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La psichiatria fenomenologica: la prospettiva di Van Den Berg 

Lo psichiatra fenomenologico cerca di mettere da parte "il formalismo della coscienza", per poter intercettare le percezioni soggettive

Di Francesco Luigi Gallo

Pubblicato il 17 Ott. 2022

La psichiatria organicista, che s’inserisce nel quadro delle scienze obiettive e naturali diventando mera scienza di fatti psicologici, non tematizza (e non riuscirà mai a farlo, dalla prospettiva organicista) quell’”esperienza originaria che noi abbiamo del nostro corpo” nella sua intenzionalità col mondo che è, bisogna sottolinearlo, “il suo correlato e il suo indispensabile ambiente”.

 

Che ne è della soggettività oggi, nel “regime della funzionalità” e nell’”età della tecnica”?

La tecnica, oggi, non è più uno strumento a disposizione dell’uomo: “non più l’esperienza che, reiterata, mette capo alla procedura tecnica, ma la tecnica come condizione che decide il modo di fare esperienza. Qui assistiamo a un capovolgimento della soggettività: non più l’uomo soggetto e la tecnica come strumento a sua disposizione, ma la tecnica che dispone della natura come suo fondo e dell’uomo come suo funzionario” (U. Galimberti, Psiche e techne, p. 354).

La tecnica, però, non è altro che l’espressione della “ragione scientifica” (ivi, p. 384) la quale dissolve “le differenze qualitative tipiche del mondo-della-vita in una quantificabilità universale” (ivi, pp. 385-386).

Nel ’62 de “La crisi delle scienze europee” Husserl scrisse:

La natura fisico-matematica è la natura obiettivamente vera nel senso della scienza naturale galileiana; dev’essere questa la natura che si manifesta nelle apparizioni meramente soggettive. È chiaro, e a questo fatto abbiamo già accennato, che la natura delle scienze esatte non è la natura realmente esperita, la natura del mondo-della-vita. Essa è il prodotto di un’idealizzazione, di un’idea sustruita alla natura realmente intuitiva (p. 243).

Ma se la ragione scientifica non può intendere il mondo se non “in termini di pura quantità”, allora che ne è di “quel ‘fiume eracliteo’ meramente soggettivo e apparentemente inafferabile” (E. Husserl, La crisi delle scienze europee, p. 183) del quale ha parlato Husserl? Che ne è di quel mondo “fluente-costante che ‘abbraccia’ tutti i nostri fini, transitori o permanenti, così come abbraccia preliminarmente la coscienza intenzionale dell’orizzonte”? Che ne è, infine, delle persone “pre-scientifiche”, cioè degli uomini che quotidianamente hanno a che fare con un mondo vario, complesso, sfumato, imprevedibile e ricchissimo di rimandi e chiaroscuri, al quale sono essenzialmente ed intenzionalmente legati nel quale non vigono previsioni, esattezze e modellazioni astratte, ma solo intuizioni meramente soggettivo-relative?

Per rispondere a queste domande cominciamo con il considerare l’interessante riflessione sul “meramente” dell’espressione appena usata:

Il primum reale è l’intuizione “meramente soggettivo-relativa” della vita pre-scientifica nel mondo. Certo, per noi, il “meramente” ha una sfumatura di spregio che esprime la diffidenza tradizionale. Ma nella vita pre-scientifica stessa questa sfumatura scompare; qui il “meramente” sta a indicare una sicura verificazione, un complesso di conoscenze predicative controllate e di verità precisamente definite secondo le esigenze imposte dai progetti pratici della vita, i quali ne determinano il senso. Lo spregio con cui tutto ciò che è “meramente soggettivo-relativo” viene trattato dagli scienziati al servizio di un ideale di obiettività non cambia assolutamente nulla al suo modo d’essere, come del resto non cambia nulla il fatto che agli scienziati stessi questo elemento deve essere di comodo, visto che vi ricorrono tanto spesso e inevitabilmente. (ivi, p. 154).

Anche (forse soprattutto) la psicologia, nel suo tentativo di allinearsi al metodo delle scienze della natura non poté evitare l’eclissi dell’uomo dietro la sua idealizzazione obiettiva e scientifica:

La psicologia doveva fallire perché avrebbe potuto assolvere al suo compito, quello di un’indagine sulla concreta e piena soggettività, soltanto attraverso una riflessione radicale e scevra di pregiudizi, che avrebbe necessariamente dischiuso la dimensione trascendentale-soggettiva (ivi, p. 235).

