L’alterazione delle coordinate percettive nello Spazio: la percezione degli oggetti, il riconoscimento dei volti, le illusioni spaziali e la confusione mentale.
Tra gli aspetti dell’elaborazione delle informazioni studiati durante i voli spaziali, troviamo l’impatto della microgravità anche sulla percezione dello Spazio, sulle relazioni tra due oggetti esterni, sulla rappresentazione mentale della tridimensionalità e sulla propensione alle illusioni visive geometriche. Tutti questi aspetti sono molto rilevanti, non solo per i neuroscienziati, ma anche per la comprensione dei processi cognitivi di base necessari per un lavoro efficiente nello Spazio. Infatti, l’assegnazione coerente delle coordinate spaziali (ad esempio: “su”, “giù”, “sinistra”, “destra”, “sotto”, “sopra”) di un oggetto percepito è essenziale per la comunicazione con i compagni di viaggio e con il resto della squadra (Mammarella, 2020, pp. 55-58). Per questo tipo di incarico, la rappresentazione dello spazio esprime l’importanza del quadro di riferimento di un oggetto. Sulla Terra sono disponibili diversi segnali percettivi che potrebbero essere usati come tale riferimento, quali le coordinate dello sfondo visivo, le coordinate intrinseche dell’oggetto (o della forma percepita) e le coordinate gravitazionali fornite dai recettori vestibolari e somatosensoriali dell’osservatore. Di solito sorgono pochissimi conflitti tra tutti questi diversi segnali percettivi perché, sulla Terra, sono tutti perfettamente concordanti (Macaluso et al., 2017, pp. 8-9). Nello Spazio, in cui si è sottoposti all’influenza della microgravità, questi diversi segnali percettivi risultano essere tutti discordanti tra loro. Com’è possibile assegnare le giuste coordinate spaziali ad uno stimolo, quando non si hanno punti di riferimento affidabili e quando il nostro cervello riceve segnali contrastanti dai diversi recettori sensoriali? (Landon, Slack & Barrett, 2018, pp. 563- 564). È stato testato un gruppo di astronauti durante una missione spaziale su un compito di verticalità visiva soggettiva e su uno di verticalità percettiva. I risultati ottenuti sono stati successivamente confrontati con quelli di un gruppo di controllo sulla Terra. Il primo compito, studiato per valutare la verticalità percettiva, misura la dipendenza dagli indizi visivi per l’orientamento spaziale. Solitamente questo esercizio consiste nel presentare una linea luminosa su uno schermo di computer ed i volontari devono indicare se la linea sia inclinata verso destra o sinistra rispetto ad una pallina che cade (in questo caso la direzione della pallina che cade è data dalla forza gravitazionale). La verticale soggettiva, invece, sfrutta le coordinate dettate dalla propria posizione corporea (in qualsiasi direzione essa si trovi) per indicare la posizione dello stimolo. Conseguentemente, se noi fossimo nello Spazio e dovessimo indicare le coordinate di uno stimolo in assenza di punti di riferimento certi, risponderemmo dandone la posizione rispetto a noi stessi perché in quel momento, la nostra posizione risulta essere l’unica informazione affidabile. I risultati ottenuti suggeriscono che gli astronauti tendono a fare affidamento sugli indizi corporei rispetto a quelli visivi. Infatti, non sono state rilevate grandi differenze nei due compiti tra il gruppo sperimentale e quello di controllo, ad indicare una capacità del sistema percettivo di procedere con una serie di aggiustamenti alla microgravità per compensare i cambiamenti richiesti dalle condizioni spaziali (Lee et al., 2019, pp. 4-8). Per comprendere meglio questi fenomeni sono stati indagati soprattutto la percezione degli oggetti, il riconoscimento dei volti e le illusioni geometriche.
