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Dopo la violenza. Lo stupro e la ricostruzione del sé (2021) di Susan J. Brison – Recensione

Il titolo 'Dopo la violenza' punta i riflettori su ciò che viene dopo uno stupro: frustrazione, senso di impotenza, insicurezze, pregiudizi e stereotipi

Di Claudio Lombardo

Pubblicato il 04 Mar. 2022

Con il titolo Dopo la violenza la scrittrice vuole mettere i riflettori soprattutto su tutto quello che viene ‘dopo’ la violenza: frustrazioni, senso di impotenza, insicurezze, pregiudizi e stereotipi, tra il racconto e i silenzi delle risposte non date alle domande delle vittime.

 

I racconti pongono sempre un’introflessione speculare al lettore che viene reso capace di percepire gli scorci di disagio delle vittime: la vaga innocenza incomunicabile, la costrizione, l’immaturità del male, l’intelaiatura muta ricacciata all’interno di sé stessi… è un grido terrificante! Un grido che, grado a grado, indica lo spegnersi delle parole e dei significati del mondo, si assorbe dalla sostanzialità interiore e afonica figurata nella carica del dolore che spazza in un attimo tanti anni passati a costruire una pienezza interiore. È una circostanza che nasce e sedimenta, che inizia da un punto zero con la sua metastasi… proprio nell’attimo della violenza (Claudio Lombardo).

Dopo la violenza è un racconto dove l’osceno e il sublime convivono. L’osceno della violenza e il sublime della narrativa, del denunciare pubblicamente, di reagire a severe avversità quali possono essere il giudizio degli altri o la vergogna di sé stessi. Una tipologia di violenza che, a differenza di altre, lede l’intimità della persona, sia sotto il profilo corporeo che, ancor più – e a volte irrimediabilmente – su quello psicologico.

Con questo titolo la scrittrice vuole mettere i riflettori soprattutto su tutto quello che viene ‘dopo’ la violenza: frustrazioni, senso di impotenza, insicurezze, pregiudizi e stereotipi della cultura tra memoria e oblio, ricordo e rimozione, tra il racconto e i silenzi delle risposte non date alle domande delle vittime.

Le considerazioni, di profondo taglio dialettico e facilmente assimilabili, fronteggiano scogli percettivi superati solo da una narrazione dettagliata che rende fosforescenti quelle immagini mentali che sono annebbiate da stereotipi, pregiudizi o dall’ignoranza dell’esperienza che nelle parole, nel detto, trova un modo per spiegare l’inspiegabile, per confortare ciò che non capisce, per tentare di cancellare la persistente paura di una realtà immorale scritta sul corpo della vittima.

È così che inizia il libro, con un cambio di prospettiva che manda in frantumi alcune credenze popolari sullo stupro. Nondimeno è coinvolta anche la scienza, o meglio chi fa scienza….

Esempio è uno scorcio del libro: ‘Diversamente da altri — ad esempio Sharon Lamb (professore americano nel Dipartimento di Counseling e Psicologia Scolastica presso l’Università del Massachusetts Boston) — che pensano che le diagnosi mediche sulle vittime di violenza sessuale ne sviliscano (o addirittura ne ledano) l’agentività, io ho provato un sollievo enorme quando mi sono resa conto di avere tutti i sintomi del DPTS (‘Disturbo Post-Traumatico da Stress) e ho saputo che esistevano prove che si trattasse di un disturbo ‘neurologico’, curabile con farmaci. C’è speranza, ho pensato, è una questione chimica! Dopo aver battagliato per i primi sei mesi cercando di sentirmi meglio senza supporto medico, è stato liberatorio pensare di avere un danno fisico’.

Continua la scrittrice: ‘I sintomi del DPTS smentivano il dualismo latente che ancora pervade l’atteggiamento predominante della società nei confronti del trauma, e cioè l’idea che le vittime dovrebbero tirarsi su, gettarsi il passato alle spalle e andare avanti con la propria vita. L’ipervigilanza, le esagerate risposte di allarme, l’insonnia e altri sintomi del DPTS non erano psicologici, se con questo si intende che fossero sotto il mio controllo cosciente, più di quanto non lo fossero il mio battito cardiaco e la mia pressione sanguigna’.

L’autrice mette in risalto una questione da me affrontata con altri articoli, ovvero la distinzione tra quello che è corporeo e quello che non lo è. Una distinzione molto spesso non chiara anche in ambito specialistico.

Altresì è importante comprendere come i ‘limiti’ (sicurezze, barriere, difese) vengono compromessi nel momento in cui la vittima è incapace di placare l’ira dell’aggressore con tutte le strategie messe in atto, fino ad arrivare all’estrema passività dell’implorazione, che spesso sortisce l’effetto di amplificare l’ira dell’aggressore. In tutto questo, come scrive l’autrice, «I confini del mio corpo sono i confini del mio Io», nel momento in cui questi confini vengono cancellati da un trauma ha inizio la disintegrazione del sé: ci si sente perennemente in pericolo, si perde di autostima e agentività. La persona è ridotta a una cosa. (Su questo punto viene citata Améry che paragona la tortura allo stupro, un accostamento appropriato, non solo perché entrambi considerano la vittima come oggetto e la traumatizzano, ma anche perché il dolore che si infligge la riduce a pura carne, a qualcosa di solamente fisico).

Ma la questione più indegna, quasi surreale, con cui deve fare i conti la vittima (e le persone che ha intorno) è la nuova identità, il cambiamento che il trauma trasmette: ‘Il trauma mi ha cambiata in modo irreversibile, e se troppo spesso insisto perché i miei amici e la mia famiglia lo riconoscano, è perché temo che non sappiano chi sono’.

In definitiva questo libro racconta una solitudine diversa da quella collettivamente percepita, è la solitudine dello stupro e del suo processo di guarigione in cui l’atto della narrazione e testimonianza integra il cambiamento, ma anche l’esperienza consentendo così di vivere un futuro, seppur diverso, con maggiore armonia.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Brison S. J. (2021). Dopo la violenza. Lo stupro e la ricostruzione del sé. Il Margine.
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