Ma per giungere a questo, continua Husserl, la psicologia avrebbe dovuto:

[…] interrogare originariamente il che cosa e il come delle anime – innanzitutto delle anime umane – il loro modo di essere nel mondo, nel mondo-della-vita, il modo in cui “animano” i corpi propri, in cui sono localizzate nella spazio-temporalità, il modo in cui ciascuna “vive” psichicamente in quanto ha “coscienza” del mondo in cui vive e in cui è cosciente di vivere; il modo in cui ciascuna esperisce il “suo” corpo non soltanto come un corpo particolare, bensì, in un modo assolutamente peculiare, come il “corpo proprio”, come il sistema degli “organi” che essa muove egologicamente (nel suo agire), il modo in cui essa “interviene” (eingreift) nel mondo circostante di cui è cosciente, nella forma dell’”io spingo”, dell’”io trascino”, dell’”io sollevo”, questo e quello, ecc. (ivi, p. 235).

Tutte queste complesse considerazioni spariscono di fronte a una psicologia che, sul modello delle scienze naturali, “concepì l’anima – cioè il suo tema – come un che di reale nello stesso senso della natura corporea, che era il tema delle scienze della natura” (ivi, p. 236). Il risultato non poteva che essere disastroso:

Le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto (ivi, p. 35).

La psichiatria organicista, che s’inserisce nel quadro delle scienze obiettive e naturali diventando mera scienza di fatti psicologici, non tematizza (e non riuscirà mai a farlo, dalla prospettiva organicista) quell’”esperienza originaria che noi abbiamo del nostro corpo” nella sua intenzionalità col mondo che è, bisogna sottolinearlo, “il suo correlato e il suo indispensabile ambiente”:

Se Leib deriva dall’antico leiben, da cui leben, cioè “vivere”, non possiamo pensare che il corpo assuma rilevanza psicologica se lo conosciamo cartesianamente come “Pura estensione e movimento” e non come quell’intenzionalità, dalla scienza mai tematizzata che ha nel mondo il suo correlato e il suo indispensabile ambiente (U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, p. 23).

Dal passo di Galimberti emerge un fatto drammatico: lo psichiatra e il ‘paziente’ parlano due linguaggi differenti. Lo psichiatra si riferisce ad una idealizzazione scientifica del ‘paziente’ e difatti è sordo alle sue – spesso angosciose – richieste di aiuto. Il ‘paziente’, d’altra parte, non si sente compreso (si rammenti la differenza tra erklären e verstehen di K. Jaspers), perché parla di un corpo, di un mondo e di sensi che lo psichiatra organicista non vuole e non può prendere in considerazione: “nella miseria della nostra vita”, ha scritto Husserl, “questa scienza non ha niente da dirci” (E. Husserl, La crisi delle scienze europee, p. 35):

Essa [scil. la scienza] esclude di principio proprio quei problemi che sono i più scottanti per l’uomo, il quale, nei nostri tempi tormentati, si sente in balìa del destino; i problemi del senso o del non-senso dell’esistenza umana nel suo complesso. […] Che cos’ha da dire questa scienza sulla ragione e sulla non-ragione, che cos’ha da dire su noi uomini in quanto soggetti di questa libertà? Ovviamente, la mera scienza di fatti non ha nulla da dirci a questo proposito: essa astrae appunto da qualsiasi soggetto (ivi, pp. 35-36).

Fu J. H. Van Den Berg, nel testo ormai classico “Fenomenologia e psichiatria”, a illustrare con un caso concreto concernente un giovane ‘paziente’ in che senso la prospettiva dell’uomo sofferente e quella della medicina organicista sono radicalmente inconciliabili. Il testo in questione si apre con il racconto della storia di un giovane paziente che accusava una serie di ‘sintomi’ angoscianti e invalidanti. La percezione del mondo esterno era sicuramente distorta: “lo aveva perseguitato un’impressione sempre più intensa che le case fra cui passava fossero sul punto di cadergli addosso; esse gli parevano più scure e più vecchie di quanto le avesse immaginate e malconce come se fossero state devastate”. La strada che percorreva abitualmente gli sembrava larga e vuota e le persone erano percepite come lontanissime e distanti. Una tremenda tachicardia lo angosciava costantemente e una invalidante debolezza e vertigini gli impediscono anche una semplice passeggiata.

Questo caso è emblematico perché permette di convalidare, in modo anche abbastanza chiaro, quanto Husserl ha sostenuto nella “Crisi delle scienze europee”. Inutile spiegare al giovane paziente che la strada non è desolata, che gli altri non sono infinitamente distanti e appena percettibili, che le case non sono sul punto di crollare, che il suo cuore è perfettamente sano e che il suo equilibrio non ha niente che non va. Van Den Berg non può fare a meno di notare che “ciò che per il paziente è realtà irrefutabile, al nostro esame “attento” e “oggettivo” si rivela inesistente” (ivi, p. 18), ma allo stesso tempo non si pone in ‘rotta di collisione’ con le dispercezioni e false assunzioni del paziente ma, al contrario, finge di accettarle e si sforza massimamente di comprenderle a partire dalla sua prospettiva:

Riusciamo invece a gettare uno sguardo nella sua soggettività solo quando lo invitiamo a descrivere gli oggetti, a darci una descrizione del suo mondo. Non del mondo come si rivela a un esame “attento” e “oggettivo”, ma il mondo come appare a quell’altro modo di osservazione immediata, spontanea, quotidiana. L’esame oggettivo e attento distrugge la realtà della nostra esistenza, e ha ostacolato enormemente lo sviluppo della psicologia (ivi, p. 48).