La percezione degli oggetti
Nello Spazio la sfida principale consiste nella percezione degli oggetti presenti nell’ambiente circostante a causa dell’influenza della microgravità. Questa condizione altera il modo in cui percepiamo l’ambiente producendo sensazioni illusorie con conseguenze persistenti negli astronauti che trascorrono lunghi periodi nello Spazio. Così come la percezione è influenzata dalle condizioni di microgravità, altrettanto il nostro cervello possiede una rappresentazione interna della gravità che gli consente di svolgere funzioni importanti come il controllo adeguato e la pianificazione motoria (Clement, Skinner, Richard & Lathan, 2012, pp. 894-895). Nel corso dell’esperimento di Friederici e Levelt, ad un gruppo di astronauti sono stati presentati degli stimoli visivi costituiti da due palline (una nera ed una bianca). Il compito assegnato agli astronauti era quello di descrivere le relazioni spaziali tra le due palline (ad esempio, “la pallina nera si trova in alto a sinistra rispetto alla pallina bianca”). Questo esperimento è stato proposto agli stessi soggetti prima sulla Terra e poi nello Spazio e, in entrambi i casi, i risultati hanno rivelato una coerente assegnazione di coordinate spaziali. Tuttavia, il quadro di riferimento dominante utilizzato per questo compito è stato alterato; infatti, in orbita, si parla di coerenza e non di “giusto” o “sbagliato” perché, mentre sulla Terra le assegnazioni riportate dai soggetti sono in gran parte basate sulla direzione della forza gravitazionale, nello Spazio è stato scelto un quadro di riferimento egocentrico (non potendone scegliere uno allocentrico). Ovvero, le assegnazioni spaziali erano determinate prevalentemente dalle coordinate retiniche. Quindi, la risposta degli astronauti in orbita rispetto alla posizione delle due palline risultava essere coerente con la loro posizione corporea (Friederici & Levelt, 1990, pp. 253-256). Ad un risultato simile, era arrivato anche un altro studio incentrato sulla percezione della verticalità e dell’orizzontalità. In particolare, sono stati testati cinque astronauti ed un gruppo di controllo su un compito che chiedeva loro di ricordare ed indicare se lo stimolo presentato sullo schermo fosse allineato perfettamente con l’orientamento di una linea presentata in precedenza. Tutti i partecipanti hanno mostrato una buona performance (il classico “effetto obliquo”) a sostegno dell’ipotesi che l’orientamento viene elaborato attraverso diversi tipi di indizi, partendo da quelli propriocettivi fino a quelli gravitazionali. Conseguentemente, quando mancano gli indizi gravitazionali, quelli propriocettivi possono compensarne la perdita (McIntyre, Lipshits, Zaoui, Berthoz & Gurfinkel, 2001, pp. 113-116).
Il riconoscimento dei volti
Interessante è il contributo più recente di Harris sulla percezione della verticalità. Si tratta di un’abilità percettiva fondamentale, in quanto l’essere capaci di elaborare la verticalità ci permette di leggere, di riconoscere gli oggetti ed i volti (Harris, Jenkin, Jenkin, Zacher & Dyde, 2017, pp. 7-9). Ad esempio, è stato studiato il classico “effetto inversione” che si riscontra nel riconoscimento dei volti, ovvero la difficoltà di riconoscere un volto anche familiare se viene presentato a testa in giù. Gli oggetti complessi vengono riconosciuti più facilmente quando presentano un orientamento specifico. Quando viene presentato un viso capovolto, anche molto familiare, viene riconosciuto con maggiore difficoltà rispetto a quando viene presentato in posizione verticale. Fino ad ora non era possibile stabilire se la direzione fornita dalla gravità, dalla retina o dal corpo costituisse il riferimento spaziale coinvolto maggiormente nell’effetto inversione (Tim, Michael & Peter, 2016, pp. 247-249). Si è ritenuto quindi importante indagare se la gravità viene utilizzata come riferimento principe nell’elaborazione degli oggetti (semplici e complessi) e del loro orientamento spaziale. È emerso che il riconoscimento dei volti è un processo molto più sensibile rispetto agli oggetti semplici, all’effetto di inversione. Conseguentemente si è pensato di esaminare il riconoscimento dei volti sia nello Spazio sia sulla Terra per verificare le differenze di elaborazione (Cara & Nicholaa, 2015, pp. 134-135). Sono stati quindi testati diversi astronauti, i quali