Procrastiniamo e troviamo scuse tipo: “domani sarò più motivato”, “domani avrò più tempo”. Proviamo a difendere le nostre intuizioni morali sul piano razionale, per esempio tirando in causa presunti danni che in realtà non ci sono. Invece, semplicemente, le intuizioni morali precedono il ragionamento strategico.
Coerentemente con tale prospettiva, nell’autoinganno sono particolarmente coinvolti meccanismi di diniego, proiezione e dissonanza cognitiva. Tendiamo a cercare informazioni che ci diano ragione, evitando e negando quelle che potrebbero smentirci o sgualcire la nostra immagine; ad esempio, accogliamo e valorizziamo –e magari condividiamo sui social– gli articoli che sostengono le nostre stesse idee, trascurando quelli che ci danno torto (gli algoritmi dei motori di ricerca, purtroppo, ci danno una grande mano in questo). Lo stesso meccanismo viene messo in atto con i ricordi: le persone ricreano continuamente le proprie memorie sulla base dell’obiettivo del momento, il quale spesso è proprio mantenere un’immagine positiva di sé stesse. Diverse ricerche dimostrano che tendiamo a rievocare più facilmente i nostri comportamenti corretti rispetto a quelli scorretti, mostrando invece una tendenza opposta quando ricordiamo i comportamenti altrui (Trivers, 2013).
Inoltre, l’autoinganno subentra spesso quando ricostruiamo motivazioni e narrazioni per razionalizzare i nostri comportamenti scorretti e discutibili (Mercier e Sperber, 2011).
È inutile che perda tempo a fare la raccolta differenziata con tutte le industrie che continuano a inquinare.
Vohs e Schooler (2008) hanno effettivamente verificato sperimentalmente che, manipolando una variabile che consenta di ridurre la responsabilità personale, è più probabile che gli individui mettano in atto un comportamento immorale. Ed è proprio ciò che l’autoinganno ci consente di fare, quando attribuiamo il nostro comportamento a contingenze esterne per auto-assolverci. Per alleggerire il peso della responsabilità è necessario attribuire quest’ultima a qualcun altro: il diniego crea un buco nella realtà che ha bisogno di essere riempito. È come se esistesse un’equazione della responsabilità, tale che a una diminuzione di una parte corrisponde necessariamente un aumento da qualche altra (Trivers, 2013). Come a dire “se non voglio che dipenda da me, lo faccio dipendere da qualcun altro”. Proiezione.
È stata la sua gelosia a spingermi a tradirla!
Il diniego porta spesso ad altro diniego, poiché una volta negata la realtà non si torna indietro ammettendo di averla distorta. “Il diniego spinge a continuare a negare, e i costi potenziali aumentano a ogni giro” (Trivers, 2013).
Il meccanismo che genera maggior autoinganno è però l’evitamento della dissonanza cognitiva (Festinger, 1957); quest’ultima consiste in un disagio causato da compresenti cognizioni o pensieri antitetici e per questo in contrasto tra loro. Un disagio che spesso viene gestito proprio attraverso l’autoinganno. Nel caso di cattive abitudini, ad esempio, è molto frequente osservare persone che risolvono in tal modo gli stati di dissonanza cognitiva, come “So che fumare uccide e fumo un pacchetto di sigarette al giorno”. Per uscire da un simile conflitto interno la persona può raccontarsi numerose autogiustificazioni: “Smetterò quando vivrò un periodo meno stressante”, “Fumare mi impedisce di ingrassare”, “Mi tocca fumare a causa del nervoso che mi fanno venire i colleghi”, “Di qualcosa si dovrà pur morire”, “Ci sono vizi peggiori” ecc…
Facciamo consapevolmente qualcosa di sbagliato e dobbiamo trovare una narrazione efficace che lo giustifichi, che allevi il conflitto interiore. Nuovamente, notiamo come la nostra mente assuma il ruolo di avvocato interiore che giustifica i nostri stessi pensieri e azioni, per evitare di farci sentire persone sbagliate o incoerenti.
Tanto più l’autoinganno procede –tramite diniego, proiezione e riduzione della dissonanza– tanto più le persone rischiano di allontanarsi. Trivers (2013) sostiene che “due persone possono partire da una posizione molto vicina riguardo a un certo argomento, ma via via che entrano in gioco forze contraddittorie di dissonanza cognitiva, e ne seguono autogiustificazioni, possono arrivare a due posizioni molto distanti. […]. Questo processo può essere una forza importante che spinge le coppie sposate verso il divorzio più che verso la riconciliazione”.
A volte l’autoinganno può anche assumere una funzione di placebo; recentemente mi è capitato di ascoltare il racconto di una persona che manipola intenzionalmente sull’orologio da polso i dati relativi alle sue ore di sonno, affinché queste risultino maggiori; una volta constatato che il dispositivo indica un buon numero di ore la persona si sente più riposata, pur riconoscendo che quel conteggio non è verosimile. Può sembrare assurdo, ma diversi studi ci raccontano che una pillola utilizzata come placebo può funzionare anche quando il paziente è al corrente dell’inganno (per esempio, Kaptchuk et al., 2010).