E questo perché:

Nella sua visione del mondo, il paziente rivela la propria condizione. La sua esistenza è veramente sull’orlo di un crollo, ogni cosa che appartiene al suo è vecchia e decrepita; egli vive con i ricordi di un tempo svanito, è un anacronismo vivente. Che strade e piazze gli appaiano grandi e vuote in maniera terrificante è l’espressione letterale del suo stato soggettivo: egli è solo, privo di contatti con la realtà viva, le cose sono distanti, straniere, ostili. Non potrebbe averci descritto meglio, con maggior verità e precisione, la sua malattia psichica (ivi, p. 53).

Lo stesso dicasi del corpo. Lo sguardo del fenomenologo, a differenza di quello dello psichiatra organicista, non si pone di fronte il soggetto sofferente per osservarlo ‘dall’esterno’, non si basa più su quanto dichiarato da amici e parenti, ma si mette al posto suo, nel suo mondo:

Per la prima volta nella storia della psichiatria lo psichiatra non si mette dalla parte del profano, degli amici e dei parenti. Non dà del paziente un giudizio affrettato, ma si mette al suo posto cioè nel suo mondo (ivi, pp. 53-54).

I fenomenologi sanno molto bene che il corpo sentito e vissuto preriflessivamente non è il corpo preso in considerazione dal fisiologo o dal chirurgo:

Incontrando il corpo non come oggetto d’indagine ma come soggetto di vita, il metodo fenomenologico è l’unico che consente di accedere al corpo nella sua specificità psicologica, a cui non possono giungere le scienze naturali per la natura oggettivante del loro metodo (U. Galimberti, Psichiatria e fenomenologia, p. 196).

È questo il motivo per il quale il paziente di cui parla Van Den Berg (e con lui tutti coloro che vivono situazioni psicologicamente disagevoli e angosciose) ben non comprende le rassicurazioni degli specialisti che gli assicurano che dal punto di vista organico non è stata riscontrata alcuna anormalità e “che non c’è nulla fuori posto”. È vero quello che ha scritto Borgna:

L’ansia e il cuore sono dunque strettamente correlati: non c’è stato d’ansia che non si rispecchi nel cuore: modificandone la frequenza e il ritmo. […] Dall’ansia al cuore, e dal cuore all’ansia, in una circolarità senza fine che esprime fino in fondo, e sigilla, la ragione d’essere psicosomatica del disturbo: nella sua inconfondibile reciprocità di azione che sfida ogni riduzionismo monistico e ogni separazione fra psichico e somatico (E. Borgna, Le figure dell’ansia, Feltrinelli, Milano, 2015, p. 75).

Ma è altrettanto vero che il cuore di cui parla il paziente di Van Den Berge il cuore di cui parla il cardiologo non sono la stessa cosa:

[…] medico e paziente parlano di due organi completamente diversi. Il paziente parla del cuore di cui si dice che “è a destra” o che non è più lì – mentre il medico non riesce a riscontrare il più lieve spostamento – del cuore che può “saltare in gola”, “cadere”, essere “spezzato” da una parola, un gesto, uno sguardo, mentre il patologo-anatomista non è in grado di trovar traccia di questa terribile rottura; del cuore che può essere “sano” anche quando il cardiologo mostra una faccia preoccupata. E che può benissimo essere “malato” anche quando tutti i cardiologi del mondo assicurano unanimemente che l’organo da loro esaminato è in condizioni perfette (J. H. Van Den Berg, Fenomenologia e psichiatria, p. 60).

Nella prospettiva fenomenologica lo psichiatra e il suo ‘paziente’ con-vivono in una medesima dimensione cosicché “la conoscenza dei modi di essere e di soffrire non è la conseguenza di una unilaterale iniziativa (diagnostica) da parte del medico; ma è l’espressione di una contestuale (di una contemporanea) partecipazione da parte del medico e da parte del paziente (della paziente): in una circolarità ermeneutica che trascina medico e paziente in una comune ricostruzione conoscitiva” (E. Borgna, Le figure dell’ansia, p. 183).