hanno dimostrato che i volti codificati sulla Terra sono sensibili all’effetto inversione anche quando vengono riproposti una volta giunti nello Spazio. Se la gravità fosse usata come informazione principale per codificare i volti, il riconoscimento in forma eretta o invertita dovrebbe avere una comprensione più facilitata (o disturbata) durante il volo. Ma questo non si è verificato. Al contrario, se la gravità fosse stata utilizzata per assegnare una direzione corretta ad un viso capovolto per riconoscerlo, le successive prestazioni di riconoscimento dei volti avrebbero dovuto dare risultati peggiori durante il volo. Invece, il livello generale delle prestazioni è rimasto lo stesso sia sulla Terra sia in volo. Se ne deduce che la direzione data dalla gravità non sia un indizio utilizzato a Terra per codificare a lungo termine l’orientamento dei volti e non risulti necessario per assegnare una direzione ai volti durante il riconoscimento. Infatti, è stato osservato che i volti mostrati nello Spazio sono codificati con un orientamento preferenziale di tipo verticale piuttosto che orizzontale. Questo succede perché il volto risulta più facilmente riconoscibile se posto in linea parallela rispetto all’orientamento dell’osservatore sia sulla Terra sia nello Spazio. Infatti, l’effetto di inversione che colpisce il riconoscimento dei volti familiari, potrebbe essere basato esclusivamente su una fonte di informazioni di tipo egocentrico come l’orientamento e la direzione della retina dell’osservatore, dati che non vengono modificati nello Spazio (Parr, Taubert, Little & Hancock, 2012, pp. 25-27). Si parla infatti di “orientamento retinico”, ovvero una tipologia di orientamento che non dipende dalla direzione della gravità e della verticalità terrestre, ma dal parallelismo e dalla verticalità tra la retina dell’osservatore e la posizione di un oggetto complesso (come la fotografia capovolta di un viso) (Donatella, Walter & Irvin Rock, 1995, pp. 29). Il fatto che l’effetto di inversione sia ancora presente sulla Terra per i volti mostrati in volo, suggerisce che l’elaborazione di quel viso non può beneficiare dell’opportunità di sperimentare volti e oggetti capovolti nello Spazio, come non beneficia dell’opportunità di riconoscere i volti grazie alla gravità terrestre. Se ne deduce che la gravità non è coinvolta come riferimento preferenziale nel riconoscimento dei volti.
Le illusioni spaziali e la confusione mentale
Lo Spazio può provocare strane reazioni nella mente, ad esempio la sensazione di disorientamento, percezioni distorte, un pensiero più opaco. Queste conseguenze sconvolgenti sono talvolta note come space stupids (Aubert et al., 2016, pp. 4) o space fog e potrebbero potenzialmente mettere a repentaglio le missioni future (Clement Gilles, 2014, pp. 7). Alcune delle percezioni distorte degli astronauti possono essere attribuite allo stress e alla solitudine durante i viaggi nello Spazio. Un equipaggio della stazione spaziale Salyut-5 ha riferito di un odore acre e tossico (che li ha spinti a fare ritorno in anticipo), ma alcuni psicologi hanno suggerito che si trattasse di un’allucinazione causata dalle pressioni sia fisiche sia mentali provocate dalla missione (NASA, 2014, pp. 33). Molte delle strane illusioni sono causate da qualcosa a cui è ancora più difficile sfuggire: la mancanza di gravità. Senza il peso del corpo, il cervello diventa facilmente confuso sul suo orientamento, causando, ad esempio, la strana sensazione di essere permanentemente sottosopra. Durante le fasi iniziali di una missione spaziale, la percezione deve adattarsi ad una serie di cambiamenti in termini di stimolazione sensoriale, che le permettano di adattarsi al nuovo ambiente. La natura delle illusioni spaziali è determinata dal ruolo e dal contributo relativo ai vari tipi di input sensoriali dovuti all’orientamento spaziale. È possibile dunque che, in condizioni di microgravità, emergano errori percettivi e illusioni che poi si risolveranno una volta tornati sulla Terra. Dalle risposte a una serie di questionari somministrati a 104 astronauti, lo studio di Kornilova (1997), ha rilevato come il 98% dei partecipanti riscontrasse una qualche forma di illusione circa la propria posizione, il proprio movimento e il movimento degli oggetti circostanti (Kornilova, 1977, pp. 433-435). In particolare, la