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Passoscuro. I miei anni tra i bambini del padiglione 8 (2022) – Recensione

In "Passoscuro. I miei anni tra i bambini del Padiglione 8" Ammaniti ricorda il suo viaggio professionale nelle strutture e nelle istituzioni psichiatriche

Di Sara Santuari

Pubblicato il 20 Gen. 2023

Come racconta nel volume “Passoscuro. I miei anni tra i bambini del padiglione 8”, Ammaniti sceglierà di tornare nel padiglione 8 dell’ospedale romano Santa Maria della Pietà e cercherà di mettere in discussione un intero sistema dotato di una “propria entropia istituzionale”. 

 

Avevo poco più di trent’anni quando discesi volontariamente in quell’abisso. Loro erano bambini e adolescenti con gravi disabilità, e io ero intenzionato ad aiutarli a risalire alla luce del sole, gradino dopo gradino. 

Queste le battute di avvio del nuovo libro di Massimo Ammaniti, medico neuropsichiatra infantile, psicoanalista e professore onorario di Psicopatologia dello sviluppo all’Università La Sapienza di Roma.

“Passoscuro. I miei anni tra i bambini del Padiglione 8” (Ammaniti, 2022) è un romanzo autobiografico, autentico e commovente, in cui l’autore riporta alla memoria, con uno stile semplice e pulito, il suo viaggio professionale all’interno delle strutture e delle istituzioni psichiatriche. Muovendosi tra fatti, ricordi e riflessioni, Ammaniti ripercorre non solo i momenti salienti del suo intenso lavoro, ma anche quelli che hanno segnato un’epoca, tra gli anni Sessanta e Settanta, densa di movimenti politici, rotture e resistenze.

Al centro della narrazione si snodano i ricordi del suo lavoro nel reparto psichiatrico “per minori irrecuperabili” dell’ospedale romano Santa Maria della Pietà, una finestra sugli orrori e sul degrado che i bambini e gli adolescenti lì rinchiusi erano costretti a vivere.

La trama

L’autore ricorda il suo primo incarico al Padiglione 8: come giovane medico appena laureato giudicò l’inferno che gli si palesò di fronte come insostenibile e, pertanto, rassegnò le sue dimissioni dopo un solo giorno. I pazienti, bambini e giovani adolescenti con disabilità di vario tipo, erano chiusi in stanzoni chiamati “sorveglianze”. Qui, coperti solo di un camice, uguale per tutti, erano abbandonati a urla, pianti, crisi di rabbia. Chi dondolava, chi picchiava i pugni, chi era stato legato a un termosifone perché aveva mostrato comportamenti aggressivi. Quelli considerati più pericolosi o senza speranza, si trovavano invece al piano superiore, allettati, con mani e piedi legati.

Sarà solo nel 1974, sei anni dopo, che Ammaniti sceglierà di tornare in quello stesso padiglione, per saldare il “debito con sé stesso” e con quei bambini. Con una specializzazione in neuropsichiatria infantile e un bagaglio di esperienze e conoscenze rinnovato, anche grazie alla guida dei suoi maestri, Giovanni Bollea e Bruno Callieri, il medico cercherà di mettere in discussione un intero sistema dotato di una “propria entropia istituzionale”.

L’obiettivo di Ammaniti: restituire dignità ai pazienti

Di ritorno al Padiglione 8, preso atto che nulla era cambiato dalla sua prima visita, Ammaniti si scontrò subito con le resistenze dell’istituzione a ogni proposta di cambiamento. Spaventate dalla possibilità di veder aumentare il carico di lavoro e ormai assuefatte dalla ripetitività dei loro compiti di sorveglianza, le infermiere, capitanate dalle suore, si mostravano respingenti rispetto a ogni suggerimento di modifica.