Il fenomenologo comprende (verstehen) bene che il cuore del ‘paziente’ è effettivamente malato, nonostante le spiegazioni (erklären) del medico, perché comprende che ad essere afflitto da un male non è l’organo fisico, ma il centro “patico” (J. H. Van Den Berg, Fenomenologia e psichiatria, p. 60). Lo psichiatra fenomenologo, inoltre, comprende bene che anche le vertigini e la debolezza affliggono davvero il paziente, nonostante lo scetticismo del neurologo che non trova affatto conferme organiche del male che lo affligge:

Il neurologo non riscontra nessun vizio organico; ma questo è un fatto che non ci sorprende più: il martelletto con cui il medico saggia i riflessi del paziente non batte sulle membra di cui quest’ultimo parla quando dice – in un senso diverso, assai più generale – che gli “mancano le gambe”. Egli non è più capace di “tenersi in piedi” nella vita, la sua “posizione è estremamente instabile”, il suo “equilibrio” è in realtà seriamente compromesso (ivi, p. 61).

Queste profondissime considerazioni di Van Den Berg riconfermano sia quanto L. Binswanger ha sostenuto ne “La concezione eraclitea dell’uomo”: “La scienza dell’uomo, sia che vogliano chiamarla psicologia in senso lato o antropologia esistenziale, non può “scalvare” il fenomeno del mondo” (p. 99):

La psicologia non ha a che fare né con un soggetto privo di mondo (che può essere pensato soltanto come un oggetto), né con la “coscienza in generale”, bensì con l’esistenza umana (ivi, p. 101).

Sia quanto Galimberti ha giustamente scritto sul corpo fenomenologicamente inteso:

Il pensiero assoluto, che oggettiva corpo e mondo riducendoli rispettivamente a idea di corpo e a idea di mondo, è la razionalizzazione astratta di quell’originario sentirsi con un corpo dischiuso a un mondo, è l’idealizzazione di quell’originario accoppiamento del nostro corpo con le cose. È per questo accoppiamento che il mondo è “umano”, non nel senso decadente dell’espressione, ma nel senso che le cose del mondo portano con sé i segni delle intenzioni proiettate dall’uomo, che così cessa di essere un soggetto pensante “acosmico”, perché le condizioni della posizione di un oggetto non sono solo mentali, ma si radicano nella sensazione, nel sentimento, nella volontà, nell’azione, per cui, come scrive K. Koffka: “Un oggetto appare attraente o ripugnante prima di apparire nero o azzurro, circolare o quadrato”.

Questa interazione esistente tra corpo e mondo è ignota al pensiero oggettivo che, attento alla sola dimensione quantitativa, non sa spiegare come le qualità irradino intorno a sé un certo modo d’esistenza, un certo potere ammaliante che condiziona ad esempio l’azione motoria del nostro corpo, per cui il rosso e il giallo sono favorevoli all’abduzione e il verde e il blu all’adduzione, per cui una qualità attrae il corpo, un’altra lo ritrae, una significa sforzo e violenza, l’altra pace e riposo. Questo ci dice che il soggetto, prima di porre gli oggetti, simpatizza con essi; che prima del cielo del geografo c’è il cielo reale che non ispeziono, ma da cui mi lascio assorbire; che prima di un pensiero puro c’è un corpo terreno. (U. Galimberti, Il corpo, p. 122).

Lo sguardo fenomenologico dello psichiatra deve essere in grado di mettere da parte “il formalismo della coscienza” e saper intercettare quelle percezioni soggettive che si danno solo nella camaleontica ed intensa vita quotidiana del corpo impegnato attivamente nel mondo, nel suo mondo. Ecco come la condizione esistenziale del paziente di Van Den Berg risulta, dalla prospettiva fenomenologica, profondamente più comprensibile e decisamente più coerente.

In conclusione si può affermare che la tematizzazione del mondo-della-vita, inteso come “fondamento” delle verità logico-teoretiche (cfr. Husserl, La crisi delle scienze europee, p. 153), ha fissato lo spazio d’azione della pratica psichiatrica che, per risultare davvero terapeutica, dovrà saper guardare oltre le sustruzioni e idealizzazioni delle scienze obiettive mirando alla comprensione di quelle esperienze soggettive, pre-scientifiche e pre-logiche che sostanziano la storia dei vissuti umani.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Binswanger L., (1970). Per un’antropologia fenomenologica, Feltrinelli, a cura di F. Giacanelli, prefazione di U. Galimberti, Milano.
  • Borgna E.,(2015). Le figure dell’ansia, Feltrinelli, Milano.
  • Galimberti U., (2011). Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano.
  • Galimberti U., (2002). Il corpo, Feltrinelli, Milano.
  • Husserl E., (2008). La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, Il Saggiatore, trad. it. di E. Filippini, prefazione di E. Paci, Milano.
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