percezione dell’orientamento del proprio corpo può cambiare: se sulla Terra la verticale soggettiva è legata alla posizione della testa e del corpo, in orbita anche i piedi possono essere percepiti come parte superiore del corpo. Questo fenomeno viene chiamato “illusione dell’inversione” (inversion illusion) ed è dovuto alla distribuzione dei fluidi che lasciano le estremità inferiori per dirigersi verso il cervello (Mammarella, 2020c, pp. 78-79). Gli studi appartenenti all’approccio cognitivo si sono soffermati su illusioni come quella della massa-dimensione (size mass illusion), che si verifica quando un individuo solleva due oggetti dello stesso peso ma di dimensioni diverse e mostra la tendenza a dire che quello più piccolo è il più pesante. L’illusione è interessante, in quanto si basa sulle aspettative circa il peso presunto di un oggetto (solitamente più è grande più è pesante). Tali aspettative vengono disattese quando si prendono gli oggetti in mano: il soggetto afferma che quello più piccolo pesa di più (Clement Gilles, 2014, pp. 5-6). In condizioni di microgravità, però, il peso non può essere un indizio utile per valutare gli oggetti, in quanto gli stessi devono essere agitati (procedura detta anche “accelerazione degli oggetti”) per valutarne la pesantezza. Clément, nel 2014, ha condotto uno studio di conferma su questa illusione reclutando 12 volontari e chiedendo loro di stimare il peso degli oggetti dopo averli scossi: anche in questo caso si è verificata l’illusione (Clément Gilles, 2014, pp. 86-87). L’obiettivo di questa area di ricerca era anche di indagare la percezione della profondità negli astronauti (durante e dopo il volo spaziale) studiando la loro sensibilità alle figure prospettiche. È emerso che la percezione della profondità è alterata e per questo motivo si parla di “percezione illusoria”. Questa importante ambiguità della profondità è attribuita alla mancanza del riferimento gravitazionale e ancor più dell’elevazione occhio-suolo, necessari per interpretare correttamente i segnali di profondità prospettica. Le illusioni sono una caratteristica comune della percezione visiva e derivano dalla differenza tra le caratteristiche oggettive e quelle soggettive dell’ambiente circostante. Di conseguenza, le illusioni rappresentano un prezioso strumento per esplorare l’adattamento della percezione visiva alla rappresentazione degli ambienti insoliti (Moore et al., 2019, pp. 13-14). Volando senza visibilità, di notte o tra le nuvole, il pilota non può evidentemente contare sulla propria vista, per quanto acuta essa sia e deve ricorrere agli strumenti di bordo. Con il cattivo tempo, il pilota rischia di prendere una stella per un faro o al contrario i fari per le stelle, il bordo curvo di una nuvola per l’orizzonte ecc. Ancora più spesso egli prova la sensazione che il suo apparecchio si inclini, viri o plani (Bernard Weiss, Mark Utell & Paul Morrow, 1992, pp. 242). Egli, inoltre, ha spesso l’impressione che l’aereo continui il proprio volo in posizione capovolta. In queste condizioni non potendo contare sui propri sensi, il pilota si rimette unicamente alle indicazioni dei suoi strumenti, ma ciò non è affatto facile ed egli deve talvolta ricorrere all’autosuggestione per convincersi che sta volando correttamente. Anche lo Spazio cosmico è fonte di frequenti illusioni. Come è noto, l’assenza di peso è preceduta da un’accelerazione, forza invincibile che incolla il cosmonauta allo schienale del sedile. Ma l’organismo si oppone a questa forza, i muscoli si tendono per staccare il corpo dal sedile. Quando l’assenza di peso si manifesta, i muscoli restano attesi per inerzia ed è allora che il cosmonauta prova la sensazione, inevitabile ma erronea, di volare sulla schiena o con la schiena in basso. Se i muscoli della schiena si decontraggono gradualmente, il passaggio all’assenza di peso non genera simili illusioni. Tuttavia, quando il sistema nervoso è incapace di inibire l’informazione alterata proveniente dall’apparato otolitico, le rappresentazioni erronee possono persistere abbastanza a lungo. Basandosi su considerazioni teoriche di ordine generale, Tsiolkovskij (fondatore della astronautica) aveva già formulato l’ipotesi che in assenza di peso l’uomo sarebbe stato vittima di diverse illusioni e che avrebbe provato difficoltà a orientarsi nello spazio. Tuttavia, per