Da questa prospettiva, le interpretazioni della realtà sembrano strumenti che l’individuo utilizza al bisogno per creare una narrazione che gli sia più funzionale possibile: giustificare i propri comportamenti e intenzioni, creare una realtà desiderata, avere una buona reputazione, sentirsi in un certo modo. La potenza delle narrazioni è davvero sorprendente!
Inganno me per ingannare te
Von Hippel e Trivers (2011) hanno confrontato molti studi e teorie su bugiardi e liar scout, chiedendosi per quale ragione l’evoluzione avrebbe selezionato la particolare capacità di mentire a sé stessi. L’autoinganno si sarebbe evoluto negli esseri umani fondamentalmente per ingannare meglio gli altri: “Per imbrogliare gli altri, possiamo essere tentati di riorganizzare internamente le informazioni nei modi più improbabili, facendolo per lo più implicitamente […]. Nascondiamo la realtà alla nostra mente cosciente per celarla meglio agli spettatori esterni”. Una sorta di metodo Stanislavskij utilizzato nella vita reale. L’autoinganno ha qui la funzione di ricreare una fittizia realtà interiore, e convincersi di essa, per poi recitarla in maniera convincente. Mentire a sé stessi per poter mentire meglio agli altri; più mi convinco della mia bugia, più è probabile che il mio comportamento pubblico non la sveli.
“Non ho passato l’esame… in fondo è meglio così, avrò modo di studiare meglio”.
Autoingannarsi, prima di ingannare, favorirebbe un minor carico cognitivo e permetterebbe di essere maggiormente credibili. Infatti, la fatica del tenere in mente due rappresentazioni di realtà potrebbe farci scoprire tramite la produzione di indizi di menzogna: sbattere meno le palpebre, gesticolare di meno, fare pause più lunghe durante l’eloquio, tenere un tono di voce più alto e agire con maggior frequenza attività di spostamento (attività irrilevanti che si osservano spesso, anche in altri mammiferi, quando sono in atto due motivazioni opposte). Inoltre, al crescere del carico cognitivo, le persone tendono a lasciarsi sfuggire più spesso commenti e pregiudizi che altrimenti terrebbe per sé (Wegner, 2009). Dunque, il modo migliore per risultare credibili nell’inganno è ridurre il carico cognitivo, censurando la versione “vera” e convincendo prima sé stessi della versione distorta; mentire prima di tutto a sé stessi, convincendosi che la menzogna è la realtà, in modo da alleggerire i processi cognitivi e poter così comportarsi in modo più disinvolto. Il cervello può agire in modo più efficace quando è ignaro della contraddizione in atto (Trivers, 2013).
I costi dell’autoinganno
L’autoinganno è piuttosto diffuso nelle nostre vite e ha una funzione evoluzionistica; all’interno del gruppo, saper ingannare può risultare utile ad accaparrare risorse o a simulare uno status maggiore. Un po’ di autoinganno ogni tanto non fa male, diventa invece un problema quando si tende a raccontarsela un po’ troppo frequentemente: “l’autoinganno sembra avere forti effetti immunitari, di solito in base alla regola che all’aumento dell’autoinganno corrisponde una diminuzione della forza immunitaria” (Trivers, 2013). Secondo Trivers c’è ancora un mondo da scoprire sulle correlazioni tra autoinganno e salute, ma i primi studi sembrano promettenti: a lungo andare l’autoinganno innesca meccanismi psicologici e fisiologici dannosi per chi lo ospita. Ad esempio, sappiamo che gli uomini che negano e nascondono la propria omosessualità manifestano un maggior numero di problemi immunitari (Cole et al., 1996). I benefici dello svelamento, invece, sono storicamente diffusi, basti pensare al ruolo “terapeutico” della confessione, comune nella maggior parte delle religioni sia in forma pubblica che privata (Trivers, 2013).
Da terapeuti, possiamo riscontrare un altro effetto dannoso dell’autoinganno prolungato: la resistenza al cambiamento. Se la persona continua a negare parti di realtà, o comunque racconta a sé stessa una realtà distorta, ecco che tale condizione può rappresentare un grosso ostacolo all’azione. L’autoinganno permette di mostrare una visione di sé diversa agli altri ma soprattutto a sé stessi; in qualche modo, consente di manipolare la realtà ma nel frattempo di mantenere lo status quo, poiché i cambiamenti desiderati avvengono soltanto nella mente. Le fantasie, le menzogne, le interpretazioni distorte possono essere sostitutive; in qualche modo possono bastare. E nel momento in cui i pensieri bastano, non si agisce, non si cambia. Tutto avviene puramente a livello mentale, come un racconto di cui si scrive a proprio piacimento la trama.