Fu con costanza e perseveranza che il giovane Ammaniti iniziò a introdurre piccoli, semplici e nuovi gesti. Liberò i bambini dei loro camici, vestendoli con abiti di uso quotidiano. Con l’aiuto delle infermiere più collaborative istituì il momento dell’appello, in modo che i bambini potessero re-imparare a rispondere al proprio nome, restituendo loro un’identità che non li rendesse riconoscibili solo a sé stessi, ma anche alle persone che si interfacciavano con loro. Con l’aiuto di nuovi volontari, ricchi di uno sguardo fresco e desiderosi di cambiamento, introdusse delle piccole attività che facessero scoprire ai bambini la dimensione del gioco: la maggior parte di loro non aveva mai visto una palla. Le “sorveglianze” cambiarono nome e aspetto, trasformandosi in “soggiorni”.

E fu sempre in questa direzione, con l’obiettivo di liberare i piccoli pazienti dalle maglie oppressive del manicomio, che mai si era aperto al mondo esterno, che Ammanti non si diede per vinto finché non ottenne di poterli portare, per una giornata, a Passoscuro. Nella località balneare laziale, i bambini videro per la prima volta qualcosa di diverso rispetto alle pareti verdognole dei loro stanzoni. Lasciarono, seppur temporaneamente, la loro reclusione, per perdersi in uno spazio aperto il cui unico limite era l’orizzonte nei propri occhi. Quel giorno a Passoscuro, straordinario e a tratti folle, segnò un primo grande passo verso un cambiamento di paradigma.

Il nuovo paradigma si proponeva di rimettere al centro della cura il fattore umano. Ammaniti non poteva accettare la reclusione di bambini bollati come “pericolosi”, abbandonati dalle proprie famiglie, dalla società e dalle istituzioni che utilizzavano la loro complessità come alibi, lavandosene le mani. Considerava, invece, che la relazione e l’educazione dei suoi pazienti non fosse solo una prerogativa etica, ma di cura, al pari della riabilitazione neurologica e della terapia farmacologica. Non poteva fare a meno di pensare che l’apparente irrecuperabilità di quei bambini e ragazzi potesse essere ascritta non solo alla loro disabilità, ma anche alla deprivazione affettiva, sensoriale ed educativa a cui erano stati sottoposti fin dai primi anni di vita.

Propose dunque un approccio olistico, che togliesse i bambini dalle condizioni di squallore e degrado a cui erano ormai abituati, e che invece ne stimolasse la curiosità, le capacità, le spinte relazionali. Le piccole azioni che intraprese durante i suoi anni di lavoro al Padiglione 8 rivoluzionarono la neuropsichiatria infantile e la percezione generale della disabilità e dei disturbi neuropsichiatrici.

Un’epoca di cambiamenti

Tutto il testo si inserisce all’interno di un quadro storico e politico più ampio: in Italia, tra gli anni Sessanta e Settanta era in corso una vera e propria trasformazione della coscienza sociale. Erano gli anni di Franco Basaglia e Adriano Ossicini, dei movimenti di critica contro i servizi pubblici e di istituzione manicomiale, contro gli autoritarismi repressivi e l’inevitabile discriminazione di classe. Le persone povere finivano nei manicomi, senza sapere se ne avrebbero mai visto la porta d’uscita; chi poteva permetterselo, invece, si serviva di cliniche private che ne preservavano “il potere contrattuale”, l’umanità e l’identità.

Assessori, direttori, capi di partito: tutti sembravano restii ad accettare cambi di rotta che mettessero in dubbio tutto il lavoro fatto sino a quel momento. Le proposte erano bollate come figlie di contestatori e sovversivi, desiderosi solo di mettere in dubbio il sistema e gettarlo nel caos.

Fu all’interno di questo contesto che il giovane Ammaniti prese consapevolezza della sua esigenza di impegnarsi dal punto di vista sociale, civile e politico. Prima, con l’iscrizione al partito comunista, poi, con la sua collaborazione con Franco Basaglia e Psichiatria Democratica. Lo scopo? Promuovere una riforma radicale nell’assistenza ai disabili e ai pazienti psichiatrici, che permeasse il tessuto sociale, portando i pazienti fuori dalle istituzioni e garantendo loro dei diritti: all’educazione, alla salute, al perseguimento della felicità. Era tempo di rimettere la persona al centro della discussione e di abbandonare i modelli di reclusione e sorveglianza, già prerogativa delle carceri.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ammaniti, M. (2022). Passoscuro. I miei anni tra i bambini del Padiglione 8. Bompiani.
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