insolite che fossero queste condizioni, egli stimava che si sarebbe potuto adattare ad esse sostenendo che con il tempo queste illusioni sarebbero scomparse. Mentre alcuni astronauti durante il volo non perdono la loro capacità lavorativa accusando semplicemente uno stato di debolezza come se stessero sollevando un peso, altri hanno l’impressione di cadere, di capovolgersi e di restare sospesi con la testa in basso. Queste illusioni generano un senso di inquietudine e le persone che ne sono vittime, perdono la capacità di orientarsi nello spazio e si fanno un’idea errata del mondo circostante. Questo stato solitamente dura pochi secondi e cede subito il posto, in alcuni casi, ad una sensazione di euforia. I soggetti dimenticano così il programma e manifestano improvvisamente una felice eccitazione. Tuttavia, la percezione dello spazio e degli oggetti circostanti non è la sola a modificarsi. In alcuni individui si nota un’alterazione di quello che può essere definito lo schema corporeo, vale a dire della rappresentazione della sua forma e delle sue dimensioni, della grandezza assoluta e relativa delle sue diverse parti, dei loro rapporti reciproci e dei movimenti degli arti. Questo gruppo comprende anche gli individui che in uno stato di imponderabilità possono provare una sensazione di isolamento e di impotenza. Quando il disorientamento e le illusioni spaziali sono particolarmente intense, queste illusioni persistono durante tutta la fase dell’assenza di peso e si accompagnano talvolta a sintomi di mal di mare. Talvolta l’illusione di cadere in un abisso è talmente pronunciata da ispirare sensazioni di terrore da stimolare notevolmente l’attività motoria e da far perdere ogni capacità di orientamento. Questa reazione psichica ricorda la sindrome della fine del mondo, caratteristica di alcuni disturbi mentali, in cui i pazienti riferiscono la sensazione di “camminare galleggiando nell’aria, di non sentire il proprio corpo che diventa leggero come una piuma, imponderabile”, sintomo plausibilmente legato a disfunzioni cerebrali e all’alterazione delle informazioni trasmesse al cervello dagli organi di senso (Gagarin & Lebedev, 2016, pp. 196-197). L’assenza di peso provoca anche una notevole alterazione delle informazioni proveniente dai recettori (dalla pelle, dal tessuto cellulare sottocutaneo e dai vasi sanguigni) incaricati di percepire l’effetto della pressione. Dato che in assenza di peso gli sforzi muscolari necessari al mantenimento della posizione verticale diventano senza oggetto, anche il flusso di impulsi nervosi emanati dall’apparato muscolare si modifica: da ciò la comparsa di ogni tipo di illusioni, il disorientamento nello Spazio e la modificazione dello schema corporeo (Hinkelbein et al., 2020, pp. 13-14).
Traendone le conclusioni
In risposta ai fenomeni relativi alla percezione degli oggetti, al riconoscimento dei volti ed alle illusioni, esistono due possibili teorie, tra le quali attualmente non è ancora possibile scegliere a causa della mancanza di studi più approfonditi. La prima teoria riguarda il fatto che i livelli di stress durante il volo possono ostacolare gravemente i processi di apprendimento. Infatti la permanenza nello Spazio provoca l’insorgenza di deficit dell’apprendimento e una riduzione della capacità di memorizzare le informazioni (Koppelmans et al., 2016, pp. 4-5). La seconda teoria prevede che la microgravità possa influenzare la fase iniziale nella codifica degli oggetti complessi, senza però comportare l’effetto inversione (Said Can et al., 2020, pp. 16-18). Infatti, le prime fasi di elaborazione e di codifica a lungo termine dei volti sulla Terra potrebbero essere determinate con il riferimento gravitazionale. In condizioni di microgravità queste prime fasi sarebbero disturbate e, di conseguenza, la codifica a lungo termine potrebbe essere insufficiente. In conclusione, se ne deduce che la gravità rappresenti un’informazione principe nella codifica degli oggetti complessi e, in particolare, di volti. Sembra che la codifica a lungo termine non sfrutti direttamente l’orientamento gravitazionale, ma piuttosto l’orientamento retinico. Utilizzando questo tipo di riferimento, il cervello risulta essere più dipendente dalla ripetizione e dalla frequenza di una specifica esperienza piuttosto che dalle caratteristiche ambientali come la gravità.